Automazione e calo dei posti di lavoro, ormai è emergenza…

Se mettete l’acqua a scaldare sul fornello, all’inizio diventerà sempre più calda; potreste concludere: “Scaldando l’acqua si ottiene solo acqua calda”.  Ma a un certo punto tutto cambia. L’acqua inizia a bollire, trasformandosi da liquido caldo in vapore. I fisici la chiamano ‘transizione di fase o cambiamento di stato”. Negli ultimi decenni, l’automazione, guidata dal progresso tecnologico, è in inesorabile aumento. Da anni, in campo economico due scuole di pensiero dibattono sui potenziali effetti dell’automazione sui posti di lavoro, sull’occupazione e sull’attività umana: come faranno i robot a portar via il lavoro agli uomini? La nuova tecnologia creerà disoccupazione? O sarà il lavoro dei robot a generare – o a richiedere – nuovi posti di lavoro per gli uomini? Il dibattito è ripreso di recente: infatti se da alcuni anni si parlava spesso di questa questione perché molte aziende in tutto il mondo si stanno automatizzando sempre di più… Ora grazie a Bill Gates che prevede che nel giro di vent’anni il lavoro degli operai, quello degli autisti e degli addetti alle pulizie, per esempio, sarà completamente automatizzato. Ma non solo, secondo le previsioni più pessimiste, poi, non solo i lavori manuali saranno sempre più una prerogativa delle macchine: con i progressi nel campo dell’intelligenza artificiale i computer saranno capaci di svolgere anche attività per cui si è sempre ritenuto indispensabile l’apporto umano. Basti pensare alla qualità sempre maggiore delle traduzioni di Google Traduttore, che in futuro potrebbe rendere superfluo il lavoro di molti traduttori umani. Tant’è che secondo un ulteriore studio della società di consulenza McKinsey, con le attuali risorse tecnologiche il 45 per cento degli impieghi attualmente svolti dalle persone potrebbe essere automatizzato e circa il 60 per cento delle attività produttive potrebbe essere automatizzato almeno del 30 per cento… Per Gates il passaggio dalla situazione attuale a quella futura, in cui avremo solo operai robot e autisti robot, avverrà praticamente tutto in una volta: per questo i governi – e non le aziende – devono cominciare a pensare a come affrontare la situazione per evitare che si formino nuovi tipi di ineguaglianze e disoccupazione di massa. Tra le molte strade possibili Gates ne cita una, che non esclude le altre: introdurre una tassa sui robot. In definitiva, la domanda si riduce a questo: le innovazioni tecnologiche moderne, sono paragonabili a quelle che nel passato hanno reso obsoleta la costruzione dei calessi, che però hanno creato nuovi posti di lavoro nell’industria automobilistica? Oppure oggi è tutto diverso? Siamo davvero così sicuri di non essere vicini a un “trabocco” della storia, a un cambiamento di stato e che non confondiamo la tendenza tecnologica, sia di distruggere sia di creare di posti di lavoro, con una legge eterna? Questa preoccupazione non è nuova. Risale almeno ai Luddisti britannici di inizio 19esimo secolo, le nuove tecnologie scatenano le paure per gli inevitabili cambiamenti che portano. Può sembrare facile respingere le preoccupazioni odierne come infondate nella realtà. Ma gli economisti Jeffrey Sachs della Columbia University e Laurence Kotlikoff della Boston University chiedono: «Cosa succederebbe se le macchine diventassero così intelligenti, grazie ai loro cervelli-microprocessore, da non aver più bisogno di manodopera non qualificata per operare?». Dopo tutto, scrivono: “Esistono già: Macchine intelligenti che ora raccolgono i nostri pedaggi autostradali, ci controllano all’uscita dei negozi, monitorano la nostra pressione sanguigna, ci massaggiano le spalle, ci danno indicazioni, rispondono ai nostri telefoni, stampano documenti, trasmettono messaggi, cullano i nostri bambini, leggono i nostri libri, ci accendono le luci, fanno brillare le nostre scarpe, custodiscono le nostre case, fanno volare i nostri aerei, scrivono le nostre volontà, insegnano ai nostri figli, uccidono i nostri nemici e così via.” Vi sono numerose prove che possono giustificare questa preoccupazione. Di recente, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee del Mit di Boston hanno scritto: “Per diversi decenni dopo la Seconda guerra mondiale, le statistiche economiche più interessanti per gli americani crescevano di pari passo negli Usa, come fossero strettamente accoppiate. Il Pil è cresciuto al pari della produttività, cioè della capacità di ottenere più produzione da ciascun lavoratore. Allo stesso tempo abbiamo creato milioni di posti di lavoro, e molti di questi erano tipi di lavoro che hanno permesso al lavoratore medio americano, che non ha (e che continua a non avere) una laurea, di migliorare e di elevare lo standard di vita. Ma a un certo punto crescita della produttività e crescita dell’occupazione hanno iniziato a dissociarsi”. Come dimostrano i dati della dissociazione, l’economia degli Stati Uniti è andata piuttosto male per il 90 per cento degli americani, quelli col reddito più basso, negli ultimi 40 anni. La tecnologia sta guidando il miglioramento della produttività, che fa crescere l’economia. Ma l’alta marea non solleva tutte le barche, e la maggior parte delle persone non ha ottenuto alcun beneficio da questa crescita. Sebbene l’economia statunitense stia continuando a creare posti di lavoro, non ne sta creando abbastanza. Il tasso di partecipazione della forza lavoro, che ne misura la parte attiva, è calato a partire da fine anni 90. Mentre produzione manifatturiera è al suo livello più alto di sempre, l’occupazione oggi è inferiore a quella di fine anni 40. I salari per i dipendenti privati non supervisionati sono fermi da fine anni 60, e il rapporto salario/Pil è in calo dal 1970. La disoccupazione a lungo termine tende a salire, e la disuguaglianza è diventata argomento di discussione globale a seguito della pubblicazione, nel 2014, del libro di Thomas Piketty ‘Il capitale nel XXI secolo’. Fatto ancor più scioccante, l’economista Angus Deaton (premio Nobel 2015 per le scienze economiche) e Anna Caso hanno scoperto che la mortalità per gli americani bianchi di mezza età è aumentata negli ultimi 25 anni a causa di una epidemia di suicidi e afflizioni derivanti da abuso di sostanze. L’automazione, guidata dai progressi tecnologici, in generale e l’intelligenza artificiale – robotica, in particolare – sono la causa principale del declino economico dei lavoratori americani? In economia, è più facile essere d’accordo sui dati che essere d’accordo sulle cause. Molti altri fattori possono essere in gioco, quali la globalizzazione, la deregolamentazione, il declino dei sindacati e simili… Eppure, in un sondaggio accademico del 2014 sull’impatto della tecnologia in materia di occupazione e di reddito, guidato da economisti accademici e condotto da Chicago Initiative on Global Markets, il 43 per cento degli intervistati concordava con l’affermazione ‘le tecnologie dell’informazione e l’automazione sono una delle ragioni principali per cui i salari medi hanno ristagnato negli Stati Uniti nel corso del decennio, nonostante l’aumento della produttività’; solo il 28 per cento era in disaccordo. Allo stesso modo, uno studio del 2015 da parte dell’Fmi (Fondo Monetario Internazionale) ha concluso che il progresso tecnologico è stato un fattore determinante della crescita delle disuguaglianze nel corso degli ultimi decenni… In questo momento, la linea di fondo è: attualmente, a livello economico l’automazione sta eliminando molti posti di lavoro – una volta svolti da personale umano – e negli ultimi anni non ci sono segnali che l’insediamento tecnologico abbia creato posti di lavoro ben pagati in grado di compensare tali perdite. Uno studio di Oxford del 2014 ha rilevato che il numero di lavoratori statunitensi inseriti nelle nuove industrie è stato sorprendentemente piccolo: nel 2010 solo lo 0,5 per cento della forza lavoro è stata impiegata in settori che non esistevano nel 2000.

“Il dibattito uomo-macchina-lavoro ha la tendenza a essere rimandato a tempo indeterminato, nel lontano futuro. Automazione e calo dei posti di lavoro, ormai è emergenza… Ma è tempo di affrontare la realtà. Il futuro è ora”

(Moshe Y. Vardi – professore d’informatica della Rice University)

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