La lunga crisi economica europea e la politica che non muove un dito…

L’ultimo bollettino della Bce svela che nell’Eurozona le politiche di bilancio pubbliche drenano denari all’economia. Ogni tentativo di scalfire il rigore viene sepolto dai “no”. Intanto, l’idea di una rottura dell’euro continua a strisciare. E non solo tra populisti e demagoghi a Bruxelles, l’Italia ha ottenuto, pare, un po’ più di fiato sul bilancio, ma interpretare la concessione come un segnale in più che l’Europa si è lasciata alle spalle l’epoca dell’austerità è sbagliato.
Il bollettino appena pubblicato dalla Bce spiega che il 2016 è un anno in cui, collettivamente, i governi europei, al contrario, hanno stretto la cinghia, con un taglio pari allo 0,5 per cento del Pil dell’eurozona. Non bruscolini: sono stati complessivamente drenati 500 miliardi di euro dall’economia. Nel 2017, andrà solo un poco meno peggio: un salasso di 2-300 miliardi. Qualcosa sarà ridato, poi, nel 2018 e 2019. In buona sostanza, nei prossimi tre anni la finanza pubblica registrerà un ruolo zero nell’economia dell’eurozona. Visto che lo sviluppo è inchiodato ad un magro 1,6-1,7 per cento l’anno e che l’inflazione, ancora nel 2019, viaggerà su ritmi simili, uno si chiede in che bolla mentale viva la classe dirigente europea. Infatti, il bollettino della Bce reclama iniziative di spesa da parte di paesi come la Germania e l’Olanda, che hanno risorse da spendere. La Commissione di Juncker ha fatto un passo in più proponendo di rovesciare la tendenza, restituendo nel 2017 quello che è stato tolto nel 2016, con uno stimolo fiscale, pari allo 0,5 per cento del Pil europeo. Ma dai governi è venuto un secco “nein”. L’Europa continuerà a guardare alla propria economia, senza muovere un dito. Anche se la posizione di finanza pubblica “neutrale” (nessuno stimolo) come piace ai tedeschi, non significa impatto zero: perché, intanto, il conto corrente con l’estero dell’eurozona continua a muoversi a livello di attivi record, segno di un economia che, anche nel settore privato, complessivamente risparmia più di quanto investa. Niente di tutto questo è una novità. Nella lunga crisi del progetto europeo, questo scontro totale e insormontabili fra rigoristi e no, questa interminabile paralisi decisionale e strategica che blocca ogni svolta decisa in un senso o nell’altro (a prescindere dai meriti delle due opzioni) rischia di avere un peso sempre più decisivo. Forse, infatti, lo scenario di un progetto europeo preso d’assalto da torme di populisti e da una demagogia da quattro soldi non riesce più a rappresentare tutta la realtà. Dubbi, riserve, paure, insofferenze sono assai più diffuse. Nei giorni scorsi, la Deutsche Bank, ovvero la più grossa e la più internazionale delle banche tedesche, ha diffuso un rapporto sui “Fondamenti del successo tedesco”. Firmato dai due massimi responsabili del servizio studi, il rapporto ha un tono trionfalistico e una pervicace sordità alle critiche al modello tedesco (tipo quelle di Draghi o Juncker) che può innervosire. Ma conta la conclusione: la Germania continua a trarre dall’euro più vantaggi che svantaggi. Senza moneta unica svanirebbero 1 miliardo di euro di crediti con gli altri paesi e bisognerebbe scontare una rivalutazione del 20-30 per cento di una nuova moneta nazionale. Però “l’assenza di aggiustamenti o sviluppi politici in altri paesi che mettessero in discussione le basi dell’intero progetto” potrebbero portare “ad un riesame a medio termine”. Raramente era stato detto in modo così chiaro. C’è anche chi è più netto. Un sondaggio dell’Ifo poneva la domanda (probabilmente non casuale) “l’Italia resterà nell’euro?” a cento economisti tedeschi, non politici usciti dal nulla, ma professori universitari. La maggioranza è contraria ad una uscita dell’Italia dalla moneta unica, una ancora più grande ne teme gli effetti negativi e, comunque, la ritiene improbabile. Quello che colpisce, però, sono i numeri. Il 26 per cento di questi professori ritiene l’uscita dell’Italia un evento probabile e il 30 per cento lo considera auspicabile. Per l’interesse dell’Italia, peraltro: più del 60 per cento pensa che il nostro paese ci guadagnerebbe a giocare in un campionato più adatto alle sue potenzialità.

 

 

 

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