L’esito del voto del 4 dicembre sulle riforme costituzionali… apre (anche con l’Elezione di Trump) scenari dagli orizzonti incerti e pone seppur in modo diverso una serie conosciuta di quesiti. Lasciamo in un momentaneo stand-by le domande su Trump e l’America, per focalizzarci sulle questioni italiane. Cosa porterà il 2017 alla politica italiana? E soprattutto, tra poche ore avremo la sentenza della Consulta sull’Italicum… quest’anno sarà l’anno delle elezioni anticipate? Quali sono le grane della situazione politica italiana che vanno risolte per uscire dalla crisi economica e sociale? Vediamo tutto ciò… e nel contempo, guardiamo anche a riguardo le attese e le speranze dei leader nostrani? Cercando le risposte a queste domande attraverso un excursus sui principali protagonisti della nostra scena politica in questo anno che è appena iniziato…
Matteo Renzi. Il 2017 per l’ex presidente del consiglio si apre con due obbiettivi, che rappresentano anche i suoi problemi: come vincere il congresso del Pd – e quindi sconfiggere una volta per tutte la minoranza – e come andare alle elezioni e vincerle. Problemi assolutamente non da poco, che ora sono suscettibili di troppe varianti (la legge elettorale, l’asse tra Mattarella e Gentiloni) per essere affrontati con qualche fondatezza. Il problema maggiore per l’ex sindaco di Firenze, però, sarà quello di riconquistare la fiducia degli italiani, convincerli che è ancora lui l’unico in grado di guidare il Paese. La batosta referendaria è stata micidiale e il 40% di Sì non può essere considerato una sua personale base elettorale da cui ripartire. Matteo gode ancora di molto credito tra i suoi concittadini, a patto però di imparare dai suoi errori, campagna referendaria in primis. Il suo modo di governare, sempre sul filo teso della battuta, del tweet, dell’irrisione dell’avversario, della muscolarità spesso gratuita, ha stancato. Se non lo capisce, per lui le porte di Palazzo Chigi rischiano di non riaprirsi più.
Silvio Berlusconi. Per lui il 2017, in cui arriverà alle 81 primavere, inizia bene politicamente, ma in modo drammatico sul fronte patrimoniale. Le dimissioni di Matteo Renzi e i deboli numeri su cui si basa la maggioranza a sostegno del governo Gentiloni in Senato gli restituiscono nuova tela politica da tessere. Sarà l’ex Cavaliere, grazie alle assenze di volta in volta strategiche dei suoi, a tenere in mano il pulsante della corrente del nuovo esecutivo a Palazzo Madama. Una sorta di patto occulto del Nazareno in cui l’ex leader di Forza Italia farà pesare le sue istanze, a partire dalla nuova legge elettorale, che Silvio vorrebbe il più proporzionale possibile. Il ritrovato rapporto con Sergio Mattarella gioca a suo favore, così come la capacità di dialogo, e di ascolto, del nuovo premier. Meno bene sul fronte patrimoniale, con i nodi Milan e Mediaset-Vivendi (questa è indubbiamente la sua grana più grossa) ancora da sciogliere. Sulla seconda questione Berlusconi ha la certezza di non avere un governo ostile, ma le armi che l’esecutivo può mettere in campo per difendere Mediaset dall’assalto francese sono limitate e, forse, inopportune. Detto questo, per l’ex Cav l’affaire Mediaset è un motivo in più per stare bene al centro della scena politica. “Sempre lì, lì nel mezzo…”, come cantava Ligabue (celebrando una vita da mediano, ma dell’interista Oriali). Sempre che poi l’eventuale Opa di Vivendi in realtà non gli risolva parecchie grane, a cominciare dalla spartizione dell’azienda tra i suoi cinque figli. Un bel tesoretto di soldi ciascuno e passa la paura.
Matteo Salvini. Il problema più grosso per Matteo Salvini nel 2017 è capire cosa fare da grande e come capitalizzare quel 13% circa di voti di cui la Lega dispone, percentuali mai raggiunte prima dal movimento, neppure negli anni d’oro del Bossi che fu. Il piano di Salvini è quello di (ri)costruire un’alleanza di centrodestra in cui però è lui il padrone del vapore. “Noi siamo la forza politica più forte del centrodestra, quindi il candidato premier spetta a noi”, ha detto più volte il leader leghista. Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo Berlusconi, che non ci pensa neanche lontanamente a cedere lo scettro del comando al giovane leader leghista. Il quale nell’ultimo anno è stato usato sapientemente dall’ex Cav e dai suoi colonnelli per stoppare la corsa alla leadership di Stefano Parisi, ormai bruciato. Salvini e Berlusconi sono condannati a stare insieme. Ma in che modo solo la legge elettorale dopo il pronunciamento della Consulta, ce lo dirà. Se proporzionale fosse, non ci sarebbe bisogno di esprimere un leader unico della coalizione. Anzi, non servirebbe nemmeno la coalizione. Tornando al dilemma iniziale, però, a Salvini sembra mancare quel salto di qualità per essere la Marine Le Pen o il Trump italiano. “Gli manca il quid”, direbbe qualcuno. Ecco, il prossimo anno Salvini dovrà fare quel passo in più che lo elevi al di sopra di quell’aria da consigliere comunale leghista della bassa bergamasca da cui finora non è riuscito a liberarsi.
Beppe Grillo. La grana più grana di tutte le grane possibili per Beppe Grillo ha un nome e un cognome: Virginia Raggi. Ma non solo. E a Roma, infatti, che il Movimento 5 Stelle si gioca gran parte del suo capitale politico. Nonostante gli scandali e l’inefficienza della giunta capitolina, i sondaggi come per miracolo tengono. Ma quanto durerà? E comunque sarà poi difficile che la stessa cifra si materializzi alle elezioni politiche. Dopo il disastro romano (se così sarà) quanti italiani avranno il coraggio di affidare le sorti del governo del Paese a una forza politica che alla prova dei fatti sta andando incontro a un clamoroso flop? L’altro problema di Grillo è trovare qualcuno cui affidare il Movimento dal punto di vista operativo. L’ex comico, infatti, è ottimo per i Vaffa-Day, ma non ha la stoffa del leader politico, e nemmeno gli interessa farlo. Trovare un nuovo Casaleggio è impossibile, ma qualcuno che si prenda la briga di stare dietro alle vicissitudini del movimento e di raddrizzare il timone quando serve, sembra assolutamente necessario. Di Maio? Di Battista? Fico? Per ora nessuno sembra reggere un ruolo simile. Ma nel 2017 qualcosa Beppe se la dovrà inventare, altrimenti rischia un tonfo clamoroso. Tanto veloce quanto lo è stata la sua scalata sull’onda dell’antipolitica.
Paolo Gentiloni. Quando gli è stato affidato l’incarico e il suo governo ha giurato, nei palazzi della politica, compresi quelli con simpatie renziane, si è tirato un sospiro di sollievo. Troppo drammatica e vissuta sui ritmi asfissianti della muscolarità è stata l’esperienza renziana al governo, che si sentiva la necessità di avere sulla tolda di comando un personaggio più pacato, tranquillo, dialogante, quasi noioso. Ma nonostante l’appeal, Gentiloni è uno tosto: basti vedere come si è liberato senza colpo ferire di Denis Verdini, tenuto fuori dalla porta. Insomma, in un colpo solo il nuovo premier ha tolto il 30% alle argomentazioni degli anti-renziani di professione (“governate grazie a Verdini!”). La sua scommessa è arrivare al 2018 portando stabilità, una nuova legge elettorale secondo i desiderata del Quirinale e qualche provvedimento utile al Paese. La sua grana maggiore, naturalmente, si chiama Matteo Renzi. Al quale, se il segretario dovesse decidere per le elezioni anticipate, difficilmente Gentiloni potrà opporsi.
Pierluigi Bersani. Su di lui si addensano le nubi che ricoprono il cielo del resto della minoranza Pd. Il dilemma, per loro, è il seguente: saranno in grado di allearsi con il corpaccione centrale del partito (ovvero Dario Franceschini) per mettere in campo un candidato credibile e alternativo a Matteo Renzi? I nomi circolati finora, infatti (da Michele Emiliano a Enrico Rossi a Roberto Speranza), incarnano perfettamente il candidato di minoranza destinato a sconfitta quasi certa. Qui, dunque, sta la sfida della minoranza e di Bersani in particolare: mettere da parte la vis polemica, lo spirito di rivalsa e la voglia di riprendersi la Ditta per intavolare un asse con gli ex margheritini e convincerli che Renzi non va più bene. A quel punto i nomi da giocare per una candidatura unitaria ci sarebbero: Enrico Letta, Andrea Orlando, Luca Zingaretti. In caso contrario, la minoranza del partito s’intesterà una battaglia nobilissima, ma destinata a restare di sola rappresentanza. Tutto in frantumi, però, andrebbe se Renzi, con un colpo di mano, riuscisse ad andare a elezioni anticipate prima di celebrare il congresso del partito.
Denis Verdini. Annus horribilis sembra per lui questo 2017. Renzi se n’è ghiuto e solo l’ha lasciato. Il gruppo di Ala-Scelta civica col governo Gentiloni è rimasto fuori da tutto: governo e sottosegretari. I patti con Matteuccio non erano questi, ma che ci volete fare, il destino è cinico e baro. A Denis ora non resta che aspettare e vedere quanto la maggioranza riuscirà a tenere in Senato, dove i numeri ballano. Verdini, però, è consapevole del fatto che al governo un grosso aiuto lo darà il suo ex datore di lavoro, Silvio Berlusconi. Che i due, Denis e Silvio, tornino a intendersela in questo 2017? Chissà. Per ora l’affare peggiore l’ha fatto Enrico Zanetti, costretto a rinunciare al suo posto da vice ministro dell’Economia. Denis però quest’anno dovrà guardarsi anche dalle procure: sei processi in corso non sono pochi, nemmeno per uno come lui. Il suo problema è trovare un seggio nel prossimo Parlamento che lo tuteli almeno un po’, vedremo quel che sarà…
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