Paghe da fame, contratti pirata e il fenomeno in espansione dei ‘working poor’ un salario misero che non permette di arrivare a fine mese. Il salario minimo di 9 euro l’ora per molti è un miraggio. Ma, anche se venisse introdotto, senza vigilanza cambierebbe poco. Martina (nome di fantasia) ha 19 anni e pensa all’estate, quando gli esami di maturità saranno finiti dice: «Andrò a Dublino a imparare l’inglese. Non ripeterò l’errore della scorsa estate». Lo scorso giugno era stata assunta con un contratto di apprendistato in un lussuoso albergo di Cesenatico. Sulla carta erano 24 ore settimanali alla reception: «In pratica ero occupata otto ore al giorno per sette giorni la settimana. E nessun riconoscimento per l’extra lavoro». La sua reale paga oraria è stata di due euro l’ora lordi, l’hanno calcolato i sindacalisti della Cgil a cui la giovane si è successivamente rivolta. «Situazioni come questa sono all’ordine del giorno, stagione estiva dopo stagione estiva», raccontano alla Filcams Cgil dell’Emilia-Romagna. Quasi mai viene rispettato il contratto del settore, che prevede un impegno di 38 ore a settimana. Nella realtà la media è di 70 ore a settimana, gli “extra” sono retribuiti fuori busta, a nero. In altri casi, il datore offre contratti pirata e abbiamo stimato che la media retributiva è di 3,5 euro l’ora, per un impegno di dieci ore al giorno, sette giorni su sette. Questo è ciò che offre il settore del turismo in Italia». E non succede solo sulla riviera romagnola. In base ai dati recentemente pubblicati dal “Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia”, istituito dal Ministro del Lavoro Andrea Orlando, nell’industria del turismo il 65,5 per cento di chi lavora in alberghi e ristoranti percepisce una busta paga al di sotto della soglia di povertà, peggio di quanto succede nell’agricoltura, dove i lavoratori poveri sono il 30 per cento, o nelle costruzioni, in cui i worker poor sono il 31,7 per cento. Non sarà forse per colpa di queste buste paga da fame che gli imprenditori del turismo non trovano personale? «Le stesse associazioni datoriali hanno chiesto di sedersi a un tavolo per discutere un nuovo modello di sviluppo, forse si sono rese conto che non è più possibile campare dello sfruttamento della manodopera», Negli scorsi giorni l’accordo sulla direttiva europea per un equo salario minimo è stato accolto dall’opinione pubblica italiana e da una certa politica – M5S in testa – come la soluzione alle ingiustizie del mercato del lavoro. In effetti, in Italia quasi un terzo dei lavoratori dipendenti del privato ha una retribuzione bassa, cioè guadagna meno del sessanta per cento del salario mediano italiano, che si aggira attorno ai mille euro. Si calcola che, per l’Italia, il salario minimo non dovrebbe scendere sotto i nove euro orari, mentre oggi – stima il “Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia” – si trova in questa situazione il 29,7 per cento dei lavoratori dipendenti italiani. Basterà una legge che vieta di pagare un lavoratore meno di nove euro l’ora per risolvere il problema? «No», risponde Michele Raitano, professore di Politica Economica alla Sapienza di Roma e membro del gruppo di lavoro, che argomenta: «Nel dibattito pubblico la povertà lavorativa è spesso collegata a salari insufficienti, quando, in realtà, è il risultato di un processo che va ben oltre il salario e che riguarda soprattutto i tempi di lavoro. Significa che abitualmente si lavora per troppo poche ore, celando forme di part-time involontario, lavoro grigio e sfruttamento», racconta l’economista, che aggiunge: «Il merito del salario minimo è aver acceso un dibattito sulla povertà degli stipendi». Il governo, anche alla luce della direttiva europea e delle evidenze emerse dalla commissione istituita da Orlando, nei prossimi giorni sarà chiamato a decidere se istituire un salario minimo o puntare su altre soluzioni, per esempio puntellare la contrattazione collettiva nazionale con una legge sulla rappresentanza sindacale per ridare dignità al lavoro. Se si scegliesse di risolvere il problema semplicemente istituendo il salario minimo, così come chiede l’ex ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo, l’effetto potrebbe essere controproducente: «Per com’è strutturato il mercato del lavoro, rischiamo di ritrovarci con un’esplosione del finto lavoro autonomo, così da aggirare la normativa», fa notare Raitano. Mentre non c’è evidenza che l’istituzione del salario possa indurre a un indebolimento dei salari più elevati: «Nei Paesi in cui è già stato istituito il reddito minimo non si è verificata alcuna contrazione degli stipendi medio alti o regolamentati da un contratto collettivo», spiega Raitano. I dati dell’osservatorio, oltre a raccontare la stretta correlazione fra povertà lavorativa e basso numero di ore lavorate, dicono che esistono settori in cui c’è maggior rischio, come l’alberghiero e la ristorazione, «sui quali sarebbe utile insistere con maggiori controlli mirati», dice Elena Granaglia, docente di Scienza delle Finanze all’università di Roma Tre e membro del Forum disuguaglianze e diversità, che aggiunge: «Eppure il salario minimo potrebbe essere un buon punto di partenza. Ad esempio, con adeguati controlli, retribuzioni quali quelle di Martina a Cesenatico, dei tanti lavoratori con contratto multiservizi o con contratti pirata non potrebbero più essere erogate, con effetti positivi anche nel tempo. Perché il problema dei bassi salari non è un fenomeno relativo all’ingresso nel mondo del lavoro, ma persiste negli anni e ha effetti negativi sulla vita lavorativa e delle pensioni». Come fa notare un ispettore del lavoro a L’Espresso: «L’istituzione del salario minimo consente agli ispettori che evidenziano situazioni di lavoro grigio o nero di agire più facilmente per far ottenere al lavoratore quanto gli spetta. E gli stessi giudici avranno un parametro cui attenersi. Servirà anche per circoscrivere situazioni riconducibili al caporalato». Però, da solo, il salario minimo non è sufficiente per risolvere tutti i problemi del lavoro che in gran parte derivano dalla scarsa produttività delle imprese. «Oltre al reddito minimo servono una politica industriale, una governance democratica delle imprese, un investimento profondo nell’istruzione dei giovani», spiega Granaglia, che lancia anche un’idea più radicale: «Resta aperto il problema dell’iniquità delle distribuzioni dei redditi da lavoro. Andrebbe preso in considerazione il pensiero del filosofo belga Philippe Van Parijs, secondo cui sarebbe giusto assegnare a tutti, lavoratori e no, ricchi e poveri, un reddito di base, partendo dal presupposto che spesso il valore aggiunto assegnato a un singolo lavoratore deriva da risorse comuni, ereditate e prodotte dalla cooperazione sociale, rispetto alle quali tutti abbiamo un titolo valido». La direttiva europea non impone di istituire un salario minimo, piuttosto invita a promuovere retribuzioni adeguate all’interno dell’Unione Europea per ridurre il fenomeno del lavoro povero, cresciuto a dismisura negli ultimi vent’anni, soprattutto in Italia, dove si è passati da 9,4 lavoratori coinvolti su cento nel 2006 a 12,3 dipendenti. Per arginare le disuguaglianze salariali e tutelare le imprese dalla concorrenza sleale derivante dai bassi salari, secondo Bruxelles bisogna anche colmare i divari di genere, migliorare l’equità del mercato del lavoro e aumentare la produttività, grazie all’investimento sulle persone. Fonti vicine al ministero del Lavoro raccontano che il ministro Orlando intende tralasciare l’entità economica del salario minimo, ovvero evitare di istituire il confine dei nove euro, ma affermare che non sarà possibile stipulare contratti al di sotto del minimo salariale previsto dagli accordi di categoria stipulati tra le parti sociali, ovvero i sindacati e i datori di lavoro. Questo vorrebbe dire ributtare la palla in calcio d’angolo, perché in Italia resta aperta la questione su quali siano i sindacati e le associazioni d’impresa più rappresentativi e quindi i contratti di riferimento. Infatti, l’indisponibilità di alcune sigle sindacali e datoriali di contarsi, e quindi di mettere nero su bianco quanto siano effettivamente forti al tavolo contrattuale, impedisce di arrivare a una soluzione della questione. Il risultato è che in Italia il mercato del lavoro è regolamentato da oltre mille contratti, di cui è pur vero che solo trecento vengono applicati, ma nulla impedisce la nascita di sindacati gialli o di contrattazioni improprie. L’esempio più eclatante è l’accordo che Ugl ha firmato con le piattaforme del delivery food, praticamente ratificando il fatto che i rider dovrebbero essere dei lavoratori autonomi. Un accordo che Cgil, Cisl e Uil stanno tentando di smontare anche per via legale, essendo stato firmato da attori parzialmente rappresentativi del settore. Anche se si riuscisse nell’intento, l’assenza di una normativa sulla rappresentanza sindacale presupporrebbe che altri contratti pirata possano essere replicati in altri settori. Fra le indicazioni dell’Osservatorio sul lavoro povero istituito da Orlando una delle soluzioni di facile e veloce applicazione è la vigilanza documentale: «Oltre alla fissazione di un minimo salariale per via contrattuale o legale, è essenziale che questo minimo sia rispettato», racconta Raitano, che illustra l’innovativa proposta dell’Osservatorio: «Al di là della fondamentale attività ispettiva, è cruciale potenziare l’azione di vigilanza documentale, cioè basata sui dati che imprese e lavoratori comunicano alle amministrazioni pubbliche, in particolare all’Inps, costruendo indici di rischio a livello di impresa o settore per permettere un confronto sulle anomalie riscontrate e, in caso di persistenza nel tempo, studiare strategie di intervento interagendo con le imprese oppure guidando la vigilanza ispettiva». Arricchendo le banche dati disponibili il sistema indicherà in automatico le aree di maggiore fragilità e abuso su cui concentrare l’attività ispettiva…
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