Elezioni: Contatti di Draghi con l’Ue “Meloni starà ai patti”. Palazzo Chigi fa da garante con Bruxelles, Parigi e Berlino. Le tre condizioni: sostegno all’Ucraina, fedeltà alla Nato e non far esplodere il debito. Ma, così non vale!!

Lo scrive Tommaso Ciriaco su “La Repubblica” di oggi. Che senso ha tutto ciò? Spiega il giornalista: “Un compromesso per accreditarsi con l’Europa. Una capriola per sopravvivere a slogan bellicosi impossibili da rispettare. Poche ore dopo la fine della campagna elettorale, Giorgia Meloni archivia le carezze politiche a Orbán e la promessa di “spezzare le reni” all’asse franco-tedesco. E si affida a Mario Draghi. Al suo “ombrello” con le Cancellerie continentali. Secondo quanto riferiscono fonti diplomatiche di Parigi, Berlino e Bruxelles, il presidente del Consiglio in carica ha contattato Emmanuel Macron, Olaf Scholz e Ursula von der Leyen. Garantendo per la leader di Fratelli d’Italia. E rassicurando i big dell’Unione sui tre pilastri che guideranno l’azione del futuro governo”. Si tratterebbe di tre condizioni che l’ex banchiere ha preventivamente sottoposto alla leader di Fratelli d’Italia. E che Meloni si è impegnata ad accettare. Primo: il nuovo governo continuerà a sostenere l’impegno – anche militare – per l’Ucraina e a tenere unito il fronte delle sanzioni contro Mosca. Secondo: l’ancoraggio stabile e indiscutibile alla Nato, senza tentennamenti o smarcamenti. Terzo: non approverà nuovi scostamenti di bilancio, in modo da tenere sotto controllo il debito pubblico. E sembrerebbe altresì che: “Il dialogo tra il premier e chi è destinata a succedergli va avanti da tempo, tra alti e bassi legati ad alcune sortite antieuropee di Meloni. Negli ultimi tre giorni si contano almeno due colloqui telefonici. Un’indiscrezione non confermata da fonti ufficiali parla anche di un faccia a faccia riservatissimo in una caserma a disposizione dell’esecutivo. Certa è, invece, l’operazione in corso. Che non è frutto di improvvisazione, ma figlia di un’esigenza politica vitale da cui dipendono i destini della leader: archiviare la piattaforma radicale sposata in campagna elettorale, virare verso i partner tradizionali di Roma. Sia chiaro: atlantismo, sanzioni contro la Russia e attenzione al debito pubblico rispondono a posizioni sostenute anche pubblicamente da Meloni. Ma è possibile garantire quei pilastri anche con Salvini e Berlusconi in squadra? È praticabile governare il Paese con chi predica spesa in deficit e tende la mano a Putin? E poi, è stata la stessa Meloni a contraddire l’approccio europeista, spaventando l’Europa. Meloni, in Europa si fa quindi strada il pragmatismo: “Non è il diavolo, ma la Commissione vigili”. Se è così lo dico senza infingimenti: “queste elezioni sono state una presa per il culo per gli italiani”. È stata tutta una finzione!” Ma che senso ha tutto ciò? “È una scelta dettata innanzitutto dalla volontà di difendere l’interesse nazionale, favorendo la collocazione europea e atlantica dell’Italia”. Certo, Draghi non ha gradito i toni antieuropeisti di Meloni e ha giudicato un suicidio il voto di Fratelli d’Italia all’Europarlamento a favore di Orbán. Ma considera comunque doveroso fare il massimo per assicurare continuità al Paese, in nome di una transizione morbida. Non è un caso che proprio in queste ore stia prendendo forma il passaggio di consegne tra governi. Coinvolge Palazzo Chigi, il ministero dell’Economia e l’entourage di Meloni. Lo schema è quello dei “bilaterali”. I protagonisti sono il capo di gabinetto di Draghi, Antonio Funiciello, il sottosegretario alla Presidenza Roberto Garofoli, il ministro dell’Economia Daniele Franco, il capo di gabinetto del Tesoro Giuseppe Chiné. Per Fratelli d’Italia, sono in prima fila – oltre a Meloni – il senatore Giovanbattista Fazzolari (che vestirà i panni di sottosegretario alla Presidenza nel prossimo esecutivo), Guido Crosetto e alcuni tecnici schierati dal partito. Non a caso, alcuni sherpa del centrodestra si sono recati proprio ieri a via XX settembre per studiare i numeri della Nadef. Non bisogna però sottovalutare anche un altro dato, assai più pragmatico, legato al futuro di Draghi. “Non escludo per lui incarichi internazionali”, si è sbilanciato Crosetto. L’opzione più forte è quella di segretario generale della Nato, la cui nomina è in agenda per giugno 2023. Ha il vantaggio di una tempistica stretta. Sarebbe di certo gradita anche a Washington. E aprirebbe un ulteriore ombrello di protezione sull’esecutivo di destra, coprendolo sul fronte della collocazione internazionale. Ma allora!? Ma Draghi non era quello che: “un posto di lavoro sono in grado di trovarmelo da solo”. Tommaso Ciriaco conclude: “A Bruxelles è finita la pacchia”, aveva minacciato Meloni soltanto pochi giorni prima del voto. “Ho buoni rapporti con Orbán – aveva aggiunto – Credo che ci sia bisogno di un riequilibrio rispetto all’asse franco-tedesco”. Meno Parigi e Berlino, insomma, e “dialogo anche con le nazioni dell’Est”. Un’eresia, se si pensa alla stretta autocratica che si consuma da anni in Ungheria. E ancora: “C’è una sovranità europea da ridiscutere”. Fino al passaggio più sprezzante: “Non mi pare molto europeista l’idea di un’Unione in cui, tipo circolo del tennis, c’è un club di quelli più importanti, mentre gli altri sono secondari”. Aveva commentato il filosofo Walzer: “Uno shock la vittoria della destra. Ora deve scegliere tra Europa e autocrazie”. Ma un conto è lottare in campagna elettorale, altro prepararsi a guidare un Paese in piena crisi sfidando alleati storici in nome dell’internazionale sovranista. I danni sarebbero enormi, gli effetti sui mercati devastanti, l’isolamento totale. Per questo, Meloni si affida a Draghi. E per la stessa ragione, l’attuale premier si espone per lei con le Cancellerie. Ma così non vale! E credo di non dover nemmeno spiegare il perché. Inoltre: Meloni, Salvini, Tajani. Di già i primi problemi. Meloni vede Tajani e lancia l’idea di una presidenza delle Camere all’opposizione: il forzista dice no. Salvini s’impunta sul Viminale o comunque su un ministero di peso. Fdi ha in mente lo schema 4+4 mentre gira la voce di Salvini-Tajani vicepremier. Nel toto ministri entrano anche Moratti, Musumeci e D’Amato. Bocche cucite e risposte evasive. Il primo faccia a faccia tra leader nel dopo voto accende i riflettori sul governo che sarà. Nel pomeriggio Giorgia Meloni arriva a Montecitorio, incontra alcuni dirigenti del partito con i quali fa il punto sul futuro esecutivo e inizia a mettere la testa su quel che verrà. Poi la leader di Fratelli d’Italia si è trasferita nella sede del partito, a via della Scrofa, dove poco dopo è entrato anche Antonio Tajani. “Abbiamo parlato di metodo, non di nomi”, fanno sapere fonti di Forza Italia. La presidentessa del Consiglio in pectore ha sondato l’alleato su un’ipotesi che sta soppesando in queste ore: concedere la presidenza di una delle due Camere all’opposizione come segnale distensivo. Un’idea, non ancora una decisione presa, che Meloni ha maturato nelle ultime ore. Sulla quale tuttavia avrebbe incontrato la contrarietà di Tajani. Al plenipotenziario di Forza Italia non convince la replica del modello della scorsa legislatura, dove la “spartizione” degli scranni più alti di Camera e Senato, l’una ai 5 stelle, l’altro al centrodestra, era figlio degli equilibri instabili del vecchio Parlamento. “Qui una maggioranza politica c’è, l’ultima volta che ha governato il Pd si è eletto Boldrini e Grasso, e non avevano nemmeno la maggioranza”, boccia l’idea un forzista di rango. I meloniani malignano, Montecitorio è il piano B per Tajani qualora non riuscisse ad arrivare alla Farnesina, alludono all’interesse personale dell’interlocutore. La partita non è chiusa, l’idea non è definitiva, ma rimane sul tavolo come ipotesi di lavoro. A Tajani è stato sottoposto anche uno schema di massima, che prevederebbe quattro ministeri per Forza Italia e quattro (o cinque) per la Lega. Intricatissimo il rebus del chi e del dove (“È ancora molto presto, le cose cambiano di ora in ora”, dice un parlamentare di Fdi), ma la proposta non è dispiaciuta all’esponente azzurro, e segnali positivi arrivano anche dalla Lega. Il Carroccio, e qui si scende nel braccio di ferro sul chi e sul dove, è in fibrillazione. Matteo Salvini dopo la batosta delle urne non può permettersi di essere ridimensionato nella composizione della squadra, sia come numero di dicasteri sia per quanto riguarda l’incarico che andrà a ricoprire. Fonti di via Bellerio alla fine del lungo Consiglio federale che si è tenuto nel pomeriggio hanno mandato un chiaro segnale attraverso “la richiesta unanime di un ruolo di primo piano per il segretario nel prossimo governo di centrodestra”. Il Capitano punta ancora dritto verso l’Interno, ma al momento Meloni non sembra disposta a cedere sul nome di un tecnico (Matteo Piantedosi, ex capo di gabinetto di Salvini, o il prefetto Giuseppe Pecoraro), così come Tajani vorrebbe gli Esteri, per il quale Meloni sta invece soppesando i nomi di Stefano Pontecorvo ed Elisabetta Belloni. A via della Scrofa ragionano sull’ipotesi di due vicepremier (Salvini e Tajani, per l’appunto), due ruoli che placherebbero l’ansia di visibilità e che potrebbero essere accompagnati da un ministero più “leggero”, la Difesa per l’azzurro e l’Agricoltura per il leghista. Nella girandola di nomi “ministrabili” i più ricorrenti sono quelli di Anna Maria Bernini (Istruzione o Difesa), Licia Ronzulli, Andrea Mandelli (Salute) e Alessandro Cattaneo per Forza Italia, e quelli di Edoardo Rixi (Infrastrutture), Giulia Bongiorno (Giustizia o Pari opportunità), Alberto Bagnai, Lorenzo Fontana (Autonomia) e Lucia Borgonzoni (Cultura) in casa Lega. Nelle ultime ore è stato fatto un nuovo tentativo per convincere Fabio Panetta, membro del board della Bce, ad accettare l’offerta del ministero dell’Economia, che sembra assodato spetterà a un tecnico. L’economista aveva già gentilmente declinato un primo sondaggio, e il piano B potrebbe avere il nome di Domenico Siniscalco, già alla guida del Tesoro nel secondo governo Berlusconi. Papabili tra i meloniani Edmondo Cirielli (Difesa), Carlo Nordio (Giustizia), Fabio Rampelli (Trasporti o Cultura), Paola Frassinetti, Lucio Malan (Rapporti con il Parlamento) e Raffaele Fitto (Politiche europee). La squadra del nuovo esecutivo potrebbe fungere anche da camera di compensazione delle elezioni regionali. Nello Musumeci, dopo il passo indietro in Sicilia che ha spianato la strada della presidenza regionale a Renato Schifani, potrebbe essere chiamato a Roma per fare il ministro del Sud e della coesione territoriale. In corsa anche Letizia Moratti, che aprirebbe la strada alla ricandidatura di Attilio Fontana, del quale adesso è una credibile competitor dopo aver incassato il sostegno di Fdi. In queste ore viene accostata al ministero della Cultura e a quello dello Sviluppo economico. Per quest’ultimo potrebbe avere un competitor inaspettato: è Antonio D’Amato, ex presidente di Confindustria, entrato inaspettatamente nei boatos di Palazzo nelle ultime ore… Alla faccia del cambiamento! Scusatemi: non è una cosa seria!!

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P.S.LA SMENTITA DI PALAZZO CHIGI
In tarda mattinata la smentita di Palazzo Chigi “Il Presidente del Consiglio non ha stretto alcun patto né ha preso alcun impegno a garantire alcunché. Il Presidente del Consiglio mantiene regolari contatti con gli interlocutori internazionali per discutere dei principali dossier in agenda e resta impegnato a permettere una transizione ordinata, nell’ambito dei corretti rapporti istituzionali”.

 

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