Economia: La situazione economica mondiale vede la gran parte dell’umanità vivere in condizioni che la minoranza più ricca si è lasciata alle spalle generazioni fa. È necessario e urgente fermare la crescita delle disuguaglianze socio-economiche e ridistribuire le risorse oggi disponibili in modo più equo…

Su cosa si regge un sistema globale in cui per fare arrivare un pollo in tavola è necessaria una quantità di energia pari a mezza bottiglia di greggio? Uno dei massimi esperti di scienze ambientali Vaclav Smil (un cecoslovacco naturalizzato canadese, docente emerito presso la Facoltà di Scienze ambientali dell’Università di Manitoba) descrive in: “Come funziona davvero il mondo” (Einaudi), i meccanismi complessi che permettono questo ‘benessere sbilanciato’ di cui noi e tutti i popoli dei paesi OCSE (vedi mappa)  godono. Qualsiasi periodo storico ha pretese di unicità, sebbene l’esperienza delle ultime tre generazioni – quelle successive alla fine della Seconda guerra mondiale – possano non essere state cosí rivoluzionarie come quelle delle tre che hanno preceduto lo scoppio della Grande guerra, infatti, non sono certo mancati nemmeno allora gli avvenimenti e i progressi tecnico-scientifici. Ciò che colpisce è che oggi ci sia un numero maggiore di persone che godono di un tenore di vita migliore, per un numero maggiore di anni e in condizioni di salute migliori, rispetto a qualsiasi altro momento della storia umana. Eppure, i beneficiari di queste circostanze (dove si trova la ricchezza nel mondo? Una mappa lo spiega molto bene) costituiscono ancora una minoranza – soltanto un quinto della popolazione mondiale, ovvero poco più di un miliardo e mezzo di persone, visto che ormai abbiamo raggiunto la cifra di ben 8 miliardi di individui. La seconda conquista che nel libro, Vaclav Smil  ci indica come degna della nostra ammirazione, è l’espansione senza precedenti sperimentata dalla nostra comprensione sia del mondo fisico che di tutte le forme di vita che lo abitano. Ormai il campo della nostra conoscenza si estende da grandi generalizzazioni riguardanti sistemi complessi su scala universale (galassie, stelle) e planetaria (atmosfera, idrosfera, biosfera) fino a processi osservabili soltanto su scala atomica e genica: le linee incise sulla superficie del più potente microprocessore hanno un diametro pari appena al doppio di quello del Dna umano. È da ciò che abbiamo derivato un assortimento in continua espansione di macchine, dispositivi, procedure, protocolli e interventi che sono alla base della nostra civiltà e l’enormità della nostra conoscenza aggregata – e dei metodi che abbiamo adoperato per impiegarla a nostro vantaggio – va ben oltre le capacità di comprensione della mente di qualsiasi individuo. L’atomizzazione della nostra conoscenza non ci ha tuttavia reso più semplice prendere decisioni. Le branche, altamente specializzate, della scienza moderna sono diventate cosí arcane che molti di coloro che se ne occupano sono costretti a studiare fino all’inizio dei loro trent’anni prima di poter essere ammessi in questo nuovo ordine sacro. Questi campi potranno anche avere in comune lunghi percorsi di apprendistato, ma troppo spesso non sono in grado di accordarsi su quale sia il miglior modo di procedere rispetto alla stessa questione. Ciononostante, le incognite e le diatribe non giustificano un livello di fraintendimento come quello condiviso dalla maggior parte delle persone per i processi su cui è fondato il mondo moderno. Ma le ragioni che stanno dietro a un simile deficit di comprensione vanno ben al di là del fatto che la vastità del nostro sapere collettivo incoraggia la specializzazione, con l’ovvio rovescio della medaglia di una cognizione incredibilmente superficiale – se non dell’ignoranza – delle basi. I processi di urbanizzazione e di meccanizzazione planetaria costituiscono altre due importanti ragioni. L’altra importante ragione della sempre più scarsa comprensione che abbiamo dei processi fondamentali che regolano la distribuzione di energia (sotto forma di cibo o carburanti) e di materie durevoli (che siano metalli, minerali non metallici o calcestruzzo) è che questi processi sono considerati antiquati – se non proprio sorpassati – e decisamente poco interessanti se confrontati con il mondo dell’informazione, dei dati e delle immagini. Le proverbiali menti migliori non si dedicano alla scienza del suolo e non si mettono alla prova nel tentativo di sviluppare un tipo di cemento più efficiente di quelli esistenti, preferiscono maneggiare informazioni immateriali, nella forma di elettroni che scorrono all’interno di una miriade di micro-dispositivi. Che si tratti di avvocati o economisti, programmatori o gestori di patrimoni finanziari, i loro ricchi e sproporzionati compensi sono dovuti ad attività che non hanno niente a che fare con la realtà materiale della vita sulla Terra. Inoltre, molti fanatici dei dati arrivano a credere che questi flussi elettronici renderanno quelle bizzarre e obsolete risorse materiali non più necessarie. Dovremmo riflettere di più su tutto ciò. Mentre il nostro sguardo va già ben oltre. Ad esempio: verso una coltivazione dei campi che verrà sostituita dall’agricoltura verticale urbana, e prima o poi i prodotti sintetici elimineranno una volta per tutte il bisogno di dover effettivamente coltivare o allevare il cibo. Il processo di smaterializzazione, alimentato dall’intelligenza artificiale, porrà fine alla nostra dipendenza da masse di metalli e minerali lavorati e modellati in forme particolari, e prima o poi potremo anche fare a meno dell’ambiente terrestre: chi mai ne avrà bisogno una volta che avremo terra formato Marte? Già, proprio così, in vari articoli giornalistici sul dibattito politico nostrano (quasi fossero dei ‘refusi’) si leggono spesso dei futuribili contenuti del prossimo vivere umano, tutte cose che non aiutano la già grande confusione complessiva sul futuro umano o per meglio dire se sarà ancora possibile un umano futuro in un Mondo che muta velocemente (energie alternative, cibi alternativi, ecc.). Ovviamente queste non sono soltanto previsioni estremamente premature sul Mondo che verrà, ma sono sempre più vere e proprie fantasie promosse da una società nella quale stiamo tristemente scoprendo l’esistenza di molte notizie false, che sono cosa comune alla realtà e alla finzione, che vengono mischiate al punto tale  che menti ingenue, inclini ad abbracciare le visioni del Metaverso, credono a storie che in passato osservatori meno diplomatici non avrebbero esitato a definire quasi, se non veri e propri “deliri”. Un po’ di chiarezza: nessuno dei lettori del libro che ispira questo post, si trasferirà mai su Marte; noi tutti continueremo a cibarci di cereali di base, coltivati sul suolo in vasti appezzamenti di terra, piuttosto che nei grattacieli immaginati dai promotori della cosiddetta agricoltura urbana; nessuno di noi vivrà in un mondo immateriale in cui non si vedrà più alcuna utilità in insostituibili processi naturali quali l’evaporazione dell’acqua o l’impollinazione delle piante. Ma occorre almeno ben comprendere a questo punto della nostra vicenda umana, che distribuire le risorse naturali per noi essenziali sarà un compito sempre più impegnativo, dato che una larga parte dell’umanità ancora oggi, vive in condizioni che la minoranza più ricca si è lasciata alle spalle generazioni fa, e visto che la crescente domanda di energia e materie prime ha esercitato una pressione cosí intensa e cosí improvvisa sulla biosfera da comprometterne la capacità di mantenere l’equilibrio dei cicli naturali e delle riserve (es. l’acqua) nei limiti compatibili con il suo corretto funzionamento nel lungo periodo… Altro riferimento ‘obbligato’ preso in considerazione qui è il documento di Oxfam  titolato: “il virus della disuguaglianza”. Cos’è successo negli ultimi 30anni e dove sta una spiegazione condivisibile e veritiera che ci permetta di guardare e sorreggere ancora un sistema globale vista altresì l’attuale situazione del perdurare della più lunga crisi economica e sociale mai accaduta nel mondo Occidentale? Dagli anni ‘70 la natura del capitalismo è cambiata, passando da un “capitalismo integrato” dal punto di vista sociale (Polanyi) verso il “neoliberismo”, la “deregolamentazione”, la “globalizzazione” e la “finanziarizzazione”. L’equilibrio tra Stato e mercati si è spostato a discapito delle istituzioni democratiche. La crescente “denazionalizzazione” dell’economia e del processo di presa di decisione politica è andata di pari passo con la supremazia dei mercati (finanziari) sulla politica. Lo Stato democratico ha perso potere nei confronti dei mercati globalizzati e deregolamentati. E questo spostamento di potere ha accelerato la crescita delle disuguaglianze socio-economiche anche all’interno degli stessi paesi OCSE, generando un impatto negativo sulla qualità delle nostre democrazie e del loro vivere sociale. Durante gli ultimi 30 anni, è stato osservato un costante calo della partecipazione elettorale in tutti i Paesi OCSE. Ma, il vero problema a cui le attuali democrazie devono far fronte non è solo legato alla diminuzione dell’affluenza alle urne, ma riguarda anche la selettività sociale che ne consegue. E laddove il calo dell’affluenza elettorale è più marcato, maggiore è l’esclusione sociale. È ormai inconfutabile che le classi sociali più basse siano quelle che tendono ad allontanarsi maggiormente dalla politica. Le classi medie e alte continuano ad andare alle urne, e questo non fa che aumentare la loro supremazia, tenuto conto del costante calo della partecipazione delle classi inferiori. È solo in questi ultimi tempi che i partiti populisti di destra stanno mobilitando con successo le classi inferiori. Considerando l’idea di un voto economico, si potrebbe sostenere che tutti gli elettori con un reddito inferiore alla media dovrebbero votare per i partiti politici che lottano per una redistribuzione della ricchezza. Ma perché questo meccanismo ha fallito negli ultimi decenni? I partiti democratici e progressisti genericamente definiti di sinistra, nei loro programmi di partito, continuano a dichiarare di rappresentare gli interessi di quelle classi. Tuttavia, gli stessi partiti di sinistra, quando sono al governo, si trovano di fronte a un vero e proprio dilemma: se si impegnano davvero in politiche redistributive legate, per esempio, ai salari minimi, al mantenimento del welfare state e alla tassazione dei redditi più elevati, si trovano di fronte alla minaccia, da parte degli investitori, di spostare i capitali e gli investimenti all’estero. Per i razionali partiti di centro-sinistra, risulta quindi meno rischioso mobilitare la classe media anziché le classi inferiori. Il voto economico, in ogni caso, non è l’unico motivo in grado di spiegare perché le elezioni non abbiano arrestato l’aumento delle disuguaglianze sociali. Oggi, i conflitti socio-economici vanno di pari passo con i conflitti culturali. Questi ultimi possono essere declinati, a livello di atteggiamenti, su una scala di libertarismo-autoritarismo o cosmopolitismo e comunitarismo. In particolare, le classi medie-inferiori e inferiori (principalmente uomini) sono ricettive di fronte a politiche autoritarie, etnocentriche e nazionaliste-comunitarie. Dalla fine degli anni ‘70, i movimenti di protesta hanno iniziato a concentrarsi più su questioni culturali che economiche. L’importanza dei sindacati è diminuita. La democrazia rappresentativa non ha ancora saputo trovare antidoti efficaci contro la patologia della disuguaglianza socio-economica e politica. Le contromisure proposte dalle teorie democratiche, dai referendum alle assemblee deliberative passando per il monitoraggio o la contro-democrazia possono salvare le balene e le specie in via di estinzione, possono limitare la corruzione e le violazioni dei diritti umani. Che è già molto, ma sembrano avere una scarsa rilevanza per dare una nuova regolamentazione ai mercati, per ripristinare il welfare sociale e fermare le crescenti disuguaglianze. Infatti, la svolta culturale della politica democratica progressista ha dimenticato totalmente il problema della ridistribuzione economica (chi parla più della redistribuzione del reddito)  e ora non ha una cura per la malattia più evidente della democrazia: la disuguaglianza  e la povertà come destino. Non nel «terzo mondo», come lo abbiamo a lungo chiamato forse per suggellare una distanza di sicurezza e sentirci così protetti, noi «primi», grazie al cuscinetto del «secondo mondo». Non nei Paesi «in via di sviluppo» come abbiamo poi cominciato a dire per esprimere fiducia in quella «via», con i lavori perennemente in corso, che prometteva destinazioni migliori. No, non altrove, non lontano. Ma qui da noi nei paesi Occidentali più sviluppati economicamente e socialmente. C’è un rischio di povertà  economica, educativa come prospettiva per milioni di persone che nascono/crescono in questa parte del mondo in Europa, come negli USA e persino in Australia.  Come è possibile che la diseguaglianza diventi sempre più – e non sempre meno – una ferita per i singoli e la collettività? Forse è giunto veramente il tempo di: “Salvare il Capitalismo da se stesso” come scrive Colin Crouch. Tutto qua? Sì! E scusate se è poco…

E’ sempre tempo di Coaching! 

Se hai domande o riflessioni da fare ti invito a lasciare un commento a questo post: sarò felice di risponderti oppure prendi appuntamento per una  sessione di coaching gratuita

0

Aggiungi un commento