PD: ma perchè Renzi odia così tanto il Partito Democratico?

Che al Nazareno e dintorni sia di nuovo in corso la solita rissa tra contrari e favorevoli al dialogo coi grillini, c’era d’aspettarselo. D’altronde che il PD sia diviso in due è cosa nota e ad averlo sancito è stato il fin troppo ritardato congresso, che ha cambiato la maggioranza negli organi di partito, dando circa il 70% di maggioranza a Zingaretti, ma ha mantenuto (d’altronde bisogna attendere nuove elezioni per poter cambiare) il 70% di maggioranza renziana tra Deputati e Senatori nei gruppi parlamentari… grazie al golpe notturno attuato sulle liste dei candidati alle elezioni di persona da Renzi, che estromise gran parte delle minoranze interne… poco prima dalla debacle del 4 marzo dello scorso anno. Questo gli mantiene una sorta di “imprimatur” politico sul partito con cui Zingaretti deve comunque convivere… se vuole tentare di mantenere più unito possibile  il partito… senza strappi eccessivi e pericolosi (c’è sempre il ricatto di una possibile uscita dei renziani)… certo che il pegno da pagare è notevole… in quanto l’uomo di Rignano con quella faccia di impunito e con la sua sfrontatezza… continua a bacchettare tutti… come se avesse subito lui un grosso torto… immemore che la sua gestione del Governo e del Partito l’hanno dissanguato facendogli perdere circa 6 milioni di voti… E anche oggi, al Senato interverrà lui per il PD sul Russiagate, prendendosi la scena e oscurando di fatto Zingaretti e la nuova maggioranza nel partito. Un dualismo che continua ad ammazzare di fatto una possibile risalita nella considerazione dell’opinione pubblica e nel consenso elettorale del partito democratico a ribadire che il partito #senzadime ovvero lui, non conta e non è capace di fare opposizione… Continua per il PD la furia distruttiva di Renzi!!!   Nell’Assemblea Nazionale dove 1/3 dei delegati presenti è di rito renziano questi si sono chiamati fuori dalla gestione del partito non assumendo alcun incarico negli organismi così da lasciarsi le mani libere per cercare ogni possibile pretesto per lamentarsi e differenziarsi dall’attuale Segretario… Ecco che così la voluta loro assenza nella nuova segreteria è stata raccontata come l’impossibilità di una qualsiasi condivisione degli indirizzi politici ed organizzativi voluti da Zingaretti, poi è sorta forte la polemica sull’autosospensione dell’ex Ministro Lotti coinvolto in prima persona nella questione sul CSM, atto non dovuto dell’ex Ministro, ma sicuramente atto minimo desiderato da Zingaretti; poi nei giorni scorsi la decadenza di Faraone da Segretario Regionale per i brogli nel PD siciliano decretato dalla commissione nazionale di controllo delle primarie altra polemica “ci vogliono fare fuori uno a uno”; poco prima le accuse di Renzi a Gentiloni e Minniti su immigrati e ius soli, ancora l’uscita pubblica di una richiesta da parte di Boschi e Renzi della presentazione di una mozione di sfiducia nei confronti di Salvini, non concordata e ritenuta inopportuna da Zingaretti. E in questi giorni la diatriba con Franceschini che se vi fosse la crisi di governo ricorda che occorrerà verificare la possibilità di un dialogo coi 5Stelle ai quali riconosce delle differenze profonde dalla Lega, sottolineando che la renziana politica dei “pop corn”, ha favorito l’attuale convergenza dei “grillini” verso la Lega. Assistiamo quindi al solito ‘bisticcio’ che serve ad impedire all’attuale Segreteria un tranquillo rinnovamento di linea e organizzazione… creando un clima di perenne congresso. Una situazione che, visto l’aria che tira, potrebbe sempre trasformarsi nell’Armageddon del Partito Democratico. Allora la vera domanda diventa: perché Matteo Renzi – incarnazione dello spirito del no a tutto ciò che non è lui – odia così tanto il Pd? Non è una provocazione… basta sfogliare il suo album personale. Prima foto: lui nella Margherita, il Pd non c’è ancora. Seconda foto: lui che scala il Pd per rottamarlo. Terza foto: lui che sogna il Partito della Nazione. Quarta foto: lui che progetta l’uscita dal Pd per costruire un nuovo partito sull’esempio del macroniano “En Marche!”. Quanto alla serie ininterrotta di disastri elettorali regionali, comunali e nazionale, viene in mente quella famosa battuta su Stalin: “nessuno ha eliminato più comunisti di lui”. Nessuno come Renzi ha eliminato più elettori del Pd. E oggi, non avendo avuto il riscontro aspettato per una sua uscita dal partito per farne un altro di centro centro (non ha trovato soprattutto finanziatori) e costretto così controvoglia a rimanere (da separato in casa) tra i democratici… odiando, e sviluppando ulteriore odio cova la sua vendetta nei confronti del PD. Del resto, l’odio come categoria della politica è stato trattato proprio da Massimo Recalcati,  psicoanalista e renziano doc., quando si occupò dell’avversione “smisurata” che si era scatenata nel Pd contro l’allora Segretario Renzi. Si resta senza parole di fronte a un’istantanea così autentica… L’origine dello scontento anti-Matteo ha radici profonde. E poggia sulla sfilza di errori imputabili alla sua leadership. Che ha deluso non solo Sergio Marchionne e l’amico Farinetti, ma anche tanti altri supporter stanchi dello spread crescente tra le parole e i fatti. L’ex sindaco fiorentino aveva conquistato prima il Pd e poi i palazzi romani con la promessa di una rivoluzione radicale, di una rottamazione non solo degli anziani leader del partito ma anche dei vecchi metodi della politica italiana. «Metteremo sulle poltrone di comando i più bravi in modo da far ripartire il paese. L’Italia con me sarà un posto dove trovi lavoro se conosci qualcosa, non se conosci qualcuno!», s’impegnò Renzi nel 2012. E poi: «La meritocrazia è l’unica medicina per la politica, per l’impresa, per la ricerca, per la pubblica amministrazione. Gli amici degli amici se ne faranno una ragione», proclamò nel 2014, appena scippata la poltrona ad Enrico Letta… Ma, evidenze alla mano, il toscano il rinnovamento non l’ha mai davvero realizzato. Al contrario. Invece di basarsi sul merito ha selezionato la nuova classe dirigente del partito e della sua amministrazione con i soliti metodi. Fondati sulla cooptazione, sulle relazioni personali e amicali, sulle spartizioni partitocratiche e la mediazione – ça va sans dire – con gli immarcescibili potentati… Appena arrivato al vertice, Renzi ha in primis occupato molte poltrone con leopoldini, fiorentini e vecchi sodali. La lista è lunghissima, possiamo solo riassumerla: l’amico tributarista Ernesto Ruffini è diventato prima AD di Equitalia e poi, numero uno dell’Agenzia delle Entrate. Marco Seracini, commercialista di Matteo, già revisore del comune di Rignano e presidente del collegio sindacale della Leopolda, è stato preso nel collegio sindacale dell’Eni. Lapo Pistelli è stato mandato alla vicepresidenza del colosso energetico mentre era viceministro degli Esteri. Il coordinatore della campagna delle primarie del 2012, l’ingegnere elettrotecnico Roberto Reggi, piazzato inizialmente come sottosegretario all’Istruzione, è stato poi deviato all’agenzia del Demanio. Anche nei palazzi romani la strategia è stata identica: invece del merito, Renzi ha prediletto il rapporto personale. Giovanni Palumbo, ad esempio, è stato assunto nella segreteria tecnica. Seguiva Renzi dai tempi della Provincia di Firenze, quando era stato chiamato dal suo capo senza avere i titoli necessari (cioè una laurea). Anche Antonella Manzione è stata prelevata, a 207 mila euro l’anno, dal gruppo dei compagni toscani: ex capo dei vigili urbani di Firenze, autrice del romanzo “Martina va alla guerra” e seminarista sul tema “Disturbo della quiete pubblica”, Matteo ha voluto lei, e solo lei, nel delicatissimo ruolo di capo del dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio. Non c’era nessun altro in grado di affrontare decreti e provvedimenti di legge? Pare di no. Prima di andar via da Palazzo Chigi nel dicembre 2016, Renzi le ha fatto l’ultimo regalo, nominandola Consigliere di Stato. Un paracadute che Maria Elena Boschi ha offerto anche al suo collaboratore (indubbiamente preparato, ma sconfitto con lei nella battaglia referendaria), il segretario generale di Palazzo Chigi Paolo Aquilanti. Una nomina prestigiosa e remunerativa. Delle polemiche politiche il capo del Pd se n’è sempre infischiato. Spiegando che “così fan tutti”, e che lui sceglieva «sempre tra i più bravi». Il leader però ha sottovalutato l’impatto mediatico di promozioni discutibili, come quella del suo spin doctor personale Guelfo Guelfi a membro del C.d.A. RAI. O come quella di Gabriele Beni, produttore di scarpe e soprattutto finanziatore della fondazione renziana Open con 45 mila euro, diventato vicepresidente di Ismea, l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare controllato dal ministro piddino Maurizio Martina. Sconosciuto e riservato, Alberto Bianchi è diventato uno degli uomini più potenti d’Italia. Ecco le sue consulenze da centinaia di migliaia di euro con aziende pubbliche controllate dal governo. Ma ad aver causato i danni politici e d’immagine più gravi sono state proprio le mosse dei membri di Open, cuore del potere renziano. Dove siedono Boschi, Lotti e Carrai. Oltre al presidente, Alberto Bianchi, avvocato personale e consigliere di Renzi. Tutti originari della Toscana: tra Laterina, Empoli, Pistoia e Rignano sull’Arno. Tutti coinvolti in scandali politici e giudiziari. Tutti, nonostante tutto, ancora oggi tenacemente difesi da Matteo. Boschi, anche se non è mai stata indagata, è colei che ha creato maggior imbarazzo al partito e contribuito in modo determinante al buco nero nel consenso. Per gli osservatori le sue responsabilità sono due. Da un lato la disastrosa sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016 (il ministro per le Riforme, architetta del riordino costituzionale bocciato dagli italiani, invece di uscire di scena come aveva giurato è stata addirittura promossa nel nuovo governo Gentiloni). Dall’altro, Boschi e Renzi pagano il comportamento della ministra durante la crisi di Banca Etruria. Gli italiani già sapevano che il padre della Boschi era indagato e che quando era vicepresidente dell’istituto usava frequentare massoni e faccendieri come Flavio Carboni per chiedere consigli e pareri… Ma hanno avuto anche conferma definitiva dall’ex amministratore di Unicredit Federico Ghizzoni che Maria Elena le aveva davvero chiesto di «valutare, nel 2014, l’acquisizione o un intervento su Banca Etruria». Esattamente come aveva scritto Ferruccio De Bortoli, notizia smentita da Maria Elena con forza e sprezzo. «La richiesta avvenne durante un colloquio cordiale», ha aggiunto Ghizzoni, «non avvertii pressioni da parte della Boschi». De Bortoli, però mai aveva parlato di «pressioni», ma solo dell’evidente conflitto di interessi di un ministro potente ma non competente (le banche sono questioni riguardanti il dicastero dell’Economia) di chiedere «una possibile acquisizione» dell’istituto tanto caro alla famiglia dell’allora ministra. Oltre al fatto in sé, è stata la gestione mediatica della vicenda a lasciare sbigottiti pezzi del partito e del popolo della sinistra: la Boschi, evidenze alla mano, sembra infatti aver pubblicamente mentito. O, quanto meno, sembra essere stata reticente. La volontà di Renzi di proteggerla ad ogni costo, prima impuntandosi per la sua promozione nel governo Gentiloni poi ricandidandola alle politiche, non ha aiutato il recupero del consenso smarrito. E neppure candidare nel centrosinistra il capo della commissione banche, l’ex alleato di Berlusconi Pier Ferdinando Casini, è sembrata un’idea geniale. Anche il rapporto personale con Marco Carrai ha creato più di un problema al segretario. Sponsorizzato a fine nel 2015 dall’ex premier per un incarico a Palazzo Chigi come responsabile della cyber sicurezza, s’è presto scoperto che “Marchino” qualche mese prima aveva fondato la Cys4. Una spa che avrebbe potuto mirare ai futuri appalti banditi dal governo dopo la creazione del nucleo per la sicurezza cibernetica. Il trasferimento di Carrai a Roma è stato così stoppato dalle polemiche sui conflitti di interessi. Ma l’amico ventennale è tornato sulle prime pagine dei giornali, quando Ghizzoni ha rivelato che anche lui, attraverso una email, aveva chiesto delucidazioni su Etruria. «Ciao Federico», aveva scritto l’imprenditore nel gennaio 2015, «solo per dirti che su Etruria mi è stato chiesto di sollecitarti, se possibile e nel rispetto dei ruoli, per una risposta». A che titolo il renziano “sollecitava” l’AD di Unicredit? «Ero solo consulente di un cliente privato interessato a Banca Del Vecchio, controllata da Etruria», s’è giustificato Carrai, «Renzi non sapeva niente, e se in quella banca c’era il padre della Boschi a me non interessava nulla. Non sono un politico e non appartengo a nessun partito. Non mi cibo di questi banchetti mediatici». Sarà. Ma se Carrai sembra spesso dimenticare di essere seduto nel board dell’ente che raccoglie denaro per Renzi e la Leopolda, qualcuno ha pure notato, forse con malizia, che le aziende dell’imprenditore di Greve in Chianti abbiano preso il volo proprio durante l’ascesa politica di Renzi. In primis la Cmc Labs, società che tra il 2013 e il 2015 ha in effetti quadruplicato il fatturato e aumentato l’utile di 30 volte. Tra i business del 2015, come diceva L’Espresso, spunta anche un affare tra un’altra azienda di Carrai e di suo fratello Stefano, la Cgnal spa, e l’Unicredit di Ghizzoni. A febbraio di quell’anno, qualche settimana dopo aver mandato la mail su Etruria, la banca milanese firmò con la spa di Marchino una ricca commessa per “profilare” al meglio i big data dei clienti dell’istituto. La collaborazione tra Ghizzoni e l’amico dell’allora premier è durata solo otto mesi, e non fu rinnovata. Anche perché Unicredit è proprietaria al 100 per cento di Ubis, una delle più grandi realtà europee di information management: non si capisce come mai Ghizzoni abbia affidato un contratto alla piccola società di Carrai, nata appena due mesi prima. La sensazione di parte dell’elettorato è che Renzi e parte del Giglio magico abbiano dunque creato a Palazzo Chigi, come ai tempi di D’Alema e dei capitani coraggiosi di Roberto Colaninno, una specie di merchant bank: che parla anche un po’ d’inglese, ma con un forte accento fiorentino. Una percezione forse eccessiva, ma che di certo si è diffusa anche per colpa delle scelte di Matteo. Se ogni politico ha il diritto di chiamare al suo fianco uomini fidati, Renzi ha scelto troppo spesso non tra i più capaci d’Italia, come diceva comiziando, ma «tra i più bravi di Rignano». La speranza di proteggere la sua leadership attraverso una rete di fedelissimi s’è così trasformata in un groviglio di relazioni, in cui ancora ora la sua leadership rimane impiccata… Il Caso Consip poi ha dato la conferma ed è stato un altoparlante di diffusione, della stile di governo di cui già sopra. Al netto delle gravissime accuse che la procura ha rivolto ai carabinieri del Noe, sui falsi verbali fabbricati ad hoc per incastrare il babbo di Matteo, il manager – anche lui toscano – Luigi Marroni (chiamato dal governo Renzi a guidare la stazione appaltante dello Stato) ha parlato ai pm di «pressioni e ricatti» da parte di Tiziano Renzi e del suo sodale Carlo Russo. Obiettivo: condizionare l’assegnazione di alcune ricchissime commesse pubbliche. I pm romani hanno iscritto l’illustre parente per traffico di influenze illecite. E anche Lotti, l’altro “fratello gemello” di Matteo, è indagato nella stessa inchiesta: l’accusa dei magistrati è quella di aver rivelato l’esistenza dell’inchiesta allo stesso Marroni, complicando il lavoro degli inquirenti… La Consip non ha portato fortuna nemmeno al presidente di Open, l’avvocato Alberto Bianchi (piazzato anche nel cda dell’Enel): L’Espresso ha scoperto che ha ottenuto dalla società pubblica consulenze per quasi 350 mila euro. «Addosso a me pm e giornalisti possono indagare all’infinito, non mi troveranno attaccato nemmeno un centesimo», ribadisce Renzi, che si sente ingiustamente accerchiato. Eppure, ai più sembra che le congreghe amicali e familistiche interessate al potere, agli appalti e al denaro e non al bene del Paese abbiano davvero azzoppato una carriera politica che aveva il vento in poppa. Alle critiche il segretario resta allergico. E nemmeno di fronte al disastro elettorale di un anno e mezzo fa, sembra voler cambiare passo e stile cogliendo il ‘turbamento del presente’ che ancora colpisce l’elettorato ex PD per via di Renzi e della sua ricerca di protagonismo (non so cosa esattamente voglia dire, ma suona bene). Ma se odio chiama odio alla fine come potrà sopravvivere il partito (qualsiasi partito) a una tale furia distruttiva dell’ex Segretario? E che ne sarà degli elettori superstiti (malgrado tutto sono quasi sei milioni), a cui nessuno sembra badare? Fin che c’è Renzi questi elettori che se ne sono andati dal PD non torneranno sui loro passi e quindi al partito. Infine, esiste un nesso tra la comprensione di Mattarella per un PD comunque perno di un governo alternativo a quello d’oggi, prescindendo magari da Renzi e l’odio di Renzi & C. per il Pd? Vi prego adesso non mi chiedete troppo…

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