Amministrative: qualcosa è successo, ma molto è il lavoro da fare per uscire definitivamente dall’emergenza… L’importanza di  Draghi che va ricandidato Premier…

L’avevo già scritto in tempi non sospetti… quando Draghi varò l’attuale governo: “quello è il suo posto, evitiamo il balletto di mandarlo al Quirinale tra un anno, Draghi serve al paese nel ruolo di Presidente del Consiglio dei Ministri”. Al Colle ci andrà qualcun altro… La presenza di un capo del governo così solido è stata fondamentale durante la pandemia. Ma lo sarebbe ancora di più nell’attuazione del Pnrr, per poter costruire una Italia più moderna, più giusta ed efficiente. E i partiti di sinistra e riformisti hanno una carta formidabile per vincere le elezioni del 2023: quello di proporre Mario Draghi come successore di se stesso a palazzo Chigi. Una proposta fortissima, che è già sul tavolo. Alternativa alla proposta della Destra che è quella di promuovere Draghi al Quirinale… andare al voto e chi prende più voti fa il Premier. E’ il modo per lasciare le riforme a metà e continuare con la mediocre politica di sempre… pensando alla propria rappresentanza e non al bene del Paese. I partiti dovrebbero interrogarsi sul perché l’astensionismo va sempre più allargandosi. Carlo Calenda ha indicato chiaramente l’obiettivo «di arrivare alla stessa coalizione che sostiene la Commissione europea, possibilmente con Draghi ancora presidente del Consiglio dopo il 2023». Le notizie qui sono due: l’auspicio di formare una “maggioranza Ursula” e quello di vedere ancora l’attuale premier a palazzo Chigi, dopo le elezioni del 2023, con ciò escludendo la possibilità che vada al Quirinale. In realtà l’idea era già stata espressa anche da esponenti di Italia viva come Luciano Nobili e del Pd come Andrea Marcucci. Addirittura, a maggio Ivan Scalfarotto, al Foglio, aveva detto di sperare che Draghi restasse «presidente del Consiglio non solo fino al 2023 ma addirittura fino al 2028». Può darsi che diventi (vedremo alla Leopolda) anche la proposta di Matteo Renzi, chi lo sa. La posizione di Enrico Letta va evolvendo, mentre in particolare l’area di LibertàEguale ne ha fatto il centro della propria riflessione, con Enrico Morando che nella recente assemblea di Orvieto ha auspicato «un maturo centrosinistra che si concepisca e si promuova come interprete e continuatore dell’esperienza Draghi, vista come la coraggiosa apertura di un percorso, e non come una parentesi»: l’opposto dei desiderata di Goffredo Bettini che vorrebbe Draghi al Colle e elezioni subito tra un Nuovo Ulivo e la destra sovranista, due soggetti di un bipolarismo ancora scritto sulla sabbia. La questione è questa: l’azione e la linea di Draghi costituiscono una parentesi o invece l’essenza di una fase nuova della politica italiana? Bisogna proseguire su questa strada o tornare a un heri dicebamus imperniato sul precedente sistema che dinanzi alla prova difficilissima della pandemia e della crisi ha dato forfait? Una risposta ci sarà presto: eleggere Mario Draghi al Quirinale sarebbe inequivocabilmente il segno di questa seconda opzione, tanto più se fosse la premessa di nuove elezioni in una fase cruciale dell’attuazione del Piano di rinascita e resilienza. Si dice che la missione di Draghi sia legata all’emergenza. Ma questa non è solo la progressiva e vincente aggressione al virus (che, come dimostrano le recenti disfatte dei No Pass, sta procedendo bene) ma è anche e soprattutto la costruzione, consentita dal Pnrr, di una nuova Italia più moderna, giusta ed efficiente. Sono due rami dello stesso albero, due obiettivi da cogliere insieme o insieme mancare. Ecco perché la continuità è essenziale e a ben poco servirebbero giochini di prestigio tipo un governo Franco in realtà diretto da Mario Draghi divenuto presidente della Repubblica, e meno che mai un rovescio politico che portasse Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Non si era ancora ben capito fino ad oggi, se Letta alla fine vedesse se stesso, in quanto capo del Nuovo Ulivo, candidato a palazzo Chigi in nome di un “draghismo senza Draghi”: una continuità che pur essendo sempre meglio di uno sviluppo massimalista (come vuole la sinistra Pd) o peggio neopopulista (come desidera Giuseppe Conte) sarebbe tuttavia debole perché privata dell’autorevolezza e della forza dell’attuale presidente del Consiglio… Ma le dichiarazioni di ieri di Enrico Letta non lascano più dubbi: “Noi non cederemo alla tentazione di chiedere il voto anticipato per un presunto interesse di parte”, scandisce, “so bene che qualcuno pensa che sarebbe più conveniente approfittarne ora, ma per noi viene prima l’interesse del Paese. E l’interesse del Paese è avere Draghi a Palazzo Chigi. La legislatura deve continuare sino al 2023 per completare le riforme e il Pnrr”. Nel Pd va sempre più emergendo una posizione che vede il partito mettersi al servizio della prosecuzione del draghismo “con gli stessi mezzi”, cioè proponendo Draghi alla guida dell’esecutivo pur senza essere il leader del centrosinistra ma in forza della sua superiorità tecnica e politica e semmai come sintesi dell’incontro tra Pd e riformisti di centro; tentando di far breccia nel centrodestra portando da questa parte anche Forza Italia e i vari centrismi che sono destinati a coagularsi in una sorta di “supercentro”. E dunque lasciando Matteo Salvini e Giorgia Meloni a farsi la guerra per la leadership dell’opposizione. Cosa c’è di bizzarro in questa idea? Può darsi che il proporzionale sia indispensabile per consentirla: non è colpa del bipolarismo come teoria politica se la pandemia ha cambiato tutto mandando il vecchio ordine (che poi era disordine) gambe all’aria e se all’improvviso si è stagliata una figura clamorosamente più forte di quelle espresse dai partiti come quella di Mario Draghi. Di certo, proporne la conferma alla guida del governo è una carta ottima per i riformisti di tutti i tipi. Forse l’ultima… D’altronde nel voto delle amministrative di domenica scorsa, qualcosa è pur successo… Anche stavolta i poveri elettori che hanno sperato in una vittoria della destra devono fare i conti con un’ennesima sconfitta. Ed è un buco nell’acqua più triste del solito. A questo giro la narrazione sul complotto dei media, dei provocatori di piazza, forse dei servizi segreti, non inganna più nessuno. Il povero elettore di centrodestra ogni tanto vorrebbe vincere qualcosa, essere primo non solo nei sondaggi ma anche nei cento metri che portano al governo delle cose, e invece no, anche stavolta gli è andata buca.La narrazione dei suoi leader sul complotto dei media, dei provocatori di piazza, forse dei servizi segreti, non convince più di tanto. Una volta il Papeete, un’altra le Sardine, poi nelle ultime settimane: Forza Nuova e il Barone Nero, con l’assalto alla Cgil, non è che può sempre essere colpa delle forze occulte o l’esito di un astuto complotto nemico. Non è che le cose sono forse più semplici? Non è che il povero elettore di centrodestra vorrebbe sapere, magari innanzitutto, perché hanno candidato Enrico Michetti a sindaco di Roma, uno che non è riuscito a riportare alle urne per i ballottaggi manco i santuari elettorali di Roma Nord e che tutti hanno votato turandosi il naso, vergognandosi di farlo. Poi, perché mezza campagna elettorale è stata giocata sull’ostilità al Green Pass che per la destra italiana, nata sul ‘law and order’, è stato un vero rovesciamento dei fondamentali. Infine, perché invece di chiedere voti in nome di un programma per Roma, Latina, Varese, Cosenza, lo si è fatto in nome di una futura leadership di Giorgia Meloni o di Matteo Salvini? Insomma in nome di una sfida interna di appeal pari a zero per chi non è organico a un partito… L’orribile distacco dei perdenti nelle due principali città giudicate contendibili – 20 punti a Roma, altrettanti a Torino – svela l’infondatezza di ogni ambizione della vigilia e induce il povero elettore a ragionamenti amari. Quando perdi così, con questi numeri, senza nemmeno un assaggio di testa a testa, significa che i capi ti hanno imbrogliato, ti hanno presentato un brocco come se fosse un campione, e una squadra di brocchi come se fosse un dream team, e una scontata Caporetto come una sfida aperta. Lo si fa sempre in campagna elettorale, ma stavolta l’eccesso di distanza e l’uniformità del risultato a ogni latitudine trasforma il vecchio trucco retorico della “vittoria quasi certa” in qualcosa di simile a un inganno: persino a Trieste, l’unica sindacatura conservata, la sinistra ha sfiorato il successo recuperando 17 punti in due settimane. Il centrodestra dovrebbe stare attento ai sentimenti dei propri elettori, che da anni strapazza ritenendolo tutt’al più capace di transitare da una sigla all’altra dello stesso recinto, comunque fedele alla super-ditta di riferimento. Forse il povero elettore di centrodestra è paziente e meno attrezzato dei colleghi di sinistra all’analisi del voto. Forse è anche più credulone del suo omologo di sinistra, che quando perde si spacca la testa sull’analisi dei flussi dell’Istituto Cattaneo, somma e sottrae percentuali, litiga coi compagni: lui si accontenta di condividere le spiegazioni televisive dei capi, quasi sempre rifritture del vecchio “mancò la fortuna, non il valore” (nella odierna fattispecie: colpa dell’astensionismo, colpa delle inchieste a orologeria, colpa del ritardo nelle candidature) …Ma stavolta dovrebbe essere diverso. Stavolta è arrivato anche a destra il momento “morettiano” in cui qualcuno, guardando i risultati in tv, uscendo da una piazza, commentando i risultati in una cena, darà voce al pensiero collettivo e dirà a voce alta: “con questi dirigenti non vinceremo mai!” Alla fine sarà molto difficile rimettere le cose al loro posto…

E’ sempre tempo di Coaching!

Se hai domande o riflessioni da fare ti invito a lasciare un commento a questo post: sarò felice di risponderti oppure prendi appuntamento per una  sessione di coaching gratuito

 

0

Aggiungi un commento