Dall’illusione di Veltroni, alla sconfitta di Renzi, Pd senza pace… Come finirà?

Quella del Partito Democratico non è mai stata una storia tranquilla, e per ragioni interne molto più che a causa degli avversari… Lo sa bene Walter Veltroni, illuso che il Pd avrebbe fatto sintesi dell’esperienza dell’Ulivo e trasformato quella carovana di partiti e gruppi in un soggetto unitario. Con Veltroni l’impronta di Sinistra scompariva dal nome – Pd e non più Pds –, l’adesione al Socialismo europeo tramutava in associazione e il modello diventava il partito democratico americano, di cui assumeva la vocazione maggioritaria per andare ben oltre i vecchi confini socialisti, di sinistra e classisti. La novità era così forte e ricca di promesse che il 33 e poco più per cento dei voti conquistato nelle elezioni del 2008, per quanto surclassato dalla strabordante vittoria di Berlusconi, fu salutato come un successo. La sconfitta Veltroni l’attribuì all’eredità della litigiosa alleanza guidata da Prodi, gli altri alla sua vocazione maggioritaria. Così, subito dopo, si aprì una fase di dispute e divisioni molto aspra da portare all’amaro abbandono della segreteria da parte di Veltroni. Seguirono l’interregno del suo vice, Dario Franceschini, quindi un congresso e la lunga segreteria di Bersani. Ricordate i versi della canzone di Vasco Rossi, «Voglio dare un senso a questa storia» con cui Bersani tappezzò i muri d’Italia. Ricordo anche una strada di Milano: su quei manifesti qualcuno, a pennarello, aveva aggiunto, «Anche se questa storia un senso non ce l’ha». Tant’è che, il senso di Bersani, fu che alle sue primarie “aperte” il segretario fece partecipare anche Vendola e Tabacci e con ciò archiviò la vocazione maggioritaria di Veltroni e riesumò l’Ulivo. A sfidarlo c’era anche un giovanissimo Matteo Renzi che perse ma solo perché Bersani al ballottaggio ricevette in dote il 15 per cento di Vendola. Il peggio arrivò più avanti, con l’impallinamento dei candidati Pd al Quirinale, prima Marini e poi lo stesso Prodi. I famosi 101 (mai saputo chi fossero, eppure con il senno di poi non è così difficile capirlo). La paralisi portò alla rielezione di Napolitano e poi alle larghe intese di  Enrico Letta con il Pdl. Ma il Pd ancora non trovò pace. Defenestrato l’alleato Berlusconi dal Senato, (dopo la condanna giudiziaria per evasione fiscale per via della legge Severino) cominciò a segare il ramo su cui era seduto… Con la stessa formula in Puglia Vendola aveva già vinto e poi a Milano, alle primarie per il candidato sindaco, Giuliano Pisapia sbaragliò quelli del Pd. Lo stesso accadde a Genova con Rossi Doria e in altro modo a Napoli con De Magistris… In seguito con la mezza vittoria del 2013 Bersani assicurò comunque al Pd – grazie al mostruoso premio del Porcellum – una larga maggioranza alla Camera. Ma per via dei pochi voti di maggioranza al Senato, si mise a inseguire un vano accordo con Grillo & i suoi, considerandoli una costola anarchica della Sinistra. Famoso lo streaming di Bersani con i 5 stelle Crimi e  Lombardi. Bersani venne umiliato. Alla fine non riuscendo a formare un governo, finì per dimettersi da Segretario del PD. Renzi, questa volta vinse le primarie, rilanciò la vocazione maggioritaria e per cominciare segò Enrico Letta e poi escluse Berlusconi da un accordo (del Nazzareno) sul Quirinale, inimicandoselo. Malgrado meriti e successi, con l’indigeribile riforma costituzionale e l’ancor più indigesta legge elettorale corse al referendum. In più la stessa ricetta Renzi l’applicò anche al Pd rottamando i vecchi e le minoranze. Così, il 4 dicembre 2016, la marcia trionfale dopo le elezioni europee (40 e più percento) cambiò ritmo, è divenne un de profundis. Dimessosi da Primo Ministro, traballante nel partito, smentendosi rispetto all’annuncio che se perdeva il referendum avrebbe lasciato la politica, Renzi pur azzoppato vuol riprendersi il partito. Ci riesce con un congresso lampo e ne ottiene il controllo (70%), ma il partito ne esce solo ulteriormente lacerato… Siamo quindi ad una prima conclusione: fallito il campo progressista, fallita la vocazione maggioritaria, malgrado da quasi cinque anni governi gran parte d’Italia, il Pd, dopo che l’Italicum venne dichiarato incostituzionale dalla consulta e, subita (ma forse anche voluta), una “prima” scissione (Bersani & C.), mette mano alla necessità di una nuova legge elettorale, a questo punto, il più proporzionale possibile per affrontare la scadenza elettorale del 2018. Il PD, con l’aiuto di Forza Italia e della Lega, imponendo al Governo Gentiloni l’uso (abuso) del voto di fiducia anche sulla legge elettorale, vara il Rosatellum, una legge per 2/3 proporzionale, il che esigerebbe che il partito avesse il massimo d’identità e di unità, nonché disponibile alle alleanze,  invece non è mai stato così correntizio, così chiuso su se stesso, così incerto sull’oggi e così in ansia sul proprio domani. Inoltre anche il PD, come M5s e tutti i partiti della coalizione di centro destra, (FI, Lega e FdI) conduce una campagna elettorale come se ancora le elezioni avessero un carattere elettivo maggioritario. Uno scontro tutto giocato sulle contrapposizioni anche personali delle leadership in campo. Siamo così giunti, al 4 marzo di quest’anno, si vota.  Renzi vive la sua Waterloo, il PD e il suo Segretario mettono insieme solo il 18,5% dei voti, uscendone grandemente sconfitti. Renzi “ovviamente” vista la dimensione della sconfitta lascia (ma solo fintamente) l’incarico di Segretario e statutariamente (ma fintamente) la gestione del partito al suo vice Maurizio Martina.  Questi, promette subito la collegialità nella conduzione del partito, in modo di coinvolgerne tutte le correnti, per ricercare l’unità mancante. Al primo accenno alla collegialità, Martina trova immediatamente la diffidenza e l’ostilità dei renziani, la corrente maggioritaria in Direzione, nell’Assemblea, nonché nei nuovi gruppi parlamentari appena eletti. Auto-candidatosi a Segretario, Maurizio Martina, ritiene inopportuno convocare immediatamente il congresso e chiede di essere eletto direttamente dall’assemblea nazionale del partito (possibilità prevista dallo statuto). Con lo scopo di condurre il PD al Congresso, solo dopo un lavoro approfondito (almeno un anno) di analisi e discussione sui territori con la base militante e l’elettorato, per dare così all’assise congressuale un carattere rifondativo. Un Congresso che sarebbe comunque anticipato rispetto alla scadenza ordinaria del 2021, da tenersi quindi entro il 2019. L’Assemblea nazionale, convocata per 21 aprile, viene rinviata e viene riconvocata, per il prossimo 19 maggio. Nel frattempo dal rinvio dell’assemblea, a oggi, Renzi, smentendosi per l’ennesima volta: “starò in silenzio per i prossimi due anni e farò il Senatore semplice di Firenze e Scandicci”; si è ripreso la scena pubblica con le sue interviste televisive e facendo costruire all’interno del partito, un muro, fatto con numerose dichiarazioni sulla stampa e sulla Rete dei sui sodali, delegittimando così proprio il Segretario reggente. Dimostrando, che le sue dimissioni da Segretario nascondevano un inganno. Nel PD chi comanda è solo Renzi, forte della sua corrente di maggioranza, che di anno in anno si corrobora alle assemblee della Leopolda e che quest’anno (è già prevista per ottobre), titola intenzionalmente “la prova del nove”. A nulla, quindi, sembra essere servito il voto unitario dell’ultima Direzione dello scorso 3 maggio. Che riconfermava la piena fiducia a Martina. Archiviava ogni possibilità di confronto coi 5 stelle, per verificare una seppur improbabile costruzione con loro di una maggioranza di governo (resa impossibile proprio dalle dichiarazioni televisive dell’ex Segretario) e rinviava la “conta” nel partito tra maggioranza e minoranze, ad un altro momento. Bene, il momento sembra arrivare: sarà con tutta probabilità la prossima assemblea nazionale! Se non si troverà un qualche altro accordo. In una intervista rilasciata a Repubblica, qualche giorno fa, Martina, ripropone la sua candidatura a Segretario con l’elezione diretta nell’assemblea del 19 maggio; chiedendo di non convocare il Congresso subito e tutti quanti assieme, fare un lavoro di attenta ricucitura dei rapporti, ormai gravemente lisi del gruppo dirigente e di questo con la base del partito, nel tentativo di ricostruire nel PD una prospettiva veramente unitaria e collegiale. Smorzando anche, le sempre maggiori e più ampie critiche, alla gestione renziana (vedasi documento delle donne PD e dei Giovani del Partito). La maggioranza renziana, non ci sente e dice un secco no! Matteo Renzi vuole il congresso subito: è apre di nuovo lo scontro nel Pd. Si convochi il prima possibile il Congresso e se Martina vuole si candidi alle primarie e si vedrà se otterrà l’investitura. Nel frattempo la gestione passa al Presidente del PD Matteo Orfini. L’ex Segretario (non ex) “non molla”. L’aveva detto chiaramente nella conferenza stampa delle (false) dimissioni. Rimuovendo per l’ennesima volta ogni analisi dei perché delle numerose sconfitte e ogni autocritica personale. Eppure è ormai chiaro a molti, dentro e fuori il partito, che la débâcle elettorale del 4 marzo è conseguente alla sconfitta referendaria del dicembre 2016. Quella è la “madre” di tutte le sconfitte del PD nelle varie elezioni regionali e comunali che si sono susseguite nei 15 mesi intercorrenti d’allora al marzo di quest’anno. Maurizio Martina è sostenuto da Dario Franceschini, Andrea Orlando, Cuperlo e da Emiliano. Insistono tutti, sulla necessità di “un lavoro di ricostruzione dal basso, che porti a un congresso nel prossimo anno”. Dieci giorni fa anche Paolo Gentiloni aveva espresso l’idea che sarebbe opportuno dare “un po’ di tempo” al lavoro di Martina. ”Si può anche andare a congresso velocemente in autunno”, sostengono i “non renziani”, ma al Nazareno fino ad allora deve restare Martina come Segretario reggente. Non è così, replicano i renziani: a norma di statuto e dell’unico precedente (le dimissioni di Renzi dopo la sconfitta al referendum del 2016), decadrebbero tutti gli organismi del partito, tranne la presidenza di Matteo Orfini. “Non c’è accordo per dare la reggenza a Orfini”, replicano i sostenitori di Martina. E allora i renziani, che affermano di avere ancora una larga maggioranza in assemblea, si dicono pronti ad andare alla conta. Ecco l’ennesimo braccio di ferro: Martina o Orfini? La scelta non è irrilevante: se come sembra sempre più possibile (l’accordo di governo tra Lega e 5 stelle, in queste ore sembra fallire) si riprecipitasse verso il voto anticipato, il reggente comporrebbe lui  le liste elettorali. Una fase costituente quindi – sostengono i parlamentari vicini a Martina – avrebbe il vantaggio di evitare una conta esasperata solo di tessere e truppe cammellate. “Serve subito il congresso”, replicano ancora i renziani. La strategia di Renzi, punta con la gestione di Orfini, nel caso di  ravvicinate elezioni, a mantenere all’area renziana la stesura delle liste dei candidati, com’è nei sui desiderata. Renzi pensa ad un congresso ancora una volta rapido, senza alcuna reale discussione politica, anche per compiere velocemente alcune scelte di fondo. Renzi immagina un Pd largo, che recuperi i voti moderati in uscita da FI, che non vogliono essere “cannibalizzati” dalla Lega. La minoranza vuole invece, il ritorno a un’alleanza di centrosinistra anche con Liberi e Uguali. Inoltre il fronte ‘non renziano’, che sostiene la proposta di Martina, ha già due possibili candidati al congresso: lo stesso Martina e Nicola Zingaretti, che è il nome più naturale per la sinistra democratica. Renzi, che non intende ricandidarsi, così almeno dice (non si sa quanto sinceramente), non ha invece ancora un nome sicuro da sostenere: Graziano Delrio, che ripete i suoi “no” sarebbe la prima scelta.  In alternativa si parla di Lorenzo Guerini o Ettore Rosato, mentre su Matteo Richetti manterrebbe qualche dubbio. Obbligata la domanda: veramente Renzi & C., pensano possibile una immediata rivalsa e la risalita nei consensi dell’elettorato italiano, in un così breve tempo? Giocando tutto sul possibile fallimento del costituente governo a maggioranza Lega e M5s?  Non pare un obiettivo alquanto illusorio e poco credibile? Le proiezioni statistiche dicono che al meglio il PD manterrebbe il risultato ottenuto alle elezioni e, non prevedono una anche minima ripresa del consenso.  Ma, non è questo il vero obiettivo di Renzi e dei suoi sodali. E neppure è l’obiettivo del “rinato” Berlusconi, che ha dovuto lasciare al momento a Salvini la leadership del centrodestra. Il vero obiettivo per i renziani è la definitiva sconfitta delle minoranze del PD, e l’uscita definitiva di questi residui delle sinistre – post.comunista, socialista e democristiana – ancora presenti in questo PD. Renzi ha, come principale obiettivo di sopravvivere politicamente a se stesso e ai suoi errori. Nel tentativo “draconiano” di avere finalmente un partito completamente suo (idea proprietaria), costruendo un partito “centrista” e riproponendo una riforma istituzionale a carattere semi-presidenziale (il suo modello del momento è Macron). Con in più la riedizione di un’alleanza con Forza Italia, di un Berlusconi, oggi completamente riabilitato e rieleggibile. Così che, sommando le rispettive forze elettorali, in una non lontana chiamata al voto, possano aggregare una percentuale sufficiente di voti, per determinare la loro rilevanza sulle future maggioranze di governo… Renzi  – data la sua ancora giovane età e  vista l’età avanzata di Berlusconi – attende la possibilità di ereditare, un domani prossimo, la totale e unica leadership di un nuovo schieramento moderato e centrista sulla scena della politica italiana e Europea. Rilegando la lega di Salvini e Fratelli d’Italia a destra, controllarne gli eccessi populistici e non permettergli un ulteriore sfondamento elettorale a spese di FI ma anche del PD. Tenendoli legati in una rinnovata coalizione di centro-destra (con il trattino). Questo è l’obiettivo vero che i due pattisti del Nazzareno inseguono già da tempo. Obiettivo, condiviso  e voluto anche da alcuni dei c.d. poteri forti nazionali e internazionali. Oggi lo scopo principale è quello di rimandare il Movimento 5 Stelle all’opposizione, ridimensionato nei consensi, dopo il fallimento  nel governo della Capitale, della mancata conquista di qualche regione e di ulteriori città e, soprattutto dell’ormai probabile mancato accordo con la lega per dare, dopo più di 70 giorni dalle elezioni, un governo politico al Paese.  Lasciando ai fuori usciti di Liberi e Uguali, magari rimpolpati di uno o due punti percentuali, dalla più che probabile “seconda” scissione a sinistra delle restanti minoranze del partito democratico. Uno spazio di pura testimonianza come Sinistra sul palcoscenico politico italiano. Alla faccia del rinnovamento della politica e del cambiamento del Paese. Il “diavolo fa le pentole ma non i coperchi…” Cos’è che può impedire il realizzarsi di un simile disegno?  Forse, l’unica reale possibilità è quella di un ritorno al voto dell’area d’astensione – consolidata ormai attorno a un 40% – , ma che al momento, gli italiani sempre più delusi dalla politica, sembrerebbero invece, intenzionati ad aumentare ulteriormente, soprattutto se si tornasse com’è probabile ad un voto ravvicinato… Chissà?!

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