Addio Cinque Stelle, la strategia di Di Maio non ha pagato. Addio moderati, con Berlusconi che non tocca le due cifre. Il trionfo è di Salvini e della Meloni. Il Pd si salva perché ha radicalizzato la battaglia “antifascista”. Difficilmente nella nostra storia la navigazione è stata così incerta… C’era una volta l’Italia “anomala” del primato M5S, un partito nuovo, guidato da un ex-comico, fondato su un algoritmo e un sistema chiamato Meetup, che designava gli eletti con una lotteria online. È durato cinque anni. E’ arrivato al top nel 2018. Sembrava inarrestabile. Adesso non lo è più: nell’arco di una notte l’anomalia italiana ha cambiato di segno: insieme con l’Ungheria siamo il solo Paese in Europa (tranne l’Inghilterra che però dall’Unione è già fuori) dove si estingue ogni tipo di baricentro moderato e si verifica una svolta verso la destra decisamente radicale, numericamente sorprendente perché oltre al 34,3 del Carroccio c’è anche il 6,4 di Fratelli d’Italia, poco meno della metà del Paese. Da oggi comincia il governo delle destre. Sono i Cinque Stelle a dover decidere se acconciarsi a sostenerlo oppure no. Il tentativo di proporsi come forza di maggioranza a Palazzo Chigi e di opposizione nei comizi è fallito e non potrà essere ripetuto: il magrissimo 16,9 per cento delle urne uccide l’intera strategia di Luigi Di Maio e la Caporetto della partecipazione al Sud fa saltare anche lo schema politico al quale il Movimento aveva affidato il suo destino. L’idea di farsi partito dei poveri, dei descamisados, dei non-garantiti attraverso il Reddito di Cittadinanza ha pagato nella stagione delle promesse, assai meno in quella dei progetti realizzati. Ma questo sorta di nuovo bipolarismo destra/sinistra apre un periodo denso di incognite assai oltre i destini specifici dell’Esecutivo. È una terra inesplorata, senza precedenti, perché sempre in Italia abbiamo avuto un partito-cuscinetto tra le due forze che occupavano i lati opposti del campo: la Dc prima, Forza Italia poi, il populismo pentastellato in questa ultima stagione (nella sua versione governativa e in qualche modo “moderata”). Ora non più. Ora c’è una terra di nessuno tra le pulsioni oggettivamente estremiste della Lega e un Pd ringalluzzito dai risultati ottenuti con la chiamata alle armi “antifascista”: la radicalizzazione dello scontro è l’unico approdo immaginabile di questa situazione, insieme all’isolamento europeo che si farà sentire con le nomine prossime venture. Con tutto il rispetto per la metà degli italiani che oggi esultano, non sembra davvero un porto sicuro per il Paese. Anche l’Europa diventa un paradosso politico. Merkel e Macron crollano, ma continueranno a comandare. I Verdi e i populisti crescono, ma non conteranno più di tanto. Ognuno è convinto di aver vinto, ma è un’Europa chiusa a tripla mandata e vecchia. Alla fine non ha vinto nessuno, non ha perso nessuno e forse non ci poteva essere peggior notizia, per quest’Europa arrivata vecchia e stanca alle elezioni continentali del 26 maggio, le più attese e temute di sempre… Nonostante la sconfitta saranno proprio Merkel e Macron a esprimere il presidente della commissione europea e a dettare il gioco. Chissà come leggeremo tra un anno o due questo risultato: il voto che portò alle elezioni anticipate e a un governo Salvini? Il voto che spezzò l’Italia nell’autonomia differenziata? Il voto che riportò il bipolarismo destra/sinistra nella Penisola? Sì, perché l’effetto collaterale del ‘crollo’ M5S è la ripresa del Pd di Nicola Zingaretti, che con un 22,8 per cento superiore anche alle aspettative (si pensava ad un 20% come un buon risultato) si riprende il ruolo di opposizione e si sottrae al declino tombale che ha demolito i cugini francesi e tedeschi. Le conseguenze nazionali di questa tornata elettorale saranno assai superiori a quelle continentali, dove le destre sovraniste non sono riuscite a conquistare il peso che immaginavano, e saranno ulteriormente ridimensionate dall’addio del gruppo di Nigel Farage (il più consistente, con 29 parlamentari) quando l’operazione Brexit tra qualche mese sarà ultimata. Interrogarsi sulla possibile crisi è un esercizio retorico. È ovvio che le promesse di Lega e M5s sul governo “che durerà quattro anni” sono andate a farsi benedire, ed è altrettanto scontato che le ipotesi berlusconiane su un ribaltone parlamentare che introni un governo di centrodestra vanno archiviate. Salvini non ha motivo di riallinearsi con una Forza Italia al lumicino, scivolata all’8,7 per cento e incapace di compiere l’operazione che ha invece salvato il Pd: rinnovarsi, trovare un leader nuovo, provare a rilanciarsi. Difficilmente la nostra storia vede davanti a se una navigazione così incerta e densa di incognite… In Europa, chi crolla governa e chi cresce non conta nulla, insomma, ma non solo: ognuno dei due blocchi quello europeista e quello sovranista, calano a casa propria e crescono in campo avverso. Per dire, gli europeisti crescono in Polonia e Slovacchia, nel cuore di Visegrad, ma crollano a casa loro, dalla Francia alla Germania, al Belgio. Tutti hanno problemi interni – forse a parte Orban e Salvini – e tutti si occuperanno fisiologicamente dei guai a casa propria, dedicando poco tempo e poco spazio a pensieri sul futuro del continente nel suo complesso. Quel che ne esce, insomma, è un caos peggiore di quello che abbiamo lasciato alle spalle: un continente di “morti viventi”, in cui ognuno è convinto (a torto) di aver vinto, di contare qualcosa, di riuscire a imporre la sua idea di Europa. Salvini, già dalla conferenza stampa nella lunga notte elettorale è apparso convinto che l’Europa sia definitivamente cambiata e che le letterine che chiedono il rispetto dei parametri di Maastricht si possano tranquillamente rimandare al mittente, ma si renderà presto conto che non ha alleati, in questa sua battaglia, nemmeno tra chi considera amico, come Orban e Kurz. Allo stesso modo, gli europeisti sono convinti di aver arginato l’ondata sovranista, ma non si rendono conto, per dirla con le parole di Nigel Farage, che hanno di fronte un parlamento che mai era stato così euroscettico, capace di interdire e mettere in discussione qualunque cosa… L’unica cosa su cui tutti sono d’accordo, a quanto sembra, è l’idea di un’Europa chiusa a tripla mandata, rinserrata nei propri confini, insensibile al richiamo di disperazione che arriva dall’Africa e dal Medio Oriente. Wir schaffen das, diceva Angela Merkel nel 2015, accogliendo milioni di profughi siriani sul suolo tedesco. L’unico esito certo di questo voto europeo è che no, non ce l’abbiamo fatta a pensare che l’Europa è il fututo. E forse non poteva essere che così, nel continente vecchio, stanco, sfiduciato e impaurito che siamo diventati. Dovevamo cambiare il mondo, essere la culla della conoscenza del ventunesimo secolo, l’esperimento di un mondo senza frontiere: finiremo per alzare barriere per proteggere la nostra dolce morte – demografica, economica, geopolitica – dal caos altrui. La grande vittoria di Orban e Salvini, in fondo sta tutta qua. Ed è una vittoria culturale, ancor prima che politica, costruita pazientemente in anni di crisi e terrore. Quel che è successo nelle urne, non ne è che la più immediata conseguenza…
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