PD: la fine di un partito…

Governo del “Presidente”. Governo di “tregua”. Governo della “non sfiducia”. Governo delle “astensioni”. E’ scoccata l’ora delle definizioni “creative” con cui verrà denominato il governo che verrà. Per far che cosa? Per portare come ormai pare inevitabile  di nuovo il Paese al voto a settembre o al più tardi a primavera prossima. È questo il senso del giro di consultazioni che il presidente della Repubblica terrà  domani lunedì 7 maggio. Soprattutto per ribadire il suo ruolo di arbitro, lontano da ogni possibile coinvolgimento in una contesa elettorale mai finita e di quella nuova che è già in corso tra le forze politiche. Una contesa che il voto del 4 marzo non ha risolto. D’altronde con una nuova legge elettorale proporzionale e una campagna elettorale giocata tutta sulle singole leadership come se la legge fosse ancora maggioritaria… non poteva  (forse) che finire così. Quindi: nessun vincitore e nessun sconfitto? Non è proprio così: il principale sconfitto è sicuramente il Paese con i suoi cittadini giunti sull’orlo di una crisi istituzionale. E poi tra i partiti lo sconfitto ‘eccellente’ è sicuramente il Partito Democratico. Costretto necessariamente ad affrontare una discussione (già troppo ritardata) sullo scenario politico italiano (presente e futuro), che rappresenta il passaggio cruciale destinato a decidere della sua stessa sopravvivenza. La discussione riguarda la funzione e lo spazio che una forza che ancora si definisce di centrosinistra può avere nell’Italia di oggi. Un’Italia in cui, caso unico in Europa, i partiti tradizionali (PD e FI) sono stati ridotti a ruoli marginali a vantaggio di nuovi soggetti (M5s e Lega) non sempre esattamente classificabili. Una crisi  prima d’identità e poi anche di ruolo politici, rispetto ai profondi cambiamenti avvenuti nella società italiana. Conseguenti alla ormai decennale crisi, che ha colpito tutto l’Occidente, all’interno del processo di globalizzazione finanziaria, economica e dei mercati. E’ evidente altresì, che a questo punto, la crisi del PD è soprattutto la crisi del suo gruppo dirigente. A questa crisi la dirigenza del Pd cerca di offrire almeno due risposte: la prima deriva dal fronte della Sinistra (quelle democristiana e post-comunista le due culture che assieme fondarono l’Ulivo e poi il Partito Democratico) e tenta di ritrovare una radice nel paese, disponibile anche a confrontarsi andando a vedere le “carte”, di una possibile intesa sulle urgenze del Paese con i Cinque Stelle, che al voto sono risultati la prima forza politica di maggioranza relativa. La seconda punta tutto quanto sulla personalità di Renzi e sulla sua vocazione ad una leadership di stile presidenziale (tipo Macron). È quest’ultima una leadership, che continua a spingere per portare in fondo quel processo, che ha già di fatto trasformato il Pd in un partito ‘centrista’. Lo ha fatto – in modo poco trasparente, mascherata dietro a una sostanziale ambiguità politica – senza contemporaneamente sapersi assicurare il successo elettorale e politico che Renzi e molti suoi sodali estimatori speravano. E su queste basi che una ulteriore scissione di quel che rimane ancora delle due Sinistre dentro il partito, più presto che non tardi, è possibile se non probabile. Detto in altre parole: o Renzi riesce nell’imporre la sua linea e tenere dietro di sé più o meno unito tutto quel che rimane del Partito Democratico. Oppure ad opera dello stesso ex Segretario nascerà definitivamente un partito “macroniano”, che andrà a cercarsi uno spazio trasversale e centrista nella politica nazionale. L’unico problema è che Macron ha vinto in Francia presentandosi alla ribalta come l’uomo nuovo – quindi non dopo tre anni e più di sconfitte – e grazie a un sistema istituzionale molto …molto diverso da quello italiano. Un paio di giorni fa, si è tenuta la Direzione PD se fosse paragonata ad un “match di pugilato” sarebbe finito ai punti ma, ancora una volta, con il primato di Renzi. E’ vero Maurizio Martina, il Segretario reggente, ha ottenuto dalla Direzione la fiducia all’unanimità per continuare nel suo mandato fino all’Assemblea dei mille delegati, quella che a fine mese deciderà il destino del Pd. È vero che il risultato politico della Direzione è che il PD lasciando la posizione “aventiniana” assunta, è disponibile a qualsiasi soluzione di governo proporrà il Capo dello Stato Sergio Mattarella. È vero che ha rimesso un ordine nel Caos, che aveva raggiunto l’apice con l’intervento in tv dell’ex Segretario Renzi, che ha fatto fallire il tentativo di dialogo di Martina con i 5Stelle. Ma è solo un’unanimità di facciata. Avere evitato la battaglia aperta, non dà certo forza al reggente (che non potrà candidarsi a Segretario nell’Assemblea) ne alle minoranze anti-renziane. Una domanda resta senza una vera risposta: chi comanda nel Pd? O meglio: la leadership è ancora e sempre solo di Renzi? Inoltre il PD rinuncia ad essere l’ago della bilancia di una qualche ipotesi di governo politico ribadendo: “né con Di Maio né con Salvini e il centrodestra”. Il partito è praticamente immobile. E perde l’occasione per fare chiarezza fino in fondo al suo interno . Dopo tutto il fuoco di sbarramento innalzato dai renziani, arrivati in Direzione inquadrati e compatti per sostenere, oltre ogni risultato, i modi e i contenuti dell’azione del Segretario dimissionario-effettivo (??). La quale leadership politica di governo prima e di partito poi è stata più volte sconfitta dall’elettorato italiano. Come probabilmente continuerà a perdere anche nelle prossime occasioni di voto (amministrative di giugno). Il Pd ha evitato ancora una volta di affrontare l’unico problema che meriti ancora un incontro tra i suoi dirigenti politici: perché il PD perde voti continuamente? E quali sono le responsabilità della sua leadership in senso largo, cioè della classe dirigente che con Renzi ha condiviso tutte le scelte, suicide, adottate fin qui? Un po’ di critiche serrate finalmente si sono sentite in Direzione, ma è mancato l’affondo. Nessuno ha avuto il coraggio di indicare punto per punto, e anche persona per persona, le responsabilità dello stato comatoso in cui ormai si trova il partito, e di metterle nero su bianco. Ancora una volta c’è stato ‘troppo garbo e troppo fair play’ da parte dei non-renziani. Troppo timore di spaccature e divisioni. Troppa nostalgia per un modo di fare politica (corretto) che la maggioranza renziana del partito non ha di fatto mai conosciuto né praticato. Ancora una volta sono caduti nella trappola dell’unità del partito, mentre non è certo questo di cui ha bisogno un partito così profondamente in crisi. Di fronte a una emorragia di voti. Peggiorata dall’autocondanna all’irrilevanza sulla scena politica.  Inflittasi da soli dopo il risultato del voto. Con quell’incapibile ritornello del “stiamo all’opposizione”, perché gli elettori lì ci hanno messo.  Ora vedremo cosa sono capaci di fare quelli premiati dalle elezioni. Pensare che il PD ha governato praticamente da solo per quasi tutta la legislatura, compresi i mille giorni di Renzi. Si può capire il riflesso umano di difendere il proprio operato. Ma se i cittadini non ne riconoscono la validità. Una ragione dovrà pur esserci?! La risposta non può essere che gli elettori non hanno capito. Ci hanno votato perché stessimo all’opposizione. Ma di chi, se un altro governo, ancora non c’è? Quello ancora in carica, per l’ordinaria amministrazione, è ancora il governo Gentiloni… di fatto un “monocolore” PD! Il PD è stato l’autore e l’artefice principale a colpi di fiducia della nuova legge elettorale (Rosatellum) quella che ha di nuovo rintrodotto  il proporzionale, che necessariamente porta a formare governi di coalizione. La rappresentanza proporzionale, funziona così, non sulle esclusive leadership dei capo partiti. Sembra di assistere all’ultima scena di un dramma teatrale… nel quale l’ultima battuta è: “cambiamo il popolo!” Veramente Kafkiana. La Direzione del PD invece, già dall’esito referendario, doveva mettere in chiaro, che una stagione era finita.  Lo “storytelling” renziano che tanto e tanti aveva illuso, si è perso per strada attorcigliandosi intorno al suo principale  protagonista e alle sue frasi fatte. Finendo per consumarsi in una logorrea solipsistica. Assistiamo invece ancora una volta ad una discussione che si ‘innerva’ pesantemente su quello che riguarda il controllo (la composizione degli organismi e delle prossime liste elettorali) del partito. Con la consapevolezza che un ritorno alle urne in questo momento non è d’aiuto a nessuno. A conferma di tutto ciò e soprattutto della necessità di fare una volta per tutte chiarezza nel PD scoppia anche la “bomba” Veltroni. Parlando in TV a Otto e mezzo, ha lanciato una durissima accusa a tutta la dirigenza del partito. Renzi in primis: “La Sinistra ha raggiunto il livello più basso della sua storia. Ha perso metà dei suoi elettori, un referendum molto importante che ho personalmente sostenuto, le elezioni amministrative e le politiche. Ma vuoi fermarti a capire cosa sta succedendo?!” E come se non bastasse continua: “È sbagliato stare sull’Aventino, contemporaneamente è sbagliato dare l’idea di correre disperatamente dietro agli altri”, ha continuato Walter Veltroni. Invocando una collegialità di gestione del partito, che fino ad ora non è stata propriamente nelle corde di Renzi e dei suoi. Un ”padre nobile” che si mobilita ancora una volta pesantemente. Ma non è da solo. Ci sono anche molti degli autorevoli ministri uscenti, che con il passare del tempo di questo post-voto, vanno assumendo posizioni fortemente critiche rispetto alla gestione del gruppo dirigente di maggioranza del partito. Su tutti Paolo Gentiloni, che si è tenuto sapientemente fuori dalla mischia, pur lasciando qua e là trapelare la sua forte irritazione nei confronti di Renzi & C. Tutto ciò mostra platealmente come fosse ormai ineluttabile,  che stiamo assistendo “…alla fine di un partito”.

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