Lavoro: la questione salariale in Italia, un confronto con le cinque principali economie europee…

La Confederazione Generale Italiana dei Lavoratori ha pubblicato (a fine novembre 2020) un report elaborato dalla Fondazione Di Vittorio, riguardante la questione salariale in Italia, con cui sono stati messi a confronto i salari dei lavoratori dipendenti italiani con quelli delle cinque maggiori economie dell’eurozona tra cui Belgio, Francia, Germania, Paesi Bassi e Spagna.

Tabella. Salario lordo annuale medio per un lavoratore dipendente equivalente a tempo pieno a prezzi costanti in euro (2019) nelle sei maggiori economie dell’Eurozona negli anni 2000, 2007 e 2019
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Belgio                                                                                                   43.414        44.730          47.244
Francia                                                                                                 32.200       35.026          39.099
Germania                                                                                              35.835        36.490          42.421
Italia                                                                                                      29.124        30.172           30.028
Paesi Bassi                                                                                          43.997        46.403           48.359
Spagna                                                                                                 26.884        26.676           27.468
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Fonte: elaborazione FDV su dati OCSE

Questo confronto tra le sei maggiori economie dell’Eurozona ci permette di mettere in evidenza tre dinamiche salariali differenti: (i) Paesi Bassi e Belgio, in presenza di salari medi più alti, registrano comunque una crescita; (ii) Germania e Francia, con salari medi che si collocano ad un livello intermedio tra i sei Paesi, registrano l’incremento salariale più alto; (iii) Italia e Spagna, con i salari medi più bassi, si caratterizzano entrambe per una stagnazione di lungo periodo. Inoltre, nella comparazione tra l’Italia e la Germania – presa come riferimento in quanto maggiore economia dell’Eurozona – possiamo vedere come i salari, dopo un decennio di sostanziale stagnazione (2000-2009), abbiano avuto dinamiche divergenti, pur in presenza di tassi di inflazione ai minimi storici. Infatti, nel successivo periodo (2010-2019), i salari tedeschi crescono di +5.430 euro (pari a un +14,7%) mentre quelli italiani diminuiscono di – 596 euro (pari a un -1,9%). Inoltre, l’Italia è l’unico tra i sei Paesi dell’Eurozona che non ha ancora recuperato il livello salariale precrisi (2007) e che ha avuto complessivamente le oscillazioni più contenute.

Sulla base delle statistiche OCSE, nel 2019, i salari medi italiani, sono pari a circa 30 mila euro lordi annui, in lieve crescita rispetto al 2000, ma addirittura in diminuzione rispetto al 2007. Il divario rispetto agli altri paesi non solo è molto ampio, ma si è andato ancora allargando tra il 2007 e il 2019, sia in cifra totale che come dinamica. I salari annui tedeschi sono infatti cresciuti in modo consistente negli anni più recenti (42.421 euro nel 2019), così come in Francia (39.099 euro) e nelle altre realtà prese in esame; simile a quello italiano si presenta invece il caso della Spagna. Questo divario non si riduce neanche nelle retribuzioni nette relative ad alcune tipologie familiari considerate dall’OCSE. La pressione fiscale sui salari e il cuneo fiscale sul costo del lavoro non producono alcun riequilibrio per l’Italia. Questa diversità negativa per i salari dei lavoratori del nostro paese non è attribuibile all’orario di lavoro che risulta fra i più alti di quelli presi in esame.

E’ invece identificabile in altri fattori della ricerca:

• Nella composizione del nostro mercato del lavoro, con un addensamento dell’occupazione nelle qualifiche medio-basse più elevato rispetto alla media dell’eurozona, in progressivo peggioramento negli ultimi anni.

• Nei casi di precarietà (il tempo determinato con discontinuità è molto aumentato) e in relazione all’utilizzo di un part time involontario che in Italia, a parità di lavoro prestato, risente di una penalizzazione salariale rispetto alla media dell’eurozona (70,1% Italia/83,6% eurozona) che spiega una parte importante dell’involontarietà.

• Nel 2018, nel caso più svantaggiato (tempo determinato, part time con discontinuità) che riguarda circa 1 milione e 700mila lavoratori, il salario effettivo è più basso dei 6mila euro annui (5.641 euro). Complessivamente, oltre 5 milioni di lavoratori arrivano solo a 10mila euro annui. Anche i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze (anno imposta 2018) confermano questa tendenza, rilevando come 15,6 milioni di persone (79,7% del totale) abbiano dichiarato solo fino a 29mila euro di reddito da lavoro dipendente e da fabbricato, cioè meno del salario lordo medio annuale.

Un insieme di elementi che spiegano come il divario negativo italiano su sviluppo e produttività non è riconducibile né a quantità di ore lavorate né alle retribuzioni. Il problema risiede soprattutto in scelte di anni volte a recuperare competitività di costo attraverso moderazione salariale, che producono bassa crescita, ristagno della base produttiva e dell’occupazione. Politiche di governi e parte delle imprese che hanno disincentivato investimenti, determinato scarsa innovazione e inciso negativamente sulla domanda aggregata tramite minori consumi. Nei fatti, la scarsa crescita delle retribuzioni di questi anni, è stata uno degli effetti ma anche causa, della stagnazione italiana.

Nel 2020 la pandemia e le conseguenti ricadute produttive ed occupazionali peggioreranno molto probabilmente questo quadro. Nonostante due fondamentali fattori di tutela, dell’occupazione e del salario, che devono essere confermati ed estesi, come il blocco dei licenziamenti e gli ammortizzatori sociali, il dato dell’occupazione peggiorerà, così come la media retributiva. Un riequilibrio dei salari italiani è dunque necessario, non solo come risposta concreta ai problemi delle persone ma come elemento essenziale della competitività futura del Paese. Può essere affrontato in più modi: un intervento sulla quantità ma anche sulla qualità dell’occupazione che arresti il continuo incremento del lavoro povero; una nuova fase della contrattazione che rinnovi CCNL da troppo tempo bloccati, una riforma fiscale che recuperi risorse vero le retribuzioni. Occorrerà agire su tutte queste leve se si vuole dare fiducia nel futuro, elemento essenziale dello sviluppo, collegandole all’utilizzo degli investimenti con l’accesso ai fondi europei, alla trasformazione del nostro modello produttivo e alle necessarie risorse per far ripartire i consumi.

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