La difficile gestione della rabbia…

Come tutte le emozioni, anche la rabbia di per sé, non è né positiva né negativa. Le emozioni ci sono semplicemente utili. E per viverle realmente come tali, occorre conoscerle, sentirle ed essere in grado di sapergli dare un nome.

“Ogni muscolo cronicamente teso è un muscolo arrabbiato, dato che la rabbia è la reazione naturale alla restrizione coatta e alla perdita della libertà”

(Lowen 1994)

La rabbia quindi, per Lowen nasce come risultato della restrizione alla nostra spontaneità, restrizione che facciamo per sopravvivere alle minacce che percepiamo provenire dal mondo esterno. La repressione della rabbia è un processo mortificante che indebolisce la pulsazione interna del corpo, la sua vitalità e la sua eccitazione. Se si reprime un sentimento, si reprimono, in qualche misura, anche tutti gli altri. Inoltre la rabbia repressa non scompare, ma va a strutturare dei blocchi muscolari, oppure si va ad incanalare inconsapevolmente in altri nostri distretti mentali e corporei, ponendo le basi anche per lo sviluppo di sintomi psicosomatici. Gli individui che per paura hanno represso la rabbia contro i genitori, per fare un esempio, mostrano una notevole tensione nei muscoli superiori della schiena. Ma questo non significa che la persona sia in contatto con l’impulso rabbioso sottostante, e molto spesso non è consapevole della reale natura della propria “rabbia” di fondo.  Può capitare, infatti, molto facilmente, che esprima questa tensione rabbiosa per uno stimolo di altra natura, o meglio per uno stimolo in cui l’espressione rabbiosa suscita meno conflitto, rispetto alla relazione con il padre, per la quale la persona non si lascia “sentire” l’emozione di rabbia e la reprime, invece. Facciamo un esempio molto banale: non litigo con mio padre ma con il postino che suona troppo forte e che ha l’età di mio padre. In questo caso il litigio con il postino – totalmente inutile ai fini della consapevolezza delle dinamiche autentiche sottostanti alla mia reazione emotiva- permette di scaricare parte della tensione e lo fa attraverso una relazione più neutra in cui emergono meno sensi di colpa se mi posso permettere di lasciarmi andare. Capiamo bene come le negazione, il non ascolto della nostra rabbia e la sua repressione non sono la modalità più funzionale per poterla gestire.Questa posizione non significa certamente andare nel mondo senza filtri rispetto alle proprie pulsioni aggressive. La consapevolezza della rabbia e la capacità di fare contatto con essa sono il primo passo per evitare le esplosioni di rabbia narcisistica, collera e ira. “La capacità di contenere la rabbia è il corrispettivo della capacità di esprimerla efficacemente – dice Lowen – Il controllo cosciente necessario al contenimento è equivalente alla coordinazione e fluidità dell’azione che esprime la rabbia. Perciò una persona non può sviluppare la capacità di controllo se non sviluppa la capacità d’espressione”(Lowen, 1994). La gestione corretta della rabbia, così come di qualsiasi altra emozione deve passare attraverso un percorso in cui la persona impara ad integrare i propri pensieri, ovvero le proprie convinzioni di sé, degli altri e del mondo su determinati eventi o situazioni, con l’emozione che vi si accompagna e i comportamenti che ne potrebbero derivare. Modificare il pensiero, le convinzioni di copione, spesso contaminate dalla storia personale, ci fa vedere come anche la reazione emotiva possa essere modificata, attenuata di intensità oppure addirittura diventare qualcosa di diverso. Spesso le ragioni che attivano una risposta rabbiosa, vengono percepite come istanze imprescindibili per la nostra difesa personale. Ci sentiamo attaccati e, se non siamo consapevoli delle ragioni per cui sentiamo questo sentimento, siamo portati organismicamente a reagire. Il lavoro sulla rabbia richiede quindi alcuni passaggi fondamentali: 1) Ampliare la consapevolezza sulle ragioni che attivano la risposta aggressiva; 2)Sciogliere tensioni e blocchi che mantengono attive le nostre modalità automatiche di risposta, attraverso     il lavoro corporeo; 3)Acquisire consapevolezza dei nostri reali bisogni e farci capaci di esprimerli; 4) Maturare un bagaglio di risposte comportamentali diverse. Quando ci arrabbiamo la tendenza è quella di attaccare chi percepiamo come causa esterna dell’attacco e quindi come causa della nostra reazione emotiva. La prima verità presunta che dobbiamo andare a sfatare è questa. Come ci ricorda Berne, ognuno è responsabile delle proprie emozioni. Non sono gli altri che “ci fanno arrabbiare”, ma siamo noi che “proviamo rabbia” in determinate situazioni o come risposta a determinati stimoli relazionali. Quindi agire di impulso, attaccando l’altro, quando siamo arrabbiati, ci fa dimenticare di prendersi cura della nostra ferita, ci fa disattendere un atteggiamento di ascolto e comprensione verso noi stessi e i bisogni sottostanti a quell’emozione, per sostituirlo con una posizione difensiva. Ricordiamoci che qualsiasi emozione è per noi un segnale, un campanello che cerca di dirci cosa è importante per noi e di cosa avremmo bisogno. In realtà il primo punto è proprio tornare a noi stessi: se la nostra casa brucia, la prima cosa che dobbiamo fare è spegnere l’incendio e solo dopo occuparci di chi ha appiccato l’incendio. La rabbia ci rende bambini feriti e la prima cosa è proprio consolare il nostro “bambino ferito” con quelle parole che solo noi possiamo trovare. Fermiamoci ed entriamo nel nostro incendio e proviamo ad abbracciare noi stessi come faremmo con un bambino ferito. Dopo, anche la nostra posizione rispetto all’interlocutore potrebbe essere diversa. L’idea che sta alla base di ogni percorso di crescita consapevole, è che la causa principale della nostra rabbia non sta tanto in ciò che è avvenuto, ma in come noi diamo significato a ciò che è avvenuto. Come prima si diceva, modificare le convinzioni spesso disfunzionali che si attivano in noi rispetto a determinati eventi può portare ad una modulazione più efficace della reazione emotiva. Non che non ci si debba arrabbiare, ma l’intensità si attenua e, invece di sfogarla in un agito aggressivo, riesco a metter parole e pensieri che pescano nel mio reale bisogno e lo esprimono. Molto spesso il nostro modo di trattare le emozioni, e la rabbia in particolare, è appreso. Ci arrabbiamo come qualcuno di significativo – nostro padre e/o nostra madre – e ripetiamo a ruoli invertiti la situazione vittima/carnefice. Questa identificazione con l’aggressore è una reazione difensiva che quasi inevitabilmente si verifica per proteggerci dalle conseguenze della rabbia altrui. Da bambini non possiamo che difenderci dalla rabbia dei nostri genitori o degli adulti con cui abbiamo a che fare, e lo facciamo lasciando che una parte di noi si identifichi con quella modalità di risposta allo stress e alla frustrazione…

E’ sempre tempo di Coaching!”

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