Elezioni: i partiti “montano la panna” della propaganda elettorale… Draghi: «L’Italia è forte». L’ultima conferenza stampa del Premier in carica è una lezione a questa politica cialtrona…

Draghi è a New York, parlerà alle Nazioni Unite. Ma il Presidente del Consiglio viene anche premiato come statista dell’anno dalla Appeal of Conscience Foundation e nel suo intervento alla serata dice: “L’invasione russa rischia di aprire una nuova era di polarizzazione. Evitiamo ambiguità, per non pentircene in seguito”. “Lavoriamo per un accordo, ma la pace giusta la decide solo l’Ucraina”. E pensare che qui da noi i Conte, Berlusconi e Salvini e naturalmente la Meloni… hanno pensato che non fosse più adatto a governare il Paese. Qui da noi siamo ad una settimana dal voto e la nostra politica confusa annaspa ancora affogando in mille contraddizioni. I partiti per rassicurarsi continuano ad auto-assegnarsi la possibile vittoria. E per far questo, sfoggiano programmi irrealizzabili e formule di governo con straordinarie prospettive di cambiamento istituzionale (vedi presidenzialismo) e soprattutto economiche ancora costruite sul debito (scostamento di bilancio). In questa campagna elettorale sono in lotta partiti che sembrano raccogliere individualmente consensi numericamente ridotti: si parla al massimo di un 25%, per FdI. Ben lontani da quel 30/40% che ha rappresentato in passato una soglia significativa per una leadership di governo. Mi verrebbe da definire tutto ciò come una sorta di «nanismo» politico. Visto altresì che l’Astensionismo è dato tra il 38 e il 42% degli aventi diritto al voto. Ovvero chi prende il 25% dei votanti, in realtà prende solo il 15% degli aventi diritto al voto, ma con il rosatellum governa.  Cosa possiamo quindi pensare della prospettiva di formazione dopo il 25 settembre di una qualsiasi alleanza di governo? Quando in questo Paese ancora si guarda illusoriamente ad uno scenario politico bipolare, ormai infrantosi su una Società sempre più divisa dalle diseguaglianze… e in tanti (troppi) piccoli interessi «corporativi». Ormai il sogno di un bipolarismo tra conservatori e progressisti, con partiti ampiamente rappresentativi e in contesa per il governo del Paese, è di fatto completamente svanito… La stagione del populismo e dell’antipolitica ha cambiato definitivamente protagonisti e comparse, della scena politica, fatto nascere nuove formazioni e movimenti che si sono rivelati spesso soltanto meteore: ascese vertiginose e cadute altrettanto rapide. C’è stata la ricerca ossessiva di una novità che ci liberasse dal passato e perfino dal presente, con il risultato di uno scenario politico instabile e popolato da attori improvvisati. Ora siamo all’ennesimo passaggio. Un’inversione di tendenza non appare all’orizzonte anche perché le attuali coalizioni sono solo cartelli elettorali che rischiano di andare in frantumi subito dopo il voto. Va detto chiaramente che fino a quando la politica non recupererà radicamento nella società e nel territorio; fino a quando non sarà portatrice di una visione libera dall’ossessione dell’istante; fino a quando non promuoverà una classe dirigente competente e sperimentata, è molto molto difficile che qualcosa possa cambiare. E Partiti e leader continueranno a ballare per una sola notte… Ce l’ha detto ancora una volta nell’ultima sua conferenza stampa Mario Draghi. Il presidente del Consiglio ha fatto capire con la sua solita sobrietà le incongruenze di leader come Conte, Berlusconi, Salvini e Meloni, ma ve ne sono anche altri. Ha escluso per sé un secondo mandato a Palazzo Chigi e quel no, rischia di pesare in questi ultimi giorni prima del voto. Essendo stata la sua ultima conferenza stampa da Premier la si ricorderà come la lezione finale di un Presidente del Consiglio che fino all’ultimo ha tenuto alta la dignità di un’alta funzione istituzionale oltre che la sua personale. C’è lo stile di Mario Draghi, fatto di ragione e passione assieme, senza mai debordare: ed è qui la prima, evidente differenza con i leader dei partiti cui spesso e volentieri sfugge la frizione, chi più chi meno. Nel giorno dell’ennesima manovra per far fronte al carovita (14 miliardi) ma soprattutto nelle ore dell’immane disastro delle Marche, dove poi è giunto, Draghi ha esibito con stile l’ostentato tirarsi fuori dalla contesa elettorale in corso, persino riprendendo con ironia forse non capita, l’affermazione di una giornalista che aveva detto che lui «è sceso dal cielo»: «Come ha detto lei, sono sceso dal cielo e quindi non posso dare giudizi sulla campagna elettorale in corso». E il secco «no» con cui ha escluso un secondo mandato va letto in questa cornice di voluta estraneità alla battaglia elettorale, perché in fin dei conti – ha detto successivamente – chi può sapere cosa accadrà. Ma certo la nettezza di quel no, annebbia il sogno di chi lo vorrebbe ancora in campo. Infatti, il Partito democratico ha immediatamente colpito duro sul mento del Terzo Polo che ha fatto del ritorno di Draghi (non sinceramente) a Palazzo Chigi la sua bandiera. E ora? Fonti vicine a Carlo Calenda hanno avanzato una domanda retorica: poteva forse dire «sì, accetterei un nuovo incarico», cioè gettarsi nella mischia elettorale? È lo stesso ragionamento che ha fatto Matteo Renzi a Pordenone, intervistato, chiarendo che la cosa alla fin fine dipenderà da Sergio Mattarella. Dice Renzi: «Sappiamo tutti che la differenza la farà, e l’ha fatta, solo la chiamata di Mattarella. Se la Meloni non riuscisse ad avere i numeri per governare toccherebbe al presidente della Repubblica indicare un presidente del Consiglio». Mai prendersi direttamente le proprie responsabilità per le cose dette senza averle ponderate e rapportate alla realtà del momento. Ma è chiaro che non tutti hanno capito (no Renzi ne Calenda) che la figura di Draghi non è quella del capopartito e men che meno di uno che sgomita a caccia di potere, lui è e vuole restare un’autorità al di sopra del Grand Hotel della politica nostrana, ed è semplicemente impossibile per chiunque stabilire adesso cosa gli riserva il futuro. Ma quel no! Rimbomba, pesa. Come pesava quello di Mattarella alla sua rielezione, poi andò in un altro modo, tanto per dire. La cosa che nella conferenza stampa è balzata agli occhi è il modo elegante col quale il presidente del Consiglio ha evitato risposte esplicite sulla prospettiva di un governo di destra pur senza risparmiare, senza citarli, bordate prima a Matteo Salvini e poi a Giulio Tremonti ma con riferimento alle cose di adesso, quelle che lo riguardano: la Lega – dunque Salvini – che «non ha mantenuto la parola data» sulla delega fiscale (forse mai in passato era stato così severo, addirittura da un punto di vista morale, su un partito della coalizione) e poi Tremonti, che sta seminando notizie su un pesante lascito di miliardi e miliardi che il governo Draghi lascerebbe in eredità al successivo (ci ha pensato Daniele Franco – lodatissimo dal presidente del Consiglio- a smontare la panna). Ma su Salvini (riferimento implicito) il frontale duro è stato sulla Russia: «Qualcuno parla con Mosca e vuole togliere le sanzioni», che, per inciso, «funzionano» mentre alla Meloni ha spiegato che sul Pnrr c’è poco da modificare, ma chissà se lei avrà capito l’antifona. E di striscio una botta è arrivata anche a Giuseppe Conte, contrario all’invito di armi all’Ucraina è contento della controffensiva delle truppe di Zelensky – «Avrebbe voluto una controffensiva a mani nude?» – una controffensiva che l’Italia naturalmente sosterrà «fino alla Liberazione, perché questa è una guerra di Liberazione». A un certo momento si è anche un po’ irrigidito, non diciamo irritato perché Draghi difficilmente si irrita, almeno in pubblico, di fronte ai cronisti che, come insegna il mestiere, mettevano in luce i problemi – le presunte ingerenze russe, le dissociazioni della Lega eccetera eccetera:  «“La democrazia italiana è forte, non è che si fa abbattere da nemici esterni, dai loro pupazzi prezzolati. Dobbiamo essere fiduciosi nella nostra democrazia. Non bisogna avere timore di qualunque voce”». E ha ripetuto il concetto alla fine: «L’Italia è forte». Che è poi, in tre parole, la sintesi suprema del suo anno e mezzo a Palazzo Chigi, la sua eredità, il suo messaggio per il futuro…

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