La recessione è con noi: tre proposte per evitare la catastrofe…

Il Pil del secondo trimestre del 2016 ha segnato crescita zero e lo spettro di un nuovo rallentamento dell’economia italiana ha ricominciato a essere con noi.
Bisogna prendere atto (per primo Matteo Renzi) che tutto quel che è stato fatto non ha funzionato come doveva. Forse i problemi sono altrove e si debbono risolvere diversamente…
Il Pil italiano nel secondo trimestre del 2016 non cresce nemmeno di un decimale, secondo le stime dell’Istat. E per l’ennesima volta si correggono a ribasso le previsioni di crescita della nostra economia. E a poco serve correggere in rialzo il Pil de 2014… per mostrare che la recessione era già finita prima della previsione.
Se pensate che questo voglia dire calma piatta, tuttavia, vi sbagliate di grosso. E per capirlo non serve un Master in economia.
Basta saper guardare un grafico, infatti, per accorgersi che l’aria tira decisamente al ribasso, che il “venticello” della ripresa ha smesso di soffiare. E che dopo qualche trimestre di crescita (…molto lenta e di solo qualche decimale di punto) il rischio concreto è quello di precipitare in una nuova e più profonda recessione.

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Bisogna dirlo subito, senza alcuna reticenza: per l’economia italiana è una prospettiva devastante. Perché non avviene né nel mezzo di una tempesta finanziaria globale, come nel 2008-2009, né in una fase di politiche di tagli e austerità, come nel 2011-2012.
Se mai precipiterà di nuovo in territorio negativo, l’economia italiana, lo farà nonostante gli 80 euro che dovevano rilanciare i consumi, nonostante il Jobs Act che doveva rilanciare l’occupazione e gli investimenti esteri, nonostante lo sblocco dei debiti della pubblica amministrazione che doveva dare ossigeno alle imprese, nonostante il quantitative easing che doveva far ripartire i prezzi e nonostante la benevolenza della commissione europea che ha chiuso un occhio e mezzo (forse pure di più) sul mancato rispetto italiano del fiscal compact e degli impegni presi sulla riduzione del debito pubblico.

Non solo non ci sono scuse, insomma. Non ci dovrebbero nemmeno essere motivi tali da spiegare l’ennesima frenata. Che per la cronaca è, come ormai da prassi, più brusca rispetto a quelle dei nostri partner continentali. Se non la presa di coscienza che la nostra economia ha problemi molto più seri di quelli che immaginavamo. E ha bisogno di cure molto più radicali di quelle che pensavamo.

slide_4Vediamo di suggerirne tre: Investire nel digitale per combattere la disoccupazione giovanile, spostare la spesa pubblica dai vecchi a giovani per tornare a fare figli, portare le piccole imprese in Borsa per ricapitalizzare il sistema produttivo: solo così possiamo davvero ripartire…
Primo, una disoccupazione giovanile incompatibile con lo sviluppo. Non fosse altro per il fatto che i giovani sono quel pezzo di popolazione in possesso di saperi e competenze che potrebbero cambiare i destini delle nostre imprese, facendo far loro – finalmente – un salto nel terzo millennio e nell’economia digitale, recuperando quella maledetta produttività che oggi sembra una chimera. Domanda: invece di incentivi a pioggia e regali assortiti – Confindustria ancora ringrazia per l’abolizione dell’articolo 18 – perché non si è vincolato il sostegno alle imprese a un deciso investimento nell’economia digitale? E perché la banda larga è ancora lì, nel libro dei sogni?
Secondo: una piramide demografica altrettanto insostenibile, con una popolazione che non fa figli e invecchia sempre più. E con la ricchezza che si sposta sempre più nelle tasche di chi è meno giovane. Risultato: stallo dei consumi (i giovani spendono, i vecchi risparmiano) e un sistema di welfare che diventa insostenibile. Ci ripetiamo, anche in questo caso: oggi le pensioni si mangiano il 27,9% della spesa nazionale, mentre il sostegno alle famiglie il 2,3%. Sono il dato più alto e più basso d’Europa, rispettivamente (Grecia esclusa). Delle due, una: o si alza ancora l’età pensionabile, o si decide che i diritti acquisiti non sono più un dogma. In ogni caso, bisogna spostare un bel po’ di risorse dai vecchi ai giovani.
Terzo: c’è bisogno di un new deal finanziario. Secondo una ricerca di Res Pubblica, se la capitalizzazione delle piccole e medie imprese aumentasse del 20%, l’effetto sarebbe pari a 0,6 punti di Pil e gli occupati crescerebbero quasi di 160mila unità.
Questa ricapitalizzazione non può più essere garantita dalle sole banche. Un po’ perché molte di loro navigano in cattive acque. Un po’ perché, pur con lodevoli eccezioni, le sofferenze che hanno in pancia sono la prova della loro incapacità nell’erogare credito soldi a chi se lo merita davvero. c-e-uno-spettro-che-si-aggira-per-l-europa-la-deflazione-620x372
La soluzione si chiama capitale di rischio. Le piccole imprese italiane vanno incentivate in ogni modo ad andare in Borsa a raccogliere capitali.
Missione impossibile? No. In vent’anni, le quotazioni delle imprese in Aim Uk hanno prodotto una raccolta di circa 90 miliardi di sterline, generando una crescita della capitalizzazione da 10 a 50 miliardi, 800mila posti di lavoro e un punto e mezzo di prodotto interno lordo.
Quel che servirebbe a noi, per poter rimettere in moto tutto e ripartire davvero.
Perché non ci si prova?!

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