L’attacco inopportuno di Crosetto alla Bce, le revoche e le nomine ai vertici di Ministeri e istituzioni senza alcun criterio e solo con la generale insofferenza verso tutti gli organi di controllo. Così Fratelli d’Italia sta accelerando mese dopo mese il declino istituzionale italiano… La premier è sicuramente consapevole che se realizza ciò che ha promesso il paese va a carte quarantotto, ma sa anche che se non accontenta i suoi elettori non potrà durare a lungo, men che meno per l’intera legislatura. E meno male che già veniva considerata una conservatrice moderata e filo-dragiana. Giorgia Meloni sta invece rompendo tutti i presunti fili di continuità con il suo illustre predecessore a Palazzo Chigi. E non si tratta solo dello strano caso della mancata conferma del taglio del prezzo del carburante, anche se il misfatto rende plasticamente l’idea di una rottura di continuità, quanto dell’atteggiamento politico completamente diverso innanzitutto nei confronti dell’Europa, segnatamente della Banca centrale europea, nonché di gangli fondamentali del governo dell’economia, dalla Banca d’Italia al Mef. La sortita di Guido Crosetto contro Francoforte è stata molto dura, vuoi perché il personaggio ha uno stile sempre diretto, vuoi perché il governo ha voluto mettere agli atti (furbescamente non con il ministro dell’Economia che forse nemmeno condivide ciò che ha detto il collega della Difesa) che la musica è cambiata. Ha detto Crosetto a Repubblica accusando in sostanza la Bce, per la sua politica di alti tassi, di creare grossi problemi al nostro Paese. Dimenticando che una funzione primaria della Banca centrale è quella di raffreddare l’inflazione. Non si tratta evidentemente di un dibattito accademico ma di lotta politica. Il modo con cui il ministro della Difesa ha attaccato Francoforte non è usuale. Riproponendo tra l’altro un’antica polemica sull’assolutismo della Banca centrale: «Abbiamo lasciato a organismi indipendenti e che rispondono solo a se stessi la possibilità di incidere sulla vita dei cittadini e sull’economia, in modo superiore alla Commissione europea e soprattutto ai governi nazionali. È legittimo chiedersi quanto sia giusto?». «Non serve un premio Nobel, basta il buon senso di ognuno di noi (purtroppo il buon senso è sempre più merce rara) per capire che alcune dichiarazioni provocano effetti negativi perché amplificano la crisi». E Carlo Calenda non gliel’ha mandata a dire: «Questa intervista di Crosetto è demenziale e pericolosa. Demenziale da un punto di vista tecnico – la Bce deve contrastare l’inflazione che mangia i salari e le pensioni – pericolosa perché riesuma tutto l’arsenale di fesserie sovraniste antieuropee. Sembra Claudio Borghi», paragone veramente terribile. «Se i ministri del governo Meloni continuano a chiedere pubblicamente alla Banca centrale europea di non alzare i tassi d’interesse otterranno l’effetto opposto, perché la Bce non agirà per paura di essere accusata dagli altri Stati di non essere indipendente». A sua volta in una intervista a Repubblica l’ex presidente del Consiglio Mario Monti suggerisce la strategia migliore per evitare di peggiorare la situazione economica italiana: il silenzio mediatico. «Un accorto silenzio, rispettoso delle prerogative e autonomie delle istituzioni europee come la BCE». Trapela, invece chiaramente dai componenti di FdI del governo italiano insediato ormai da 100 giorni, un’insofferenza di fondo – si potrebbe dire quasi: epidermica – per le autorità e le istanze indipendenti che, come tali, sfuggono al controllo dei governi nazionali: ed è questo il lato più appariscente del prisma nazionalistico proprio della destra italiana. «Più Italia in Europa» per «difendere l’interesse nazionale» è uno slogan che va a finire sempre a pochi centimetri dall’aprire una bagarre contro gli altri Paesi europei in una visione potenzialmente distruttiva dell’Unione medesima. Ma evidentemente Meloni, Crosetto, Fazzolari, Adolfo Urso, il sottosegretario all’Economia Maurizio Leo (che gode di molta più fiducia da parte della presidente del Consiglio di quanto non ne possa vantare lo stesso Ministro Giancarlo Giorgetti), insomma la squadra economica di Fratelli d’Italia giunta nella stanza dei bottoni è persuasa di poter fare da sé, contro tutto e contro tutti. Chi non li segue è destinato a fare una brutta fine. “Signori, abbiamo vinto noi e dunque si cambia, a prescindere”. E dunque l’assalto a via XX Settembre è partito con l’obiettivo di silurare Alessandro Rivera, il direttore generale del Mef, uno che certamente non è organico al nuovo potere e che tra l’altro a destra è criticato per la gestione della vicenda Ita Airways. Il fastidio per tutto ciò che non sia suo il governo meloniano (sempre più e solo di Giorgia Meloni: Salvini è di fatto sparito e Berlusconi mastica quotidianamente amaro) lo rende ancora più evidente con la presa di caselle della più varia natura: nessun pezzo dell’amministrazione può star sicuro. Non si è capito bene, se non appunto con la voglia di spoil system purchessia, perché Giovanni Legnini sia stato sollevato di peso dall’incarico di commissario alla ricostruzione delle zone terremotate, dove a detta degli esperti stava facendo bene: o meglio, si capisce fin troppo bene avendoci messo il fidato ex sindaco di Ascoli Guido Castelli, ovviamente di Fratelli d’Italia, una decisione che il vescovo di Norcia, Renato Boccardo, ha definito «uno schiaffo alle popolazioni terremotate». E è stato rimosso anche Nicola Magrini, direttore generale dell’Aifa, nominato da Roberto Speranza: Magrini pochi giorni fa aveva parlato di «esitazioni o momenti di riflessione» del governo sui vaccini al momento del suo insediamento. Un caso la sua rimozione anzitempo? Ma questo è lo spoil system, bellezza, e tu non può farci niente. Altro che draghiana, Giorgia & Fratelli, sono già preda del loro assolutismo politico e del loro senso di rivalsa. Al momento, la fortuna della Meloni è avere come avversario una opposizione in gran parte ostaggio di un populismo inconcludente primis quello di Giuseppe Conte, nonché di un secondo populismo, quello affine alla rappresentanza personalistica dei due ‘capetti’ infatuati di se stessi, che sono Renzi e Calenda… e “dulcis in fundo” di un Pd in profonda crisi d’identità e rappresentanza politica. Essendosi identificato negli ultimi due lustri con il governismo e la sua conseguente stabilità istituzionale a tutti i costi… ha finito per perdere in dieci anni ben 7 milioni di voti (gli ultimi 800mila lo scorso 25 settembre) da coloro che già erano in fondo alla scala sociale e/o di chi a fronte dei profondi cambiamenti economici nel mondo del lavoro dipendente e/o autonomo ci è finito rapidamente. Un’ampia area sociale che non si è sentita più rappresentata e men che meno tutelata. Un Pd, quindi, alla ricerca di una ‘nuova identità’ di fronte allo sgretolamento della società dovuto, sempre più, alle profonde diseguaglianze… e all’ampliamento della povertà anche tra chi lavora. Ora, non bisognava essere Nostradamus per prevedere che cosa sarebbe successo una volta che Giorgia Meloni avesse formato il governo di destra, cronologicamente e ideologicamente il secondo governo di destra-destra dopo il famigerato Conte uno. Era evidente già in campagna elettorale che, una volta nominata Presidente del Consiglio, Meloni si sarebbe trovata di fronte al “dilemma del sovranista prigioniero al governo”: provare a realizzare tutte le scemenze urlate in piazza e nei talk show in questi anni e quindi far fallire il paese oppure metterle da parte, governare come una persona seria e gestire l’inesorabile fallimento del fresco matrimonio con i suoi elettori. Meloni sta ancora provando una strada alternativa fatta da una parte di slogan («la pacchia è finita»), dall’altra di minuzie economiche e giuridiche (no ai rave, uso del pos, limite contanti) e di messaggi in codice per il proprio elettorato (richiami nostalgici al Msi, reintegro dei medici no vax) e dall’altra di una pseudo-compostezza amministrativa e istituzionale sulle questioni fondamentali come la legge di bilancio, la continuità con Draghi e il rapporto con l’Europa, con la Nato e gli Stati Uniti di Joe Biden. C’è chi sostiene che questa strada alternativa porterà Meloni a governare con successo per parecchi anni, perché da Capo di una minoranza radicale e impresentabile la trasforma nella leader di uno spazio politico ben più ampio: conservatore e moderato abbandonato da altri interlocutori politici. A mio modesto parere, mi permetto di dire che: è una lettura raffinata e ottimistica di quello che sta succedendo, che non tiene conto di due cose: dell’inadeguatezza di fondo ormai evidente della classe dirigente di Fratelli d’Italia, delle tensioni con e tra i partner di maggioranza e della certezza che nell’epoca della politica polarizzata è più facile perdere i propri elettori che conquistarne altri. Questo lento spostamento di Meloni sul fronte “serio” dello spettro politico, ammesso che sia l’esecuzione di un piano strategico e non un tardare a rispondere all’accennato “dilemma del sovranista…”, rischia di essere travolto rapidamente dall’insoddisfazione crescente e sempre più divisiva di chi l’ha condotta a Palazzo Chigi sulla scia di sentimenti antieuropei condivisi dagli amici Ungheresi e Polacchi, di richieste di programma, impossibili da realizzare e, di nostalgiche intenzioni di rivalsa rispetto ad un passato politico alquanto discutibile. A favore del tentativo di Meloni, c’è ovviamente l’immensa fortuna di confrontarsi con un’opposizione schizofrenica, che prima l’ha legittimata incoronandola come l’unica vera interlocutrice della destra e poi l’ha segnalata al paese come una pericolosa ‘fascista’ contro cui costruire un fronte democratico e non riuscendo a costruirlo (non è certo questo il problema e/o la paura principali del Paese reale) ricorrendo ad agitare eventi del passato, che mai si replicherebbero al presente (la marcia su Roma può essere celebrata nell’anniversario del suo centenario, ma non è certo replicabile ai tempi d’oggi. Un richiamo ad un triste e drammatico passato, anziché affrontare le ragioni politiche vere della avanzata del consenso a Fratelli d’Italia… Alla fine, chiaro lo scopo ultimo del Pd, abborracciare una linea di contrapposizione per affrontare le inattese elezioni anticipate per via della caduta del Governo Draghi. Per salvaguardare ulteriormente il gruppo dirigente della cosiddetta “ditta” Pd. D’altronde il dibattito congressuale del Pd apertosi all’indomani del voto del 25 settembre era già in corso – seppur sottovoce – all’interno del partito da qualche anno, per via della “non vittoria” del 2013 (Bersani segretario) e della sconfitta epocale del 2018 (segretario Renzi). Tutto ciò, mostra sempre di più, che l’opposizione a Meloni è destinata a caratterizzarsi populisticamente dietro ai più ‘attrezzati’ Calenda e Renzi rispetto al resto dell’opposizione, stessa. E nel caso di Renzi anche più consapevole del rischio che Meloni corre, tanto da temporizzare in coincidenza delle elezioni europee tra due anni, la sua ‘detronizzazione’, che non per fare davvero l’opposizione e confrontarsi sulle riforme, necessarie al Paese. Renzi e Calenda così rischiano semplicemente di essere più affini alla strategia meloniana, che punta alla resa definitiva della Sinistra progressista in nome di un bipopulismo italiano. In ogni caso, loro sono per quel che appare i due ‘Ascari’ della politica italiana. E così, di Renzi e Calenda si è praticamente già detto tutto. Invece, di Giuseppe Conte, c’è ancora da dire che è un ex premier che al governo fu ambiguo nei confronti di leader come Trump (ricordate l’amico Giuseppi) e anche di Putin tollerando le simpatie di Salvini e non nascondendo le sue (ricordate il Conte 1) verso lo Zar – il primo golpista e truffatore acclarato e l’altro oggi altrettanto acclarato assassino e criminale di guerra. Infine anche nei confronti della Cina di Xi Jinping Conte e il suo primo governo avevano offerto una surreale adesione italiana alla nuova via “imperialista” della seta. Oggi dimezzato nei voti il Movimento caratterizza il suo populistico agire politico con la difesa ad oltranza del reddito di cittadinanza e più in generale per un ruolo assistenziale della politica, senza alcuna reale proposta di una prospettiva economica per un possibile nuovo sviluppo sociale ed economico del nostro paese in Europa. E’ chiaro che con una opposizione conciata così tutto è possibile, compresa l’ipotesi che Meloni governi l’Italia per vent’anni di fila, ma l’esito non sarebbe la conseguenza di un preciso spostamento al centro di Meloni in una dimensione più draghiana. Non funzionerebbe per le ragioni già evidenziate prima: in un contesto economico internazionale così complicato, Giorgia Meloni europeista e pragmatica non è credibile fino in fondo né in Italia né all’estero, soprattutto, non potrà reggere l’urlo populista che gradualmente salirà nel prossimo periodo dal suo elettorato, che sarà deluso e si sentirà tradito. Anche la via d’uscita delle riforme istituzionali (presidenzialismo – autonomia differenziata) non funzionerà e non solo perché non ha mai funzionato, come hanno già scritto e detto più di un commentatore politico nostrano, ma soprattutto la quasi totale stampa economica e civile straniera. Insomma, il progetto di Meloni sembrerebbe già compromesso prima di cominciare, ma continuerà a balbettare e a restare in piedi fino alla nascita di un’alternativa seria e competitiva a questo nostro doppio populismo. Molto dipenderà dal Congresso Pd, dalla fine politica di Forza Italia vista l’età di Berlusconi e dalle faide interne alla Lega, oltre che dalle potenziali nuove offerte politiche repubblicane e costituzionali a vocazione maggioritaria e non che dovessero sorgere come forze politiche in grado di intercettare l’ennesimo prossimo scombussolamento del nostro quadro politico. L’unica nota positiva per il paese è che, a differenza degli altri spericolati populisti italiani, Giorgia Meloni si è formata prima ai margini e poi dentro un sistema politico democratico, ha una cultura politicamente pericolosa, ma tutto sommato tradizionale, ed è pienamente cosciente delle difficoltà che deve affrontare al governo di un paese. Per queste ragioni, Meloni è dotata di una certa decenza istituzionale, non sguaina la spudoratezza di un Salvini o dei Cinquestelle, è consapevole di dove si trova e quindi è più propensa ad agire in modo responsabile, come dimostra la vicenda della guerra Russo – Ucraina, almeno fino a quando a Washington ci sarà un presidente americano serio come Biden e non un golpista come Trump o un altro esponente dell’ala trumpiana dei repubblicani. A guardar bene non è tanto… ma di questi tempi non è nemmeno poco…
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