Ancora una volta siamo al paradosso. Dopo il «taglio dei parlamentari», i giornali ammoniscono severamente la politica sui rischi della demagogia antipolitica. Che essi stessi hanno alimentato… La decisione di fare una riforma della Costituzione al solo scopo di tagliare «le poltrone della casta» e risparmiare così sui «costi della politica», a leggere i giornali di ieri, sembrerebbe proprio non convincere nessuno. «Stappata la bottiglia» resta il quesito come se fosse un ‘nodo’ da sciogliere: era proprio questa la madre di tutte le battaglie? Oltre i simboli, infatti, resta la realtà», scrive sul Corriere della sera Gian Antonio Stella, che proprio da quelle pagine – con Sergio Rizzo – fece partire la campagna contro la «casta», poi confluita nel bestseller letterario che tutti conoscono, cui dobbiamo il successo del termine. Ancora più severo con la riforma, sullo stesso giornale, Massimo Franco, secondo il quale ora «bisogna sperare che forze come il M5S evitino di salutarla rozzamente come taglio delle poltrone e risparmio di soldi». Posizione che solleva non pochi dubbi su come altro si potrà mai salutarla, una riforma che i suoi promotori hanno chiamato “taglio delle poltrone” e salutato in parlamento con delle gigantesche forbici. Ancora più significativa la scelta di Repubblica, giornale che dal 2007 fa a gara con il Corriere (e con tutti gli altri quotidiani nazionali) nello sparare titoli, articoli, editoriali indignati contro la casta, e ieri improvvisamente – dopo ben dodici anni – ha avvertito il bisogno di mettere il termine tra virgolette. Il titolo dell’articolo di Filippo Ceccarelli infatti recitava: «Quell’insofferenza per la “casta” che la politica ha voluto ignorare». La tesi, come si evince dal titolo, era che in sostanza anche le campagne anti-casta sono colpa della casta. Pardon, della “casta”. L’Anti-casta che sarebbero ovviamente i cinquestelle. I quali, a onore del vero, la campagna contro la casta si sono limitati a riprenderla pari pari dai giornali. Titolo di apertura dedicato alla Casta-tra-virgolette pure sulla prima pagina della Stampa: «Tutti contro la “Casta”. Il Parlamento taglia 345 deputati e senatori». Mentre sul Messaggero l’editoriale è affidato a Carlo Nordio: «La politica per salvarsi vota insieme agli anti-casta, con tanto di debite citazioni e ripetuti omaggi al libro di Stella e Rizzo, di cui il blog di Beppe Grillo fu uno dei primi, entusiasti recensori. Ma sarebbe ovviamente ingeneroso attribuire la diffusione del termine (e del concetto sotteso: politica uguale casta di privilegiati intoccabili, immeritevoli e odiosi) solamente a loro, o al Corriere della sera che pure, per mesi dall’uscita del libro, non fece più un titolo che non contenesse la parola «casta» nemmeno sulle pagine dei programmi televisivi. Perché la verità è che da allora questo è divenuto il modo di riferirsi alle istituzioni, e ai famigerati “costi della politica”, dell’intera stampa nazionale: la casta. Senza virgolette. Quel piccolo segno tipografico che ieri, improvvisamente, spuntava un po’ dappertutto, a denotare una sorta di distanza critica, o quanto meno una presa di distanza emotiva, nel giorno in cui il coro unanime della stampa si indirizzava ad ammonire severamente l’attuale maggioranza, e in special modo il Pd, a non pensare di potersela cavare con la facile demagogia. Con le sparate contro le “poltrone” e la “casta” e i “costi della politica”. Cioè esattamente la sbobba che l’intero sistema dell’informazione, giornali e televisioni, siti internet e riviste a fumetti, ci ha rifilato ininterrottamente per dodici anni. Quelle virgolette assomigliano insomma a un tentativo di cancellare le impronte, di fronte all’esito ultimo di simili campagne. Ma è comunque un segnale positivo, che denota perlomeno un lampo di consapevolezza. E se da domani il termine “casta” uscisse definitivamente dal campo dei sinonimi di “uomo politico” o “membro del parlamento”, per tornare a essere utilizzato per quello che è, e cioè un’offesa, sarebbe comunque un grande progresso. E se dicessimo di sperarci…
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