Guerra: più di cento giorni di combattimenti. Il vero ‘end-game’ di Putin e Zelensky è vittoria o resa. Perché (e come) bisogna fermare Putin…

Oltre i cento giorni. Cento giorni che hanno cambiato il mondo. La guerra di aggressione di Vladimir Putin riscrive la storia, l’ordine internazionale, spezza le supply chain globali. Fermarlo è diventato un imperativo. E’ necessario fare una premessa:  ormai si tratta di vittoria o resa. Questo è  Il vero ‘end-game’ tra Putin e Zelensky. E’ noto, non si fa la guerra per la guerra, ma per la pace, cioè l’assetto che segue la fine dei combattimenti. E noi non possiamo ancora capire dove va la guerra russo-ucraina se non ci chiediamo quale sia il vero ‘end-game’ in corso tra i due belligeranti.  Sono già passati più di 100 giorni dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina e possiamo dire che il mondo non sia già più lo stesso. Quella che, secondo le intenzioni iniziali di Vladimir Putin, doveva essere una guerra lampo che in pochi giorni avrebbe portato alla sostituzione di Volodymyr Zelensky con un presidente “fantoccio” amico di Mosca, si è trasformata, grazie al valore dell’esercito ucraino ma soprattutto alla risposta compatta dell’Occidente, in un conflitto di logoramento che potrebbe durare ancora molto a lungo. Nel frattempo, le conseguenze sono già state amplissime a livello globale: i rapporti di forza tra Stati potrebbero essere tutti ridefiniti, mentre l’economia sta subendo un secondo shock dopo quello rappresentato dalla pandemia, con il rischio di una crisi alimentare mondiale alle porte che potrebbe far tornare in povertà centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta… Esistono profonde divergenze fra gli osservatori del conflitto in Ucraina nel valutare quali siano i veri obiettivi perseguiti da Vladimir Putin e da Volodymyr Zelensky. Individuarli è essenziale anche per porre fine a una guerra tanto sanguinosa e brutale e di aprire serie – non solo propagandistiche – trattative di pace. Tali divergenze si riflettono sui contenuti attribuiti al termine vittoria da ciascuna delle due parti, nonché sulle loro decisioni strategiche e sulla loro valutazione se il tempo giochi a proprio favore o svantaggio. Da quest’ultima valutazione dipende la loro disponibilità a trattare una tregua per poi passare a una pace duratura. Personalmente ritengo che la fine più probabile del conflitto – lo si voglia o no, ha poca importanza – sia il suo congelamento, in modo per molti versi analogo a quello della Corea. Sua condizione essenziale è che vengano accettate dalla Russia credibili garanzie di sicurezza per l’Ucraina. In pratica, la presenza di alcuni paesi garanti, che la dissuaderebbero da una nuova aggressione. Per essa sarà necessario un accordo su un sistema paneuropeo di sicurezza, del tipo non tanto di quello di Helsinki (limitato a misure di trasparenza), quanto di quello della Carta di Parigi del 1990 e delle misure anche di sicurezza dell’Osce. La catena di trasformazione e distribuzione si è intanto interrotta insieme con il processo di iper-globalizzazione in atto da anni. Questo comporta maggiori costi sui prodotti che si stanno riverberando già nell’aumento dei tassi di inflazione ed in una ricollocazione della produzione, il reshoring, non è facile da attuare in poco tempo e non è privo anche esso di rischi in attesa di ritrovare un nuovo equilibrio geopolitico ed economico globale. A fronte di una situazione così preoccupante, l’auspicio di tutti è ovviamente quello che il conflitto termini il prima possibile. Ma, sperare in una resa dell’Ucraina, a fronte della evidente disparità sul campo in termini di forze e uomini, sarebbe però errato oltre che semplicistico. In questa vicenda, infatti, non va mai perso di vista un fattore cruciale: cioè che questa guerra è iniziata per un’aggressione immotivata e non provocata di uno Stato sovrano ai danni di un altro Stato sovrano. Troppo poco si parla dell’enorme vulnus al diritto internazionale provocato da questa azione: le controversie tra Paesi non possono essere regolate attraverso la forza, ma vanno canalizzate attraverso le organizzazioni e i meccanismi multilaterali di cui la comunità internazionale si è dotata nel corso del tempo. La stella polare di ogni risposta – militare o diplomatica che sia – deve dunque essere innanzitutto quella di riparare questo vulnus, ripristinando il più possibile l’integrità territoriale dell’Ucraina e costringendo la Russia a rispettare i principi chiave del diritto internazionale.  Mi pare veramente oscena la richiesta agli ucraini di tenere conto della necessità di non umiliare i loro invasori… mentre Putin cerca di cancellare una nazione che chiede libertà, democrazia e indipendenza. C’è chi sostiene che bisogna concedergli una via d’uscita non accorgendosi che la narrazione del Cremlino non dipende da che cosa succede davvero nel mondo reale. In ogni caso, la via d’uscita per Mosca c’è già: la si imbocca inserendo innanzi tutto la retromarcia. A modesto parer mio, comprendere gli obiettivi di Putin e come egli giudichi la situazione, è reso difficile dalle differenze culturali esistenti fra l’Occidente e la Russia. I criteri di valore seguiti non sono solo divergenti, ma opposti. Per l’Occidente, il Cremlino era preoccupato per la possibile avvicinamento dell’Ucraina alla Nato. Ma Putin, sa bene che una potenza con 5.000 testate nucleari non può essere attaccata, né soprattutto vinta. I più avveduti dei suoi analisti strategici non hanno mai veramente pensato che gli obiettivi di Putin fossero essenzialmente territoriali: ristabilire la storica unità del “mondo russo”, necessaria per quella che la “Dottrina di Sicurezza della Federazione Russa” chiama “sovranità culturale”, “cavallo di battaglia” anche della Chiesa Ortodossa. La Russia – dagli accordi Solana-Primakov del 1997 – non è mai stata preoccupata della Nato. È stata invece terrorizzata dall’europeizzazione dell’Ucraina e dal contagio che avrebbe avuto sul popolo russo e sull’indebolimento della “verticale del potere”, teorizzata da Surkov. Il mutamento di atteggiamento di Putin verso l’Occidente è stato causato prima dalla “Rivoluzione Arancione” e poi da quella “Euro-Maidan”. Temeva che minacciassero il suo potere. Mentre, i successi conseguiti e la sua persuasione del declino dell’Occidente – confermato dalla guerra di Siria e soprattutto dalla mancata reazione all’annessione della Crimea e alla secessione delle province di Luhansk e di Donetsk ai tempi della presidenza Obama, nonché in ultimo dalle vicende afgane con la fuga degli Usa da quel conflitto che durava da 20 anni – lo hanno persuaso che avrebbe potuto tentare senza grandi rischi il “colpo grosso”, riportando l’Ucraina nel “mondo russo”. Di sicuro ha fallito i suoi obiettivi quindi questi non erano e non sono solo territoriali, eccetto per la Crimea. Quando parla di “de-nazificazione” dell’Ucraina, intende probabilmente la sua “de-occidentalizzazione”. Non insiste sulla sua esclusione dall’Ue, perché è certo di trovare nell’Unione qualche alleato che la blocchi e comunque disprezza l’Unione e la sua debolezza. Ma sicuramente ne temeva la paventata richiesta di adesione alla Nato. Sulla base di queste considerazioni e di quanto accaduto in questi giorni cosa ci possiamo attendere ora? La speranza è che i lenti progressi a livello militare sul terreno preparino il terreno per intavolare una trattativa. Di certo, quando questo conflitto sarà finito, resterà l’amarezza per il preoccupante passo indietro che si è verificato in Europa: secoli di guerre fra Stati, di violenze e sopraffazioni, sembrano essere stati dimenticati e settant’anni di pace nel continente sono stati cancellati in poche ore da un’invasione ancora oggi difficilmente spiegabile, oltre che illegale. Al momento, forse, è ancora la deterrenza nucleare ad impedire un vero allargamento del conflitto con conseguenze molto più nefaste: ma attenzione, perché il sentiero lungo il quale stiamo camminando è sottile. Serviranno sangue freddo e diplomazia per riportare la pace nel Vecchio Continente. Come arrivare a questo risultato? Puntando anzitutto a un cessate il fuoco, una tregua come preludio di un negoziato di pace che tenga in considerazione il diritto legittimo dell’Ucraina di mantenere l’accesso ai porti del Mar Nero e che preveda qualche concessione alla Russia negli oblast russofoni dove sia verificandone (referendum) la loro manifesta volontà di autodeterminazione della popolazione locale. Per arrivare a questo obiettivo, quanto è stato fatto fino ad ora dalle potenze occidentali era quindi necessario. Da un lato, la compattezza della Nato ha probabilmente sorpreso la stessa Russia che non si aspettava un ulteriore allargamento fino a includere Finlandia e Svezia; e le armi concesse all’Ucraina sono un atto dovuto in sostegno di un Paese che aveva – e ha – il diritto di difendersi. Dall’altro, la strategia delle sanzioni è stata fondamentale, i cui risultati non sono già visibili nel breve periodo ma che in un orizzonte più lungo metteranno in seria difficoltà l’economia russa (che dipende in maniera vitale dalle importazioni di beni manifatturieri dall’Europa). Non si tratta dunque di una proxy war degli Stati Uniti e della Nato contro Mosca, ma della risposta necessaria per evitare che la Russia conquistasse l’Ucraina in pochi giorni ampliando potenzialmente la sua minaccia anche al resto dell’Europa orientale… Beninteso, tutti parleranno di vittoria. È logico che lo si faccia in ogni guerra. Ricordate: “Nessuno fa la guerra per la guerra, ma per la pace, cioè per il tipo di vittoria che la segue”. Ma esistono vari tipi di vittoria. Essi mutano nel corso dei conflitti secondo l’andamento delle operazioni. Le valutazioni circa gli obiettivi di guerra dei due avversari influiscono anche sulle variegate proposte fatte anche da molteplici parti esterne per la cessazione del conflitto e per la sostituzione delle armi con la diplomazia. Mentre i possibili obiettivi dell’Ucraina – quindi la sua definizione di vittoria – sono abbastanza chiari, quelli della Russia lo sono molto meno. Quando Zelensky parla di vittoria, certamente non si riferisce a piazzare la bandiera ucraina sul Cremlino. Solo gli sciocchi possono pensarlo con le loro invocazioni alla pace, urlate per non precisare che pace vogliano. Il presidente ucraino pensa di ristabilire l’integrità territoriale dell’Ucraina entro i confini stabiliti nel 1991 e confermati a Budapest nel 1994, quando Kiev fu indotta a consegnare alla Russia i 1.900 SS-19 nucleari schierati sul suo territorio. Si accontenterebbe probabilmente del ritiro russo dall’Ucraina, quale era prima del 24 febbraio. Ora, quasi tutti hanno assunto che gli obiettivi di Mosca fossero soprattutto territoriali. Per essi, come per Kissinger, ma anche per la massa di coloro che si proclamano pacifisti in Italia e in Europa – il recente caso più patetico è quello di Salvini, non accortosi di essere solo strumentalizzato dalla propaganda del Cremlino, il cui principale obiettivo è la disunione del “fronte occidentale” – la “formula magica” è quella di convincere l’Ucraina a cedere le province che vuole Mosca in cambio dell’incanto dell’apertura di un fantasioso tavolo di pace. In caso di necessità, l’Ucraina potrebbe anche essere tradita, cioè costretta a cedere perché la sua resistenza dipende dal flusso di armi occidentali. A pochi è venuto il dubbio che a Putin interessino poco o nulla i territori. Nella sua “visione messianica” della “Madre Russia”, punta ad altri obiettivi. Di territori la Russia ne ha già abbastanza. Quella che le manca è semmai la popolazione per valorizzarli e controllarli. Vuole ricostituire un potente impero. Non accetta che la Russia rimanga uno Stato come tanti altri. Orbene, senza farla ulteriormente lunga… La situazione evolverà secondo l’esito dei combattimenti in corso, che continueranno ancora molte settimane. Qualunque imprevedibile esito alla fine sarà: il Cremlino ne uscirà comunque male. Ho l’impressione che Putin aspetti ormai quasi fatalisticamente gli eventi: non può mobilitare ulteriormente, senza suscitare una rivolta dei riservisti; non può ritirarsi né decidere di trattare, sapendo di dover cedere qualcosa e di vedere soprattutto eroso molto del proprio potere. Ora, appare già chiaro che anche in caso di occupazione di tutto il Donbass, non avrebbe gli effettivi per controllare il territorio, né le risorse per ricostruirlo. Dopo averlo tanto brutalmente distrutto. La Russia ne uscirebbe comunque indebolita e umiliata. Questo è il punto vero e sarà quindi  volente o nolenti di Putin la decisione del che fare per evitarlo… Ora, la sorte delle due repubbliche secessioniste e forse anche quella della Crimea verrebbero decise con referendum fra qualche tempo, a rientro avvenuto della popolazione evacuata. La continuazione della guerra sarebbe per Zelensky un’opzione disastrosa, anche se il tempo gioca strategicamente a suo favore. Gli ucraini avevano un esercito di 250.000 uomini e stanno rinforzandolo con altri 100.000. Dispone di una milizia territoriale di almeno un milione di effettivi. A differenza dei russi non ha difficoltà a rimpiazzare le pesanti perdite che subisce. La sua tenuta dipende dal rifornimento di armi sempre più potenti da parte dell’Occidente. La massa della popolazione continua a sostenere la resistenza.  Al limite, in caso di crollo dell’esercito e d’occupazione del paese, gli ucraini condurrebbero una sanguinosa  guerriglia. I russi come già sottolineato, non dispongono degli effettivi per controllare tutto il territorio ucraino. La mobilitazione dei riservisti diverrebbe inevitabile per il Cremlino. Politicamente resta improbabile. Già ora molti sono i disertori e i renitenti alla leva. Nel lungo periodo, il Cremlino dovrebbe ritirarsi, con pesanti ricadute politiche. L’Ucraina sarebbe comunque distrutta. Per gli europei – e anche per gli Usa – si realizzerebbe lo scenario che più temono: quello di una guerra ulteriormente prolungata, senza un possibile abbraccio per la Pace. Per Putin a questo punto, la cessione di territori in cambio di trattative lo fa di certo sorridere. Quello che capisce meglio è solo il linguaggio della forza. Anche la dichiarazione di Macron di non volere umiliare la Russia, lo lascia indifferente. Tanto ci ha pensato già lui, con i pasticci militari che ha combinato: a parte il disastro a Nord di Kiev, ha trasformato l’Ucraina in nazione; ha resuscitato la Nato dal suo letargo; ha riportato gli Usa in Europa; ha indotto Svezia e Finlandia a chiedere di diventare membri della Nato; ha indotto la Germania a riarmarsi; e chi più ne ha, più ne metta… Rifletterà a riguardo? Improbabile!

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