Italia: le cose (forse) cambiano. Piccoli, ma si vedono i passi verso il superamento del governo Conte 2…

L’insoddisfazione del presidente Mattarella. E, poi, le proposte di Bettini, Calenda, Renzi e Gori per provare a dar vita a qualcosa di più convincente dell’attuale esecutivo. C’è anche la temuta ipotesi (nell’opposizione e nella maggioranza) di un coinvolgimento organico di Forza Italia, anche se Berlusconi disponibile a collaborare sull’approvazione della legge di bilancio e sull’ulteriore ampliamento del debito, da un suo maggiore coinvolgimento, per ora se ne tiene fuori. Con 10.000 morti in un mese (nuovo record, 853 in un giorno lo scorso 24 novembre) e le terapie intensive quasi collassate anche in Veneto, il governo si difende mettendo in evidenza il famoso rallentamento della curva: avanti così, dunque, fino alla vittoria finale. Ma il Paese intanto va verso lo stremo. E come sempre la politica registra il movimento tellurico che sta scuotendo la vita e le coscienze dei cittadini: ecco perché riaffiorano le mille punture di spillo ai danni di Giuseppe Conte, ecco perché torna la questione di un esecutivo inadeguato. L’Esecutivo arranca, il premier resiste ma ha un punto debole: i dossier Ue. Pd e Iv sembrano decisi a cambiare squadra, il M5S disponibile ma solo se la crisi la aprono gli alleati… Nelle ultime due settimane tre personaggi diversi come Goffredo Bettini, Carlo Calenda e Matteo Renzi (ma anche Giorgio Gori, e qualcun altro che ci è certamente sfuggito) hanno posto o riproposto il problema del rafforzamento della squadra di governo. «Si può fare meglio», ha detto il sindaco di Bergamo: ed è quello che pensano milioni di italiani. E mentre Calenda ha ipotizzato un “time out” decretato dal Quirinale allo scopo di dar vita a qualcosa di più convincente dell’attuale compagine – un governo del Presidente -, Bettini e Renzi, ciascuno con il proprio linguaggio, hanno posto la stessa questione: così non va. Serve uno scatto di fantasia e un minimo di coraggio politico. Calenda, che a differenza degli altri è fuori (e contro) la maggioranza di governo, ha chiamato direttamente in causa il presidente della Repubblica. Avrà facilmente colto, il leader di Azione, che Sergio Mattarella qualche giorno fa ha compiuto un gesto di una solennità particolare pronunciando un discorso tramesso per molti minuti in apertura di tutti i tg come fosse un messaggio alla Nazione, un appello denso di insoddisfazione per l’azione generale di governo: ed è da escludere che ce l’avesse solo con le Regioni e non anche con l’esecutivo di Conte, responsabili entrambi chiaramente di una serie inquietante di conflitti istituzionali. Ecco perché il presidente del Consiglio inevitabilmente non ne può uscire assolto ma al contrario ben coinvolto. Il capo dello Stato naturalmente non è andato oltre ed è noto che non vedrebbe certo con favore l’ipotesi di una formale crisi di governo. E tuttavia le cose si muovono. L’esigenza di avere nel governo facce nuove, competenze affidabili, tecnici di valore indiscusso è ormai sentita in vari ambienti, e la inedita consonanza fra Bettini e Renzi in questo senso fa riflettere. C’è un nesso fra queste esternazioni e l’ipotesi di un ingresso di Forza Italia nella maggioranza? In teoria no, se non altro perché Berlusconi ha ribadito che il partito resta all’opposizione seppure facendo un’opposizione molto diversa da quella di Salvini&Meloni (i quali anzi virano ancora più a destra rafforzando la loro subalternità a Viktor Orban che in queste ore sta mettendo in difficoltà il Recovery fund, altro che “prima gli italiani”). Ma certo un governo con dentro un tecnico ben visto ad Arcore sarebbe un buon biglietto da visita anche per il Cavaliere, un passo per acquisite i voti di Forza Italia in Senato: questa dovrebbe essere l’ispirazione di Bettini, storicamente legato all’idea che in situazioni straordinarie come questa “le forze migliori” debbano governare persino al di là dell’appartenenza a schieramenti consolidati. Una suggestione che piace a Gianni Letta e dunque al Cavaliere e che potrebbe preludere a novità persino di sistema mediante la spaccatura definitiva del centrodestra (a quel punto, solo destra). Non si pensa certo ad un rimpasto messo su per soddisfare solo le richieste di corrente o addirittura quelle personali, ma ad un governo parzialmente rinnovato – non necessariamente passando per una formale crisi di governo, Andreotti sostituì 5 ministri senza passare per una crisi – un’operazione condivisa e “sorvegliata” dal presidente della Repubblica che condurrebbe a un ridisegno della compagine inserendo qualche personalità autorevole e competente. I nomi certo non mancano. D’altronde, ieri dopo un’altra nottata di liti e umor nero è saltato anche l’ultimo commissario alla Sanità calabrese, in quella che sembra ormai una messinscena tanto sarebbe assurda in qualsiasi Paese del mondo. Non c’è nulla – in questo momento – a parte le scelte obbligate per il contrasto alla pandemia, che il governo Conte sembri in grado di decidere. Nulla su cui la sua maggioranza non passi il tempo a farsi la guerra: è successo sul Mes, sulle riforme istituzionali, sulla legge elettorale, sta accadendo perfino sulla scuola, sulla Rai, sulle nomine. Non una guerra sotterranea, attenzione. Non un tira e molla che poi porta al compromesso che mette d’accordo tutti. È guerra manifesta, rivendicata. È il modo per dire: così non vogliamo più andare avanti. Lo dice Matteo Renzi che con Italia Viva esaspera il disaccordo sui vari temi a quei tavoli di maggioranza che pure è stato il primo a chiedere. Lo dice il Pd che ogni giorno si preoccupa di attaccare l’ad Rai Fabrizio Salini, difeso da Conte e 5 stelle; o di andare contro la volontà della ministra M5S Lucia Azzolina di riaprire le scuole superiori – almeno al 50 per cento – già dal 9 dicembre; o di chiedere il Mes, richiesta che Conte aveva riposto pensava definitivamente nel cassetto. Così che, siamo vicini ad un nuovo pasticcio. Oggi si vota sul bilancio e la  maggioranza è sul filo. Ma sul Mes sarà un salto nel vuoto. I giallorossi puntano a essere autosufficienti nella conta di oggi al Senato sullo scostamento, nonostante i continui esodi dal gruppo 5S. 52 i grillini che hanno cambiato casacca. Il 9 dicembre invece bisognerà decidere sul sì alla riforma del fondo Salva-Stati chiesto dalla Ue. Il Governo giallorosso ipotizza oggi in aula al Senato la conquista di un “bottino” compreso fra i 165 e i 169 voti. In attesa di conoscere l’atteggiamento del centrodestra, con Fi impegnata fino all’ultimo a spingere gli alleati sulla strada del sì. Più facile la marcia del provvedimento alla Camera, dove Conte dispone di numeri robusti. La grande incognita che rimane dietro l’angolo, dunque si chiama Mes. Il premier, nell’incontro con i capidelegazione, non ha ottenuto l’atteso via libera dai 5Stelle. C’è qualche spiraglio di dialogo ma il sottosegretario all’Economia Alessio Villarosa dei 5 stelle, conferma la linea del rigore, con un “assolutamente no” riferito sia all’utilizzo dei 37 miliardi del Mes sia a una posizione favorevole del governo italiano a una riforma del meccanismo europeo di stabilità. Mentre i dem sempre più insofferenti chiedono a Conte di uscire dal guado, spalleggiati dal ministro Roberto Speranza (Leu) che definisce il Mes «uno strumento cui bisogna guardare con massima serenità». Giuseppe Conte, ieri dalla Spagna, dribbla ancora l’argomento: «L’importante sono le risorse, non lo strumento». Ma c’è una deadline oltre la quale il presidente del Consiglio non potrà spingersi: il 9 dicembre, quando Conte riferirà alle Camere sul vertice europeo del giorno dopo. La maggioranza, anche nel modo più soft, dovrà dare mandato al Premier di portare a Bruxelles il benestare dell’Italia alla riforma del Mes. E’ il passaggio d’aula più delicato. Uno vero e proprio stress-test, visto che, avvertono fonti pentastellate: «in questo momento la coalizione non reggerebbe». Giuseppe Conte, ha ovviamente timore che muovendo una pedina qualsiasi, possa per inerzia finire col subire uno scacco matto. Il premier in questo momento è metaforicamente asserragliato nel bunker di palazzo Chigi ed è disposto a qualunque cosa, tipo assumersi la settimana scorsa la responsabilità della tragica commedia calabrese, pur di restare centrale. In teoria, un grande leader si dovrebbe rendere conto che la sua squadra non regge il passo della crisi, tecnicamente e politicamente, e farsi lui carico di agevolare una fase nuova. Ma per far questo l’avvocato dovrebbe trasformarsi da gestore dell’esistente in uno statista in grado di costruire il futuro: ed è chiedergli troppo, probabilmente. Ma rifugiarsi nel bunker, in certi casi, non basta…

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