Migranti: sempre più evidente la contraddizione esistente nella distinzione tra rifugiati e migranti…

Dove sta la differenza sostanziale: tra coloro che tentano di fuggire comunque rischiando la vita da un destino di morte fuggendo dalle guerre e coloro che la fuggono nel tentativo di sopravvivere all’eccesso di povertà?

Hanno ragione coloro che dicono che: le parole non sono indifferenti e decidono la politica. Soprattutto parlando di migrazione. Io, francamente non so più che pensare dell’attuale politica verso i migranti, vedendone raccontata tutta la disperazione nell’immagini che la TV quotidianamente trasmette dei gommoni che affondano in mare e dei trasbordi sulle navi, fino a ieri delle Ong, oggi solo su quelle dalla nostra guardia costiera o sul naviglio militare italiano o internazionale. Sono persone che scappano dalle guerre o che cercano lavoro altrove. E, fatico a comprendere anzi veramente non capisco, di fronte alla dimensione del problema, praticamente presente in più parti del globo,  la suddivisione che viene fatta qui in Europa tra una condizione e l’altra:  io non ci vedo alcuna differenza. Credo che continuare a giocare sulla paura dell’altro sia un gioco pericolosissimo. Chi semina vento finisce con raccogliere tempesta. E oggi si sta seminando troppo vento. Mai come in queste ultime settimane il tema dell’immigrazione ha acceso gli animi. Anche per ciò abbondano i luoghi comuni, mentre la complessità resta sullo sfondo. In nome dell’esigenza di «ridurre gli sbarchi», si è evidenziata o per meglio dire ‘affermata’ così la distinzione tra rifugiati e migranti, che in breve è diventata il criterio selettivo per eccellenza: i primi possono entrare, gli ultimi vanno respinti. Da una parte i buoni, dall’altra i cattivi, da una parte i veri, dall’altra i falsi. Il migrante che tenta di passare per rifugiato è il clandestino. Ma ha davvero senso questa distinzione? Il rifugiato può vantare un passato glorioso. Indica lo straniero che lascia il proprio Paese e chiede protezione chiede l’ “asilo politico” allo Stato in cui giunge. La Convenzione di Ginevra nel luglio 1951 definisce il rifugiato mettendo l’accento sulla persecuzione. Rompendo con il passato, dove i migranti rappresentavano sempre una entità collettiva, un gruppo identificato con la nazione da cui venivano i migranti: gli italiani, nelle miniere di carbone in Belgio; i turchi, alle catene di montaggio della Volkswaghen; i sikh in Italia, mungitori nelle nostre stalle – oggi il rifugiato è solo il singolo che chiede protezione dalle guerre. Ma qual è il vero motivo che sottende a questa distinzione? Prende le mosse dalla divisione in due blocchi del mondo quello Orientale, dove il dissidente russo rappresentava l’archetipo del rifugiato politico. In seguito con la fine dell’Urss e il prevalere di quello che fu il blocco Occidentale, nelle nostre politiche migratorie finisce per prevale la difesa dei diritti civili sulla tutela contro le differenze economiche, figlie del Colonialismo in Africa/India nell’800 e a seguire nell’espansione dei consumi  con la  suddivisione internazionale del mercato del lavoro, i processi di deindustrializzazione e di delocalizzazione produttiva che hanno caratterizzato buona parte per non dire tutto il 900. Alla fine: fame e povertà sono diventate cause perdenti. Ma perché mai i motivi economici dovrebbero essere meno gravi di quelli politici? La distinzione tra rifugiati politici e migranti economici ammesso e non concesso avesse una razzio non regge più. Sarebbe come sostenere che l’impoverimento di interi continenti non abbiano avuto e non abbiano ancora cause politiche. Sfruttamento, crisi finanziarie, catastrofi ecologiche non sono meno rilevanti della minaccia personale. Questo criterio è decisamente antistorico e non può più essere un criterio guida per una politica della migrazione attuale rispetto anche alla dimensione che ha assunto oggi il fenomeno migratorio. Anche da qui si deve  ricominciare il ragionamento a partire dal fatto che questo è comunque un dramma umanitario: i rifugiati sono i dissidenti politici, che suscitano simpatia, accendono la solidarietà: cecoslovacchi, greci, cileni, argentini. Quei popoli in fuga dalle dittature del mondo. Ma tutto cambia quando compare un nuovo rifugiato: meno bianco, meno istruito, meno ricco. È il migrante, termine che, al contrario di rifugiato, non corrisponde a una categoria giuridica. In poco tempo assume contorni negativi e inquietanti. La governance burocratica lo ferma, gli chiede una prova della sua persecuzione, ne fa al più un richiedente asilo. Le frontiere si chiudono per quegli stranieri che sono più stranieri di altri: i poveri. Colpevoli già solo per essersi mossi, non suscitano alcuna compassione. Anzi! I persecutori potrebbero essere loro, questi nemici subdoli. Eppure i migranti, questi nuovi poveri cui è stata tolta persino la dignità del povero, hanno mille motivi da far valere per quella loro scelta sofferta… Già da anni si parla e si vedono flussi misti tra i migranti che fuggono da guerra, violenza, fame, siccità. Bisogna rivedere una formula uno schema antiquato. Nel mondo globalizzato la persecuzione ha molti volti. Come distinguere quel groviglio di motivi che s’intrecciano?

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