Viaggio nelle periferie disilluse e impaurite.

…l’indagine di Marco Revelli,

tra il popolo smarrito (dalla sinistra)

Un team di ricerca coordinato dal sociologo ha intervistato 60 persone dei quartieri popolari di Roma, Milano e Firenze. Ne esce molta diffidenza, distanza dalle élite ma anche voglia di comunità e uguaglianza…

Continuiamo a ragionare della Sinistra, per comprendere di più e meglio: cosa sia successo lo scorso 4 marzo… La ricerca evidenzia come: “i sogni semplici di una vita tranquilla, le paure per un futuro che non sembra generoso con chi in teoria dovrebbe campare solo del proprio lavoro, le molte illusioni,  il senso di impotenza, una generale diffidenza verso gli altri e verso i media, ma insieme la voglia di uguaglianza e insieme di comunità; sì ma quale comunità? Anzi quale mondo, se in questo comandano solo i soldi?” C’erano una volta le inchieste operaie degli anni ’70, quando i partiti della sinistra indagavano la vita, le aspirazioni e i bisogni, del proprio “popolo”. Ma oggi quel popolo chi è? Dove sta? E cosa pensa davvero? Alle domande hanno provato a rispondere un gruppo di ricercatori universitari che, sotto la supervisione del sociologo Marco Revelli, hanno intervistato 60 persone. Il titolo finale del lavoro infatti è “Popolo: chi?” Ci si trova di fronte a dei “flussi di coscienza” di studenti, operai, disoccupati, commesse, bidelle, casalinghe. Probabilmente sarebbero stati elettori naturali di sinistra, prima che il mondo si capovolgesse con i progressisti confinati nelle ztl delle grandi città, nei quartieri borghesi. Adesso votano Lega, M5S, oppure non votano. Hanno lasciato il PD e non votano altre sigle della sinistra. Si leggono riflessioni spesso semplici e a volte confuse, ma anche confessioni profonde: “Mi spaventano le scelte. Ho sempre paura di sbagliare. E per questo alcune volte non ho scelto. Ho rinunciato”, racconta una giovane 26enne, che fa la barista, e vive in una borgata romana. Una collaboratrice scolastica di 53 anni, una casa a Torpignattara, dice che: “A me dà fastidio tutta questa sporcizia che si vede in giro, i cassonetti pieni, i materassi e cose simili buttati per strada. In centro non è così! C’è molta più cura. Delle periferie non s’interessa nessuno, prima di tutto chi governa. Non è stato sempre così. Prima era meglio. La politica, il Comune erano più vicini”. Leggendo le interviste si vede come il degrado ossessioni un po’ tutti e c’è coscienza che la colpa è anche degli stessi cittadini. “E’ venuto meno un patto sociale, perché i servizi non funzionano e le persone lo sanno. In queste condizioni è difficile che le persone si occupino del bene comune”. Così ragiona una madre di due figli, di buona istruzione, che fa la casalinga e ha 42 anni. Però ci vanno di mezzo anche gli immigrati: “Gli stranieri fanno troppo gli spavaldi, non hanno rispetto delle nostre regole, si sentono troppo protetti qui in Italia. Poi li vedi e vanno in giro con le macchinone, hanno l’Audi, e non pagano le tasse, non pagano niente. Ci vorrebbe un Putin”. Questa è la ricetta di un postino 58enne di Milano, quartiere Barona. Un mezzo fascista? Non proprio. “Il denaro ci ha rovinato, ci vuole più uguaglianza. Il sindacato proprio per questo sarebbe fondamentale. Ma dovrebbe farsi rispettare, accetta delle condizioni di lavoro che non dovrebbe assolutamente accettare, da 700-800, o anche 500 euro al mese”. La parola “politica”, sorpresa, non è però una parolaccia. Uno studente del Politecnico di Milano, dice che: “La politica sei tu che ti dedichi al bene pubblico, viene da polis, quindi città. Ora però c’è una grande disillusione non tanto verso la politica, ma verso i politici. Loro per primi hanno perso ogni valore. Io non riesco a vedere nella classe politica attuale, qualcuno che si interessa del bene comune. Sembra più una gara a chi tra loro è più …”figo”, ecco perché non c’è più tanta differenza fra sinistra, destra, è tutto un bel mischione a chi la spara più grossa”. E’ un commento simile a molti altri: la politica occorre, ma quella odierna è avvitata su se stessa. “Rispetto a qualche anno fa c’è un senso comune molto meno anti-politico” – è l’analisi di Loris Caruso, ricercatore alla Normale di Pisa – “nel senso che c’è disprezzo e disgusto per i politici esistenti, un tasso nullo di identificazione con i partiti esistenti, la vicinanza allo zero assoluto come senso di appartenenza a forze politiche o anche solo come convinzione nelle scelte di voto. Però, c’è anche un moto quasi opposto: una specie di invocazione per il ritorno della politica forte. Nessuno dice che bisogna abolire i partiti o le istituzioni rappresentative, mentre in ricerche come questa, qualche anno fa, succedeva”. C’è quindi una specie di voglia di partito, di ritorno a partiti forti, ma che devono essere fedeli a quello che dicono, competenti, fatti da persone disinteressate, eticamente inappuntabili, seri, coerenti, con una visione complessiva e di lungo periodo, concreti e pragmatici nei programmi, fisicamente visibili e presenti nella vita quotidiana dei cittadini. E infine, lontani e inafferrabili, ci sono i potenti: “Quelli che comandano” – continua Caruso – “sono descritti come una élite unificata: banche, multinazionali, industriali, super-ricchi, i politici, la mafia, a volte l’Europa e la Chiesa”. I politici e la politica sono considerati il vertice di questa catena solo da pochi intervistati. Molti li considerano marionette gestite dai potentati economici. La politica è vista più come debole che come forte. I politici sono descritti come pagati, gestiti, controllati da chi ha i soldi. Cosa rimane da fare? Emiliano è fiorentino, vive alle Piagge, forse lui coglie il punto. “Manca una identità collettiva. Il popolo italiano” – chiosa – “non ha più coscienza, non riflettiamo più su come e perché stiamo vivendo subendo tutto ciò, non riusciamo più nemmeno a rispondere alla domanda: chi siamo noi? Chi sono io? Personalmente mi è facile dire chi sono. Ma nella collettività faccio più fatica a trovare un posto, una definizione…”

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