Italia: conclamato il fallimento del regionalismo italiano, i suoi responsabili…

Il Regionalismo italiano nasce 50 anni fa. E dopo questo mezzo secolo, possiamo esprimere un giudizio concreto sul nostro “sistema delle Regioni”.  E dire senza infingimenti, che è stato un fallimento! Le Regioni hanno aggravato la disunione e dissipato le finanze del nostro Paese. Occorre sicuramente ridurne il numero e ripensare ad un riassetto dei nostri livelli istituzionali. Il Covid-19 ha illuminato crudelmente ogni ruga, ogni macchia, ogni neo del nostro Paese. E la fotografia che ne scaturisce  ci mostra inesorabilmente come l’assetto politico, istituzionale e amministrativo italiano costruito nei 160 anni precedenti,  non è più in grado di governarci dentro questo nuovo secolo… Partiamo proprio dalle Regioni o, per peggio dire, dall’anarchia regional/feudale nella gestione della pandemia. Essa è il prodotto di un’ambiguità costituzionale, che la riforma del Titolo V ha ulteriormente aggravato, dilatando enormemente il campo della legislazione concorrente. La sconfitta del referendum del 2016 che proponeva anche di istituire una Camera delle Regioni ha lasciato così la sola Conferenza Stato-Regioni, fuori da ogni controllo del Parlamento e sostenuta su una fragile rete pattizia politico-partitica. Dopo cinquant’anni si può (si deve) legittimamente tracciare oggi un bilancio realistico. Il testo del Titolo V, a suo tempo, è nato, come ogni altro articolo della Costituzione, da un compromesso tra varie impostazioni ideologiche che venivano da lontano. Si potrebbero ricordare con alcuni cenni storici: il federalismo azionista-repubblicano risalente a Carlo Cattaneo e l’autonomismo comunale e regionalista di don Sturzo, contrapposte al centralismo liberale contrario alla dislocazione regionale. Esclusa quasi fin dall’inizio l’opzione federalista, prevalse il regionalismo sturziano. Il regionalismo Democristiano si fermò sulla soglia del federalismo, mentre il Partito comunista italiano (Pci), si presentava fortemente centralista. La Democrazia cristiana (Dc) ripropose nel 1946-48 il programma del Partito popolare del 1919, che contrapponeva «ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale (…) l’autonomia comunale, la riforma degli Enti Provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali». Il Partito comunista italiano, al contrario, puntava su uno Stato forte centralizzato, non perché volesse fare come in Russia – Togliatti lo aveva escluso – ma certo perché veniva più facile costruire da Roma la cosiddetta «democrazia progressiva», cugina delle nascenti «democrazie popolari». Dopo le elezioni del 1948, le parti si invertirono: la Democrazia cristiana, temendo la costituzione di Repubbliche rosse-cuscinetto tra Nord e Centro-Sud, prese la strada della dilazione del tempo, mentre il Pci diventò regionalista. Si arrivò, comunque, all’istituzione delle Regioni solo nel 1970. Ne è uscito fin dall’inizio, un regionalismo che non è né carne né pesce: non è federalista, tale da imputare alla Regione responsabilità fiscali precise e politiche di spesa responsabili. Paga lo Stato, a pie di lista. Le linee di spesa non hanno criteri, se non quello della “spesa storica”, costruita lungo i decenni per rapporti di forza e di favore politico-partitici. E non si sono ancora visti i criteri base dei livelli essenziali di prestazioni. Le Regioni non hanno semplificato o reso più efficiente l’Amministrazione statale. L’hanno duplicata, moltiplicandosi per migliaia di dipendenti regionali e per centinaia di società partecipate regionali. In Sicilia occupano circa 7.000 dipendenti. Un fiume enorme di stipendi, contributo essenziale alla “Società signorile di massa”, dalla definizione di Luca Ricolfi. Partecipate efficienti? Rivolgersi per informazioni ad ARIA –-fritta?! – in Lombardia, 600 dipendenti, ottusamente incapace di prenotare i vaccinandi. Quanti consulenti? Quanti e più, per bypassare l’incompetenza accumulata e stipendiata degli apparati. Se poi il regionalismo doveva rimediare alla frattura storica Nord-Sud, Piero Bassetti ha già fatto notare, commemorando ufficialmente il cinquantenario della Regione Lombardia, di cui lui è stato promotore e primo Presidente, che se nel 1870 – fatto 100 il reddito pro-capite nazionale – Il Nord era livello 110 e il Sud a 90, oggi il Nord è al 120, il Sud a 65. Le Regioni hanno aggravato la disunione e la frammentazione e hanno rafforzato la spinta corporativa che sale dai territori. Emilio Lussu (Fondatore del Partito Sardo d’Azione e del movimento Giustizia e Libertà), intervenendo nella discussione dell’Assemblea costituente, osservò che il regionalismo, per come si andava delineando, apparteneva alla famiglia del federalismo «così come i gatti appartenevano alla stessa famiglia dei leoni». Chi ha guadagnato da questo regionalismo, ai limiti del centralismo e del federalismo, sono stati i partiti, che hanno visto moltiplicarsi il personale politico, le carriere, gli stipendi, e perciò il finanziamento: più di un migliaio di consiglieri regionali, più di duecento assessori, 20 sedicenti “governatori”. E questo spiega la renitenza a rimettere in questione la Costituzione del ’48 e il Titolo V del 2001. Attraverso la moltiplicazione delle istituzioni, la politica partitica si è gonfiata a dismisura, come la rana di Esopo. Delle Regioni a statuto speciale l’unica che ha giustificazione storico-politica è il Trentino-Alto Adige, che la storia imporrebbe di rinominare meno fascisticamente Trentino-Sud Tirolo. Tornare, dunque, allo Statuto albertino, a Carlo Farini e a Bettino Ricasoli, come spesso si invoca soprattutto dalla classe dirigente meridionale, cui non è bastata la lezione tragica del centralismo piemontese-borbonico? Occorrebbe andare velocemente in una direzione federalista. Con una proposta di riduzione del numero esorbitante delle Regioni e del riassetto federale dei livelli istituzionali, a partire dalla titolarità fiscale dei Comuni, delle Regioni, dello Stato, nella prospettiva di unità sovracomunali e metropolitane più vaste, di un’integrazione economica orizzontale tra Regioni confinanti al di qua e al di là dei monti e dei mari, nell’orizzonte necessario degli Stati Uniti d’Europa. Le proposte abbondano, ma resta drammatica l’inerzia della classe dirigente politica, trasformatasi in corporazione tra le corporazioni. Una corporazione regionalista. Perciò non facilmente riformabile dall’interno…

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