Viviamo il tempo della Retrotopia…

Continuando a ragionare  nel vivere il tempo presente… o per meglio dire: di come vivere il “confuso” tempo presente, che comunque resta l’unico vero tempo in cui viviamo… e in sintonia con quanto scritto nei due post precedenti sull’argomento, provo ad alzare l’asticella del ragionamento e a metterlo …in filosofia.

Dunque: “Vivi il presente!” E’ l’unico vero tempo che tutti noi viviamo.  Questo che viviamo è un tempo dove l’Utopia, quella di Tommaso Moro di poter instaurare “il Cielo sulla Terra” non esiste più! Perché il nostro futuro si è fatto troppo incerto e per alcuni aspetti è alquanto spaventoso e forti risultano l’inaffidabilità e l’ingestibilità di questo nostro presente e dei sui eventi. E’ un tempo dove prende sempre più piede l’individualismo che cancella lo stesso senso di comunità. E il passato, si trasforma in una condizione rassicurante solo nell’unica prospettiva delineata da ZYGMUNT BAUMAN nel suo ultimo saggio pubblicato postumo che è arrivato in libreria lo scorso settembre  e edito da Laterza. In questo saggio, terminato poco prima di morire, ritroviamo la sua straordinaria curiosità per i più diversi aspetti della vita collettiva e individuale, dai movimenti nazionalisti ai manuali di self-help. E insieme si conferma la capacità di Bauman di intuire le vibrazioni della condizione umana, dal narcisismo alla precarietà. Ma Retrotopia è anche un libro di tesi: dopo l’età delle utopie del futuro e poi quella che ha negato ogni utopia, oggi viviamo l’epoca dell’utopia del passato. “La nostra – scrive infatti Bauman – è un’epoca in cui il futuro si presenta sempre più incerto e minaccioso, lasciandoci in balia di un presente in cui – crollati tutti i progetti collettivi – l’idea di progresso si è completamente privatizzata. D’altra parte, nel mondo globalizzato, una politica che ha perso buona parte del suo potere e che è incapace di modellare il futuro tende a trasferirsi nello spazio molto più manipolabile della memoria collettiva, l’unico che consente ancora di dividere le identità tra ‘noi’ e ‘loro’. Una divisione che l’Homo Sapiens ha sempre utilizzato nell’allargamento delle proprie comunità, dai primi gruppi di cacciatori-raccoglitori ai moderni Stati nazionali. Ogni volta la comunità si è allargata definendo un ‘noi’ per differenza con gli ‘altri’, diversi da noi per costumi, religione, lingua”. “Nel mondo contemporaneo – scrive ancora  Bauman – questo processo incontra un ostacolo che appare insormontabile. Per la prima volta nella storia, infatti, la globalizzazione dei problemi ambientali e della finanza, della comunicazione e dei saperi richiede, per essere gestita adeguatamente, una ‘coscienza globale’Dobbiamo cioè creare un ‘noi’ senza poter presupporre un ‘loro’ “. Prosegue la tesi: “Abbiamo  – intendendo l’Umanità – invertito la rotta e navighiamo a ritroso. Il futuro è finito alla gogna e il passato è stato spostato tra i ‘crediti’, rivalutato, a torto o a ragione, come uno spazio in cui le speranze non sono ancora del tutto screditate. Sono per l’appunto gli anni della Retrotopia”.  Scrive Bauman:  “La direzione del pendolo della mentalità e degli atteggiamenti pubblici è cambiata: le speranze di miglioramento, che erano state riposte in un futuro per definizione incerto e quindi palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reimpiegate nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità. Con un simile dietrofront il futuro, da habitat naturale di speranze e aspettative legittime, si trasforma in sede di incubi nel nostro vivere il presente: dal terrore di perdere il lavoro e lo status sociale a quello di vedersi riprendere le cose di una vita, di rimanere impotenti a guardare mentre i propri figli scivolano giù per il pendio del binomio benessere-prestigio, di ritrovarsi con abilità che, sebbene faticosamente apprese e assimilate, hanno perso qualsiasi valore di mercato”.  Nell’economia del discorso filosofico qui postato, vale ricordare a proposito, che c’è un quadro di Paul Klee dipinto nel 1920 – l’Angelus Novus o “l’Angelo Redentore” – ribattezzato da Walter Benjamin l’Angelo della storia: “L’angelo della storia”, ha il viso rivolto al passato. Dove  appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”. Walter Benjamin è forse il filosofo che meglio di tutti incarna la modernità, le problematiche ad essa connessa, i suoi lati oscuri e le tensioni. Pensatore geniale e rivoluzionario, Benjamin morì suicida nel 1940 per evitare la cattura dei nazisti, mentre tentava di fuggire in America. Benjamin è forse l’autore più lontano da ogni concezione della filosofia in quanto “sistema esaustivo” e rigoroso. I suoi saggi e i suoi scritti sono lontani da ogni tentativo sistematico di offrire una trattazione esauriente su determinati ambiti del pensiero filosofico. D’altronde, è una sua cifra caratteristica quella della “frammentarietà”: il frammento come carattere specifico della modernità, ma anche come modalità di scrittura testuale: “Smarrita l’unità originaria, la cultura occidentale si ritrova smarrita a interrogarsi sul senso che assume la vita e la verità all’interno dello spazio di vita delle grandi metropoli, dell’avvento di nuovi mezzi di comunicazione, della diffusione radicale del consumismo industriale”. E’ Soprattutto, nella sua ultima grande opera, rimasta incompiuta, che tale frammentarietà assurge alla sua più piena espressione, ovvero i Passages, un “montaggio” di impressioni, idee, citazioni, riferimenti, che nel loro accostarsi fanno emergere significati inediti, in grado di “anestizzare” il pensiero critico. In sintonia con ciò:  “La nostalgia – dice Svetlana Boym, docente di Letterature slave e comparate a Harvard –  è un sentimento di perdita e spaesamento, ma è anche una storia d’amore con la propria fantasia”. E pensare che nel Seicento la nostalgia era considerata una vera e propria malattia da cui si poteva guarire: per curarla i medici svizzeri, ad esempio, raccomandavano oppio, sanguisughe e una gita in montagna. Ma, nel ventunesimo secolo quella lieve indisposizione si è trasformata in una condizione insanabile. Infatti, Il ventesimo secolo, iniziato con un’utopia futurista, si è chiuso con la ‘nostalgia’. La Boym conclude il suo scritto diagnosticando “un’epidemia globale di nostalgia” e avverte: “Il pericolo della nostalgia è che tende a confondere la casa vera con quella immaginaria”. […] Cinquecento anni dopo che Tommaso Moro diede il nome di Utopia al millenario sogno umano di tornare in paradiso o di instaurare il “Cielo sulla Terra”, l’Utopia viene negata e non filosoficamente dalla triade hegeliana e dalle sue negazioni. Ma dal franare pratico e materiale di un’altra Utopia umana  che è stata la “globalizzazione”. A partire da Moro, le aspettative di felicità dell’uomo sono state sempre legate a un determinato topos (un luogo stabilito, una polis, una grande città, uno Stato sovrano, tutti retti da un sovrano saggio e benevolo). Ma una volta sganciate e slegate da qualsiasi topos, per essere: individualizzate, privatizzate e personalizzate  praticamente “subappaltate” ai singoli esseri umani.  Adesso dalla negazione dell’Utopia in stile Tommaso Moro affiora, dice Bauman  la Retrotopia: “…con le sua visione situata nel passato perduto/ rubato/ abbandonato ma non ancora morto, e mai rimosso – un futuro che seppur non ancora nato e quindi inesistente è comunque vissuto nel presente come già determinato come un tempo futuro drammatico pieno di scontento e di gravi disagi per le nostre proli e per quelle che forse da loro nasceranno”. Come è possibile?  […] “La privatizzazione/ individualizzazione dell’idea di “progresso” e degli sforzi per migliorare costantemente l’esistenza fu offerta dai governanti, e accolta da gran parte dei governati, come una liberazione che poneva fine ai severi obblighi della sottomissione alla disciplina sociale, in cambio della riduzione e in prospettiva rinuncia ai vari servizi sociali universalistici  e alla generale protezione dello Stato. Per tante persone — sempre di più — quella liberazione si rivelò una fortuna e insieme una disgrazia, o forse una fortuna adulterata da una dose notevole e crescente di disgrazia. Ai disagi dovuti ad altri e diversi vincoli subentrarono — non meno umilianti, spaventosi e gravosi — i rischi, che inevitabilmente finirono per saturare quella condizione di autonomia praticamente imposta quasi per decreto. Se la paura di non dare un contributo (con le sanzioni che ciò comportava) poteva essere tenuta a bada dal conformismo e dall’obbedienza che fino a ieri imperavano al posto dove oggi vige una falsa autonomia, a quella paura è subentrato il terrore, non meno straziante, di risultare inadeguati”. Quindi, mentre le vecchie paure scivolavano lentamente nell’oblio e le nuove si ingigantivano e si intensificavano, promozione e declassamento, progresso e arretramento si scambiavano le parti — e si moltiplicavano sempre più gli individui che, come pedine su una scacchiera (ormai divenuta …globale), erano (o si sentivano) condannati alla sconfitta. Ecco così spiegata la nuova inversione di rotta del pendolo della mentalità e degli atteggiamenti pubblici nella mancanza già richiamata di una ‘coscienza globale’: le speranze di miglioramento, a suo tempo riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reinvestite nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità. Un simile dietrofront trasforma il futuro, da habitat naturale di speranze e aspettative legittime, in sede di incubi: dal terrore di perdere il lavoro e lo status sociale che esso conferisce, a quello di vedersi  riprendere la casa e le cose di una vita, di rimanere impotenti a guardare mentre i propri figli scivolano giù per il pendio del binomio benessere- prestigio, di ritrovarsi con abilità che, sebbene faticosamente apprese e assimilate, hanno perso qualsiasi valore di mercato”. La via del futuro somiglia stranamente a un percorso di corruzione e degenerazione. Il cammino a ritroso, verso il passato, si trasforma perciò in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente. E già oggi gli effetti di un simile cambiamento si vedono e si toccano a tutti i livelli della convivenza sociale, nella nascente visione del mondo e nelle strategie di vita che tale visione insinua e prepara. Il fenomeno che Bauman definisce ‘Retrotopia’ deriva proprio dalla negazione dell’Utopia, che con il lascito di Tommaso Moro ha in comune il riferimento a un topos di sovranità territoriale (la nazione): l’idea saldamente radicata di offrire, e possibilmente garantire, un minimo accettabile di stabilità, e quindi un grado soddisfacente di fiducia in sé stessi. Al tempo stesso, la Retrotopia si discosta dall’eredità di Moro in quanto approva, fa proprie e assimila le contribuzioni/ correzioni apportate dal suo precedessore immediato, che aveva rimpiazzato l’idea di ” perfezione assoluta” con l’assunto di non- definitività e di endemico dinamismo dell’ordine delle cose, ammettendo in tal modo la possibilità (e desiderabilità) di una infinita successione di cambiamenti ulteriori, che l’originaria idea di Utopia delegittimava e precludeva a priori. Fedele allo spirito dell’Utopia, la Retrotopia è spronata dalla speranza di riconciliare finalmente la sicurezza con la libertà: impresa mai tentata — e, in ogni caso, mai realizzata — né dalla visione originaria né dalla sua prima negazione. Come che sia, nel tracciare la strada che porta a Retrotopia, i principali punti di riferimento sono gli aspetti veri o presunti del passato che, pur avendo dato buoni risultati, sarebbero stati inopportunamente abbandonati o irresponsabilmente mandati in rovina. Per dirla ancora con Bauman: “Ci sono buone ragioni per ipotizzare che l’avvento del World Wide Web e di Internet abbia segnato il declino dei ‘Ministeri della Verità’, ma non certo il tramonto della ‘politica della memoria storica’, di cui ha semmai moltiplicato le possibilità di applicazione, reso infinitamente più accessibili gli strumenti per praticarla e potenzialmente spinto all’estremo le conseguenze”. Questo declino non ha significato l’oblio della “memoria storica” su cui si è costruito la storia del mondo contemporaneo e dell’umanità che lo popola… e di cui ha spinto all’estremo le conseguenze della crisi della “globalizzazione” e delle sue conseguenze sulla vita quotidiana di milioni di persone… o per meglio dire dei popoli della terra. In ogni caso, la scomparsa dei così detti “Ministeri della Verità” (ossia del monopolio incontrastato che esista un’autorità unica in materia di veridicità) non coincide con quel “pensiero unico” con cui la “globalizzazione” indicava un futuro di prosperità e crescita economica e l’allargamento dei diritti civili e sociali e democratici per l’intera Umanità. Non è stato affatto così… troppe le differenze esistenti nelle condizioni reali di vita dei popoli che abitano l’attuale divisione geopolitica del mondo e quella nuova che va delineandosi… la “globalizzazione” è stato quindi un processo più “virtuale” che non “reale”  per  un certo verso ha sicuramente spianato la strada ai messaggi che volevano creare un unico e globale… pensiero di  “senso comune”  ma questo processo si è scontrato impietosamente con la  “verità dei fatti”, rendendo la sua strada ancora più accidentata, tortuosa, infida e incerta… mostrando interamente  la differenza tra teoria e pratica nel percorrerla. Costringendoci così a guardare a ritroso e procurandoci la “nostalgia” per un passato conosciuto. Costringendoci altresì a “resistere” agli invocati cambiamenti “venduti” da una “incredibile” politica come fossero novità assolute ma resi “incredibili” dalla quotidianità… rispetto a un presente che pur nelle difficoltà e nelle contraddizioni resta l’unico e vero tempo che viviamo.  Mentre gli aggettivi per definire il futuro volgevano al peggio per lo stesso…

“E’ sempre tempo di Coaching!”

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avrndo

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