Sinistra: progressisti di tutto il Mondo, fatevi venire un’idea. Pd, Zingaretti un immaginario processo…

Non è mica solo colpa del Pd, e nemmeno del suo Segretario (anche se in un immaginario Processo a Zingaretti: sottoposto al giudizio di un tribunale politico, il segretario, accusato di essere poco incisivo e incapace di risolvere la crisi del partito, dall’accusa, dotato di senso di responsabilità e impegnato per l’unità del governo secondo la difesa, non ne uscirebbe del tutto indenne… Ma i guai della sinistra sono globali. Dall’Italia agli Stati Uniti, passando per la Gran Bretagna, il dibattito nel mondo democratico è sempre lo stesso: liberali contro socialisti. Mettiamoci comodi, finché c’è Trump alla Casa Bianca non prevarranno né gli uni né gli altri. La sinistra mondiale è in piena crisi d’identità, Non è ancora riuscita a trovare un modo di contrastare i populisti e i nazionalisti, ma nemmeno a risolvere gli ormai rilevanti problemi di personalità. Che cos’è oggi la sinistra occidentale? Nessuno lo sa, nemmeno la sinistra occidentale. Dopo aver dominato la politica globale cavalcando globalizzazione e innovazione, il progressismo degli anni Novanta, cioè Tony Blair, Bill Clinton e i loro epigoni, è passato di moda perché si è dimostrato incapace di governare le diseguaglianze causate dalla rivoluzione digitale. La ricetta, di fronte a interi settori della società rimasti indietro rispetto ad altri che invece hanno fatto enormi passi in avanti, è diventata ideologica: ancora più globalizzazione, ancora più innovazione, segnalando i grandi passi avanti fatti dall’umanità e dimenticando gli scompensi creati dalla grande redistribuzione della ricchezza. La prima reazione è stata di rigetto, con gli elettori progressisti occidentali in fuga e alla ricerca di qualcos’altro che di volta in volta è stato individuato nei movimenti demagogici e populisti non importa se di destra o di sinistra. La seconda reazione, più intellettuale, è stata quella di tornare indietro ad abbracciare politiche socialiste e socialdemocratiche, abbandonate alla fine degli anni Ottanta. Oggi, da una parte ci sono i sempre più sparuti difensori del liberalismo sociale che gli avversari chiamano in modo sprezzante neoliberisti, assimilandolo agli avversari di destra, quando in fondo sono soltanto socialisti assaliti dalla realtà. Dall’altra ci sono i promotori di una specie di socialismo del Ventunesimo secolo, una via di mezzo tra una parata di reduci dell’anticapitalismo e nuove generazioni alla conquista di maggiori diritti sociali. La scena al momento è dominata da questi ultimi, i quali hanno vinto il dibattito interno in Francia, in Italia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Con risultati, però, non invidiabili, visto che perdono tutte le elezioni possibili. Con l’eccezione della Francia, dove il presidente eletto è un “neoliberista”, e della Germania, dove resiste sempre meno Angela Merkel, al governo o pronti ad andarci in quasi tutto il mondo occidentale ci sono i populisti e i demagoghi, non i socialisti. L’inglese Jeremy Corbyn ha perso due elezioni, tre se si considerano pure le Europee, in pochi mesi: la prima contro una premier conservatrice debolissima, la seconda contro un elitario membro dell’establishment londinese che ha avuto la geniale idea di interpretare il ruolo di uomo del popolo. Nonostante avversari non irresistibili, il socialismo di Corbyn ha regalato alla sinistra inglese la più grande scoppola elettorale in 90 anni. Va anche ricordato, per dare un quadro più ampio, che i laburisti britannici hanno perso otto delle undici elezioni generali. Le tre eccezioni sono quelle del New Labour di Tony Blair, il principe delle tenebre neoliberiste. Non è controintuitivo, dunque, dire che in Gran Bretagna la sinistra vince solo quando è meno socialista e più liberale, meno old style e più moderna, sia adesso sia nei quattro decenni precedenti. Negli Stati Uniti che si apprestano a scegliere lo sfidante di Donald Trump alle prossime elezioni presidenziali del novembre 2020, il dibattito è simile pur essendo diversi i punti di partenza. La svolta socialista impressa da Bernie Sanders prima, da Elizabeth Warren poi e adesso da Alexandria Ocasio Cortez (non candidata in questo ciclo elettorale perché non ha l’eta) sarebbe stata inconcepibile solo cinque anni fa, cosi come sarebbe stato inimmaginabile Donald Trump e molte altre cose che ormai sono all’ordine del giorno. Ma da allora la curvatura progressista è diventata mainstream, tanto che la notoriamente centrista Hillary Clinton alle elezioni del 2016 si è presentata con il programma economico e sociale più di sinistra della storia del Partito democratico. E sì, ha perso anche lei. La tendenza americani è la stessa che si nota in Europa, ma gli obiettivi dichiarati da Sanders, Warren, Ocasio-Cortez, e con più moderazione dagli altri pretendenti, sono di buon senso perché non può essere considerato altro che di buon senso vivere con una copertura sanitaria universale, con l’aspettativa per la maternità e con un’istruzione a prezzi accessibili. Anzi è proprio il fatto che queste cose non siano garantite nel paese più potente e ricco del mondo, negli anni venti del ventunesimo secolo, a essere considerato estremo e radicale. Sanders è riuscito a imporre questi temi nel dibattito pubblico, Warren sta provando a far passare l’idea che si debbano tassare le grandi ricchezze, Ocasio-Cortez mobilita le generazioni più giovani collegando le politiche di giustizia sociale a quelle in difesa del pianeta. Il rischio che tutti vedono, però, è quello di un’eccessiva radicalizzazione, esattamente come è successo in Gran Bretagna con Corbyn, tanto che un recente sondaggio pubblicato dal New York Times, a fronte di tanto parlare di sanità e di istruzione per tutti, ha svelato che soltanto un elettore democratico su quattro vorrebbe eliminare il sistema di assicurazioni sanitarie private in vigore da sempre e sostituirlo con un sistema di copertura pubblica, ovvero solo uno su quattro degli elettori democratici sono favorevole a quanto propongono Sanders, Warren e Ocasio Cortez. E solo uno su tre, sempre tra i democratici, vorrebbe rendere gratuita la retta universitaria a tutti gli americani, a prescindere dal reddito, un’altra idea sostenuta da Sanders e Warren. Ecco spiegato perché in testa nei sondaggi nazionali e nei primi due stati dove si voterà a febbraio, l’Iowa e il New Hampshire, ci sono due candidati democratici centristi, più riformisti che rivoluzionari, il vecchio Joe Biden e il giovane Pete Buttigieg. Quest’ultimo, in particolare, propone un sistema sanitario misto, pubblico per chi lo vuole e privato per chi si trova bene con le assicurazioni, mentre vuole rendere gratuite le rette universitaria, con l’esclusione di chi se le può permettere. Biden sembra sentire il peso dei suoi anni e la freschezza di Buttigieg non riesce a proiettare sufficiente autorevolezza, così è sceso in campo l’ex sindaco di New York Mike Bloomberg, 77 anni, non un pivello, il quale pare sia pronto a spendere un miliardo di dollari del suo patrimonio personale per provare a vincere le primarie democratiche e poi battere Trump a novembre. Il dibattito sulla sinistra, insomma, non si è ancora chiuso e probabilmente resterà aperto fino alle elezioni presidenziali americane perché chiunque vincerà le primarie, un rivoluzionario socialista o un riformista liberaldemocratico, sarà comunque l’esito della sfida finale con Trump a decidere quale sarà la nuova direzione della sinistra globale e anche quella nostra… E in Italia? Alla fine di questo 2019, proviamo a mandare in scena questo “immaginario” Processo al Pd di Zingaretti! Accusa e difesa abbondano entrambe di argomenti a sostegno delle loro tesi. Grande è la suspence sul verdetto finale. La parola alla accusa. Signori membri della giuria, all’imputato qui presente, il signor Nicola Zingaretti, possono essere mosse diverse contestazioni. Le più macroscopiche, dalle quali discendono altre meno rilevanti che vengono tralasciate per carità di patria. L’imputato è diventato segretario del Partito democratico nella primavera del 2018, diciamo così, senza combattere. Nessuno dei suoi due avversari – gli onorevoli Martina e Giachetti – erano in grado di vincere, né si fecero avanti altri candidati per lui pericolosi. L’imputato dunque vinse nel vuoto, per una sorta di ineluttabilità: e già questo ne indebolì il carattere. Egli infatti non brillò mai per coraggio e senso della sfida, preferendo in ogni circostanza muoversi felpatamente, senza crearsi nemici e sempre all’ombra di personaggi suoi mentori. Infatti, quando sopraggiunse, non per suo merito, la crisi di governo, egli puntò alle elezioni anticipate ma si accodò subito alla decisione altrui di formare un nuovo esecutivo. Neppure battagliò quando si trattò di confermare a Palazzo Chigi il professor Conte, che pure l’imputato non desiderava affatto. Anzi, solo tre mesi più tardi magnificò il presidente del Consiglio elevandolo inopinatamente a “punto di riferimento oggettivo” della sinistra italiana. Nel frattempo egli aveva evitato di assumersi la responsabilità di ministro-vicepremier con la motivazione di voler restare alla guida della Regione Lazio, con relativo stipendio e personale a sua disposizione. L’imputato ha dato spesso segni di subalternità al Movimento Cinque Stelle, indicato persino come soggetto di un’alleanza strategica salvo poi entrarvi spesso e volentieri in polemica anche dura. Il risultato di questa alleanza in Umbria è stato disastroso. Né vi è stata mai alcuna analisi seria sul tema delle alleanze preferendo seguire gli eventi senza determinarli. Ciò avviene anche al livello dell’esecutivo. Gli esponenti del Pd al governo lamentano la mancanza di indicazioni da parte del segretario del partito, le cui funzioni sono totalmente assorbite dall’onorevole Franceschini. È da quest’ultimo, assieme all’onorevole vicesegretario Orlando, in questi anni di segreteria Zingaretti non ha saputo o voluto mettere mano alla catastrofica situazione del suo partito, che anzi, secondo taluni, si è ulteriormente aggravata. Da mesi e mesi non esiste la segreteria nazionale e il partito è governato dal suo staff personale; non sono state assegnate responsabilità specifiche; la Direzione continua a essere una sede relativamente autorevole; lo scollamento con i gruppi parlamentari è vistoso; il territorio non è minimamente curato; la comunicazione non esiste, essendo fra l’altro stato improvvisamente e senza spiegazioni chiuso il sito Democratica; nulla è stato fatto per procurare nuove entrate; il personale è sempre in cassa integrazione. Altro si potrebbe aggiungere, signori della giuria: dalla pressoché totale irrilevanza dell’imputato nel dibattito culturale o nel panorama internazionale, concludendo semplicemente con la richiesta di una condanna politica. La parola alla difesa. Egregi signori della giuria, avete udito dal Pubblico ministero molti capi d’accusa, alcuni dei quali davvero infamanti e pertanto irricevibili, a carico del Segretario del Pd Zingaretti. Si tratta di accuse per lo più astratte e ingiuste in quanto non tengono minimamente conto delle circostanze specifiche, dell’ambiente e del momento in cui questi presunti fatti si sarebbero determinati. Per esempio le accuse che sono state rivolte all’imputato sulla questione del funzionamento del partito. Ma come si può non tenere conto della condizione pietosa cui lo avevano lasciato i predecessori dell’attuale segretario? Come si può non ricordare lo sfascio dei gruppi dirigenti, la dominanza della fedeltà a un capo corrente piuttosto che alla comunità, la prevalenza di criteri correntisti o addirittura amicali nella selezione dei dirigenti? Vedasi Renzi e il renzismo… Tutto questo, e altro ancora, il signor Zingaretti lo ha trovato, non lo ha creato. E non si dica che il predominio dello staff sia invenzione sua! Chi, finora, ha contribuito a creare un clima nuovo? Non certo i capi correnti, che continuano a fare il bello è il cattivo tempo. Di qui, semmai, emerge la solitudine dell’imputato: che è anche prova di onestà intellettuale e morale. Si è detto poi che l’imputato sia stato, come dire, pavido nell’accettare un nuovo governo presieduto dal vecchio premier: ma non è stato forse in omaggio ad un profondo senso di responsabilità di fronte al Paese e al suo stesso partito? E poi: come avrebbe potuto, il signor Zingaretti, rovesciare il parere pressoché unanime non solo all’interno del Pd ma degli ambienti che contano, e dell’Europa, del tutto favorevoli a un nuovo governo? Grande lungimiranza il segretario ha invece dimostrato quando, con pazienza certosina, in questi mesi ha lavorato per tenere unita la coalizione a fronte di tanti protagonismi fuori luogo: e se oggi l’Italia ha un governo senza la destra è merito innanzi tutto di Zingaretti che pazientemente opera perché esso si rafforzi e faccia il bene del Paese. L’accusa di non voler voluto fare il ministro, è stata una decisione dettata dalla esclusiva volontà di assicurare il governo della Regione Lazio. Altro che opportunismo, dunque, altro che mancanza di personalità. Passando sopra le polemiche, l’imputato cerca di attrarre progressivamente i grillini o parte di essi dalla parte di una nuova coalizione di centrosinistra, essendo evidente che da solo il Pd non basta. Serve un’intesa con il Movimento, oltre che con altre forze. Ci sono forse altre strategie? E quali, di grazia? Pur avendo subito due scissioni, il partito guidato da Zingaretti si attesta secondo i sondaggi più o meno sulla percentuale delle ultime elezioni. La sconfitta in Umbria era assolutamente prevista, mentre è probabile la vittoria in Emilia e in diverse regioni ove si voterà in primavera. Zingaretti è l primo ad essere convintissimo che sia necessaria un’ampia riforma del partito democratico, insieme a una ridefinizione profonda del suo programma e della sua identità: per questo ha iniziato a ragionare su un Congresso di svolta, da preparare mentre si rafforza l’azione del governo. Il tutto attraverso una direzione collegiale, con una segreteria aperta a tutte le componenti. In questo modo si può preparare la sfida per le prossime elezioni politiche… Da ultimo, si osserva che la segreteria di Zingaretti non ha alternative credibili. E che con passo lento ma costante il Segretario stia prefigurando una nuova stagione vincente per i progressisti italiani: ed è con questa convinzione che è auspicabile un verdetto di assoluzione piena. Udite le argomentazioni dell’accusa e della difesa, la Giuria con tutta probabilità non riuscirebbe a trovare l’unanimità ma anzi si dividerebbe in due… La Giuria non potrebbe negare che elementi di verità sono presenti in entrambe le tesi di accusa e difesa. Con tutta probabilità il verdetto condannerebbe Zingaretti a lavorare più intensamente sul fronte delle idee e delle proposte specialmente sul tema dell’economia italiana e a sottomettersi ad una paziente cura di analisi politica sul tema delle alleanze. Così come il Segretario (con l’intero gruppo dirigente del Pd) dovrà mettersi alla prova nella direzione concreta di un partito moderno, aperto e davvero democratico… tenendo conto dei problemi della Sinistra nell’universo Mondo…

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