Il risultato dell’Umbria va al di là del piccolo numero di elettori che si sono espressi (450.000 su 700.000 aventi diritto al voto) perché comunque conferma i sondaggi nazionali. Se l’attuale maggioranza non elabora un reale programma di forte discontinuità avrà solo rinviato nel tempo il trionfo della destra e l’arrivo di Salvini a palazzo Chigi. Ma per farlo c’è bisogno che i 5S escano dalla loro evanescenza e soprattutto che il Pd, senza più l’ostacolo di Renzi, compia quella riflessione critica sul passato che non ha mai fatto. Certo il risultato delle elezioni in Umbria, ha anche motivazioni di livello locale, ma sarebbe da ciechi non leggervi un netto segnale per la politica nazionale. Queste elezioni arrivano appena dopo la manovra del governo per il 2020. Che cosa ha “detto” questa manovra? Che la nuova alleanza si pone in continuità con i governi precedenti alle ultime elezioni politiche. Che il governo è “responsabile” (come quelli di Monti, Letta, Renzi – un po’ meno – e Gentiloni). Che non vuole lo scontro con l’Europa (idem). Che cerca di ottenere qualche briciola di “flessibilità” per distribuire un po’ di soldi (come Renzi), che comunque sono troppo pochi per fare la differenza (ancora una volta idem). Che per il futuro intende continuare su questa strada. Poteva fare diversamente? Certo che no. Nella situazione data, ha fatto quello che poteva. Ma se gli elettori avevano bocciato i governi precedenti, perché avrebbero dovuto promuovere questo? Il risultato dell’Umbria quindi potrebbe prefigurare quello delle prossime politiche, che siano nella prossima primavera o dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato (come ha fatto capire Renzi) o – miracolosamente – alla fine della legislatura. Che è quello che diceva chi era contrario alla nascita di questo governo, e avrebbe voluto elezioni subito. Ma allora era giusta questa tesi? Dipende. Se questo governo va avanti seguendo il motto andreottiano, “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, non potrà che andare a finire in quel modo. La consegna dell’Italia a Lega e FdI, senza più neanche bisogno dei berlusconiani che viaggiano verso l’estinzione, sarà stata solo posticipata. Sì, forse non ci sarà il presidente eletto dalla destra, ma degli altri partiti resteranno le macerie. Un disastro che sarebbe evitabile, ma richiederebbe qualcosa che ancora non si vede all’orizzonte, e cioè un cambio di passo, una strategia, degli obiettivi che non siano soltanto scongiurare aumenti dell’Iva ed evitare le procedure di infrazione europee. Il governo 5S-Pd – lasciamo stare i colori, almeno finché il Pd non ne avrà uno definito – è nato per necessità, ma se riesce solo a sopravvivere avrà un esito inglorioso. Purtroppo i 5S, che pure qualcosa di buono hanno prodotto, appaiono sempre più evanescenti. Tra le cose buone ricordiamo il “decreto dignità”, che, anche se nessuno lo dice, ha funzionato. Non c’è stata nessuna riduzione dell’occupazione, nemmeno quella insignificante che era stata pronosticata, e sono aumentati gli occupati a tempo indeterminato. Alla faccia, come direbbe Renzi, dei “gufi”. Anche il cosiddetto reddito di cittadinanza, nonostante le critiche da cui è stato mitragliato, è tra le cose positive. Seppur bisognosa di qualche controllo in più sugli aventi diritto alla misura. La seconda parte – quella di trovare un lavoro agli iscritti – ancora non funziona, ma gli uffici di collocamento non hanno funzionato mai, quindi bisogna avere il pudore di non pretendere che miracolosamente diventino efficienti d’un colpo. Riparliamone tra un annetto, almeno. E poi la cosa più importante, che i 5S non hanno fatto, ma hanno impedito di fare: l’autonomia regionale differenziata, nella versione “secessione dei ricchi” che piace tanto alla Lega. Però sono sempre lì a dichiararsi “né di destra, né di sinistra”, e quindi senza una linea. Si imbarcano in battaglie perse per cui non valeva la pena di rompersi la testa, come la Torino-Lione. Combattono alla morte per provvedimenti più che discutibili e comunque irrilevanti rispetto ai problemi del paese, come la riduzione del numero dei parlamentari. Non cercano di elaborare insieme agli alleati di governo un serio programma di legislatura che non sia solo la sommatoria delle promesse elettorali (come con la Lega: io-ti-approvo-questo-se-tu-mi-approvi-quello), magari incoerenti tra loro. Anzi, il “capo politico” Di Maio interpreta la sconfitta in Umbria come un segnale definitivo che un’alleanza strategica con il Pd è da escludersi, garantendo così alla destra che nessun soggetto sarà in grado di insidiare la sua egemonia. Chi non è un dilettante della politica questa situazione la capisce bene. Pier Luigi Bersani lo va ripetendo in tutte le trasmissioni televisive a cui è invitato, e lo ha detto anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Sembrerebbe che il problema sia solo convincere Di Maio. Ma in realtà il problema è un po’ più complesso. Dopo la scissione di Renzi il Pd, che continua a definirsi “di sinistra”, avrebbe una grande occasione: aprire quella riflessione che non è stata fatta dopo le sconfitte al referendum istituzionale e poi alle politiche. Con Renzi sarebbe stato impensabile: troppo distante l’ex segretario da qualsiasi filone della sinistra, del tutto alieno rispetto a qualsiasi elaborazione per il cambiamento delle attuali dinamiche sociali. E invece di un cambiamento c’è bisogno: sono ormai anni che gli elettori esprimono il loro malessere votando qualunque partito e qualunque leader che dica di voler fare qualcosa di diverso da ciò che si è fatto fino ad allora. Hanno provato con la sinistra e poi con la destra di Berlusconi, non hanno visto differenze sostanziali e allora hanno provato con i 5S. Ora è il turno della Lega in tandem con Fratelli d’Italia con berlusconi “ruotino” di scorta. Una Destra Destra, che si può battere in un solo modo: indicando una strada non solo diversa da quella di Salvini e d’intorni, ma anche da quella seguita in passato. Quanto passato? All’incirca l’ultimo quarto di secolo, che è poi il periodo da cui gli economisti datano l’inizio del famoso “declino” dell’Italia, di cui peraltro sembra che non si parli più. E’ più o meno da allora che la sinistra ha smesso di fare la sinistra, facendosi convincere dal famoso detto thatcheriano “There is no alternative”. Il fatto è che gli elettori una alternativa la vogliono, e se non c’è un’alternativa di sinistra, beh, allora vanno a destra. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna la parola “socialismo” si dice di nuovo, e produce mobilitazioni popolari come non se ne vedevano da tempo. E’ la promessa di una società diversa da quella che ha generato disuguaglianze insopportabili, riportando indietro la lancetta dell’orologio del progresso sociale e togliendo ai giovani la speranza di poter vivere meglio dei loro padri. Se non si restituisce quella speranza, saranno i demagoghi ad avere buon gioco…
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