Europa: destabilizzata dai tre imperi vicini e da una situazione economica sempre più disastrosa…

“Titanic-Europa. La crisi che non ci hanno raccontato” di Vladimiro Giacché – Aliberti Editore

«Una crisi e troppe spiegazioni. In una celebre scena dei Blues Brothers, Jake (John Belushi) incontra la sua ex fidanzata. Il luogo dell’incontro, una fogna, non è particolarmente romantico. Ma il problema principale di Jake è un altro: la fanciulla imbraccia minacciosamente un fucile d’assalto M16, e vuole spiegazioni sul perché Jake l’ha lasciata sola all’altare nel giorno delle nozze. Jake se la cava così: «Ero… rimasto senza benzina. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. C’era il funerale di mia madre! Era crollata la casa! C’è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa mia!»  La crisi che abbiamo vissuto e che alcuni di noi stanno ancora vivendo ci è stata spiegata così. L’elenco dei suoi presunti colpevoli è molto più lungo delle scuse di John Belushi. Mutui subprime, obbligazioni strutturate, derivati sui crediti, avidità dei banchieri, società di rating colluse con le banche, orientamento al profitto di breve termine, creazione di veicoli finanziari fuori bilancio, inefficacia del risk-management, lacune regolamentari, politica monetaria della Federal Reserve, eccesso di consumo degli Stati Uniti, eccesso di risparmio della Cina… Non sono mancate neppure motivazioni più metafisiche, come la “fragilità umana”, menzionata in un sorprendente articolo del Financial Times». E ora ci risiamo! La guerra russo-ucraina nuova debolezza, dell’Ue. Tant’è che più dura la guerra (un fatto che può anche non dispiacere a Washington), più aumenta l’azzardo della situazione che alla fine, potrebbe costare più caro del Vietnam e dell’Afghanistan… Mentre l’Europa tace o balbetta, in stato confusionale, a «una sola voce», confondendo le sue ragioni politiche con quelle della Nato, quel poco che resta della sua «differenza» e autonomia di pensiero è tenuto in vita da persone come Amineh Kakabaveh, deputata di origini curdo-iraniane del parlamento svedese, decisamente contraria all’ingresso della Svezia nell’Alleanza atlantica. Con il suo voto di astensione ha infatti salvato dalla sfiducia il governo. Deciso ad abbandonare la storica neutralità svedese, di Magdalena Andersson, ma a un patto. Che Stoccolma non si pieghi al diktat del sultano turco, il quale pretende, per dare il suo consenso all’ingresso della Svezia nella Nato, l’estradizione degli esuli curdi in quel paese (tra i quali figura la stessa Amineh Kakabaveh), nonché la rinuncia di Stoccolma a sostenere la resistenza curda nel Rojava contro l’aggressione turca e la politica di annientamento condotta da Erdogan nel nord della Siria. Il regime di Ankara, in nome della sicurezza, occupa militarmente territorio straniero, sebbene in misura per il momento minore a quella praticata da Putin e si prepara comunque a una nuova offensiva nella tollerante indifferenza delle democrazie occidentali. CHE L’EUROPA non proferisca verbo contro un «autocrate» (la qualifica non è esclusivo appannaggio di Putin) che pretende da un paese sovrano il fiancheggiamento delle proprie politiche di repressione è già una miserabile porcheria. Ma, agli antipodi dalla limpida presa di posizione di Kakabaveh registriamo anche l’opportunistico cedimento di Ursula von der Leyen, disposta a sbloccare i finanziamenti comunitari destinati a Varsavia in cambio di un compromesso sull’autonomia della magistratura che si configura come una risibile caricatura dello stato di diritto, in un paese che si accinge a istituire il registro poliziesco delle gravidanze. Mentre a Victor Orbán viene consentito, oltre che di rifornirsi del petrolio russo, di depennare dalla lista dei sanzionati uno dei principali pilastri del regime putiniano: il patriarca omofobo, zarista e guerrafondaio Kirill. Diciamolo chiaramente: l’Unione europea non era caduta mai così in basso. Questa è l’Europa dei “von” contro quella degli esuli e dei partigiani della democrazia e dei diritti umani. L’Europa che sovvenziona la dittatura di Ankara per scaricare il peso degli esuli e dei migranti, fornendo così al regime di Erdogan un potente strumento di ricatto e una massa di manovra da impiegare nelle sue mire espansioniste. ED È UN’EUROPA moribonda, la cui retorica sui «valori» è inversamente proporzionale alla pratica cinica e opportunista che la caratterizza. Senza risparmiare nessuna forza politica. A cominciare dalla conversione bellicista dei Verdi tedeschi. Questo relitto in balia degli eventi, l’Unione europea, è assediato, per restare su questa riva dell’Atlantico, da almeno tre nostalgie imperiali tutte tradotte più o meno direttamente in politiche attive. La prima è evidentemente quella russa, tesa a recuperare egemonia sull’est d’Europa e a non subordinare più il proprio processo di accumulazione a modelli, forme e «buone maniere» di provenienza occidentale. Mosca prende commiato dall’Europa, troppo atlantica, per costruirsi uno spazio autonomo e autoritario dentro lo squasso della globalizzazione. La scorciatoia della guerra dimostra però quanto accidentato, improbabile e gravido di imprevedibili rischi, sia questo percorso. La seconda è quella ottomana. La Turchia di Erdogan ha cessato di bussare alla porta della Ue e di esibire stitiche credenziali democratiche per condurre una propria politica di potenza nel Mediterraneo, dalla Siria, alla Libia, al mare Egeo. Sempre più simile alla Russia di Putin con la quale coltiva intensi rapporti e reciproci favori. Forte della sua appartenenza alla Nato e della sua decisiva posizione geografica, sfrutta la guerra in Ucraina per occupare un ruolo centrale, consolidare la natura autoritaria del regime e allargare la sua sfera di influenza. Al colmo della prepotenza si sente in diritto di dettare legge in Svezia e Finlandia. LA TERZA, CHE PUÒ anche apparire folcloristica, tanto più quando si manifesta nelle sgangherate esibizioni di Boris Johnson, nel giubilo di once, yarde, pollici e pinte, è quella britannica. Ma non conviene prenderla troppo alla leggera. Londra va sviluppando nell’Est europeo una propria politica del tutto distinta da quella europea, e sta spingendo per una escalation della guerra in Ucraina che tende a forzare e sopravanzare la relativa prudenza dell’Unione, accreditandosi come partner più affidabile, deciso e solidale in molti paesi dell’ex blocco sovietico con l’intento, assai poco velato, di soppiantare l’ingombrante presenza tedesca che ha dominato la scena negli anni di Kohl e di Merkel. Sempre più chiaro è il fatto che Brexit non costituiva solo una uscita dalla Ue, ma l’esordio di una politica contro di essa (come dimostra del resto la crescente discriminazione nei confronti dei cittadini comunitari). Mettendo perfino ideologicamente in conto di subire qualche serio danno da questa separazione conflittuale. Il fatto che il Vecchio continente venga indebolito e destabilizzato dalle ambizioni imperiali che lo circondano, potentemente alimentate dalla guerra, è già stato accennato, può anche non dispiacere a Washington, ma si tratta di un azzardo spericolato e non sarebbe la prima volta che gli Usa sbagliano i conti, dal Vietnam all’Afghanistan. E questa volta potrebbe perfino costare molto più caro. E veniamo alla riunione del Consiglio direttivo della Bce e la successiva conferenza stampa di qualche giorno addietro, sono destinati ad entrare nella storia economica e finanziaria europea. Ma non certo in modo glorioso. Sta di fatto che in Europa si chiude un’epoca! Quella cominciata con il “whatever it takes” e proseguita con il pompaggio di liquidità, con il denaro che praticamente non costava niente, ove la banca centrale acquistava titoli di stato a go-go, mentre i tassi erano negativi. È la prima grande conseguenza – che non riguarda sicuramente solo l’Europa – della guerra russo-ucraina sull’economia mondiale. Sulla stampa economica e negli ambienti finanziari si discute se le decisioni della Bce abbiano seguito le tappe indicate oppure vi sia stata un’accelerazione. In sostanza se le colombe hanno tenuto oppure i falchi abbiano preso nettamente il sopravvento. Discettare sulle espressioni usate dalla Lagarde è di poco sugo. Conta di più vedere la reazione dei mercati. Ed è negativa! Con le borse europee in picchiata e lo spread che sale a 230. Lo è malgrado si trattasse di una svolta annunciata. Già da qualche tempo si sapeva che con l’8 settembre si sarebbe usciti dalla fase caratterizzata da tassi negativi iniziata nel giugno del 2014. Si sapeva che essi avrebbero cominciato a salire sia a luglio che a settembre. Come pure era noto che il programma di acquisti netti sarebbe terminato il primo luglio. L’ordine degli interventi è stato rispettato, prima la stretta sulla liquidità, poi l’incremento dei tassi. Ma il margine di incertezza lasciato sul secondo aumento dei tassi da realizzarsi a settembre (sarà dello 0,25% o dell o 0,50%? E la vaghezza delle dichiarazioni di Lagarde rispetto alla individuazione e messa in opera di uno strumento anti-spread, ha prodotto qualcosa che assomiglia di più ad una diffusa paura che a un momento di incertezza. Per nulla temperata dalla possibilità annunciata di reinvestimento dei titoli acquistati con totale flessibilità, per combattere la “frammentazione” (un termine cui probabilmente si ricorrerà spesso) dei costi di finanziamento dei singoli Stati. L’onda è arrivata da lontano. Anche se la Fed americana procede in modo inverso, prima l’intervento sui tassi e poi quello sulla liquidità, la molla è la stessa: l’aumento dell’inflazione che negli Usa ha sopravanzato le previsioni – per la verità non impossibili – costringendo l’ex presidente della Banca centrale Yanet Hellen ad una pubblica autocritica e che nell’Eurozona ha superato l’8% e non intende fermarsi. Di fronte a ciò la Bce ha rimesso in campo la priorità che deriva dalla sua scriteriata missione, ovvero la primazia della lotta all’inflazione. Il che, come è noto, contraddice il principio che quando l’economia va male i tassi vanno diminuiti per dare ossigeno al mercato, mentre una stretta può essere opportuna se l’economia si surriscalda troppo. Eppure, proprio la Bce ritiene che la crescita nell’anno in corso e nel prossimo sarà scarsa lasciando qualche speranza solo per il 2024. Bankitalia ha rivisto al ribasso, di un punto abbondante, tutte le previsioni di crescita del nostro Pil rispetto a quelle formulate a gennaio. Ma la situazione di oggi fuoriesce dalla manualistica economica, dal momento che abbiamo avuto due avvenimenti giganteschi in rapida successione e congiunzione tra loro: l’entrata in scena del risparmio accumulato durante il periodo più duro della pandemia appena essa ha segnato una flessione e la guerra che ha dato un ulteriore colpo alle già rinsecchite catene del valore, complicando ogni cosa sul fronte dell’offerta e non solamente dei prodotti energetici. Questo fa sì che assieme all’inflazione continui il declino dell’economia e quindi, malgrado le contorsioni espressive di Lagarde, il baratro della stagflazione è sempre più vicino. Ma puntare sul contenimento dell’inflazione, anziché su un diverso modello di sviluppo, non potrà che peggiorare la situazione. La guerra serve per rallentare, se non bloccare, le misure contro il cambiamento climatico. Non illudiamoci troppo sul voto europeo, peraltro così contrastato, sull’auto elettrica. Allo stesso modo, malgrado gli orientamenti europei sul salario minimo, l’insistenza sull’inflazione è funzionale a contenere anche la più timida spinta all’aumento dei salari. Ritorna il tormentone modello anni Settanta sulla spirale prezzi-salari. Da un lato si affermano giusti principi, dall’altro si adottano misure economico-finanziarie opposte. Senza l’entrata in scena di un movimento di classe e di massa è facile prevedere chi prevarrà…

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