Lega: Salvini ormai fa paura solo alla Lega, sulle comunali i sondaggi sono disastrosi…

“Se continuiamo così andiamo contro un muro”. La base leghista comincia a temere il tracollo. E si domanda: “Dove stiamo andando? Se continua così, inevitabilmente contro un muro. Tra un mese ci sono le comunali e Salvini lo stanno avvertendo in tanti, ma lui non riesce a frenare. Ha troppe cambiali politiche con i vari Siri e Durigon per svincolarsi dalla visione “talebana” che un’ala del partito propugna”. A pronosticare un brusco impatto è un leghista del Nord, un uomo dei territori che ha conosciuto tutte le segreterie da Bossi in poi. Ma a temere che le comunali del 3 ottobre si rivelino un bagno di sangue, cominciano ad essere in parecchi. I numeri che si ottengono incrociando diverse fonti del centrodestra impegnate in prima linea nella campagna elettorale delle grandi città, sulla base delle rilevazioni periodiche interne ai partiti, sono allarmanti: intorno all’8% a Milano, al 6,5% a Bologna, al 6% a Roma. Ma da via Bellerio fanno sapere che non esistono sondaggi interni e che non hanno percezione di un calo così consistente. Che colpirebbe molto la Capitale dove le liste di FdI, nonostante un candidato sindaco non brillantissimo, veleggiano intorno al 20%. Il triplo degli alleati-rivali: vuoi perché, come rimproverano a Salvini centristi e forzisti, nelle liste c’è troppa destra estrema; vuoi perché, come sorridono i meloniani, senza crescere una classe dirigente lo “sbarco al Sud” resta un miraggio. Ma se finisse davvero così, non sarebbe facile neppure per il Capitano evitare quel congresso che per ora non è all’ordine del giorno e che si punta a svolgere dopo le elezioni politiche. Fatto sta che il gioco – sul filo del rasoio – tra partito di lotta (che ammicca alla schiera degli insofferenti agli obblighi e compete con la Meloni) e di governo (che rassicura Draghi per interposta squadra di ministri) si sta rompendo. Proprio sul green pass, che a giorni alterni passa da strumento di coercizione e discriminazione a mezzo per ottenere libertà, riaperture, ripresa economica, etc. L’ultima giravolta, quella di ritirare gli emendamenti sulla carta verde per poi votare in segreto quelli dell’opposizione meloniana, ha fatto deflagrare le distanze.  Da un lato, c’è il mondo produttivo del Nord Est, gli industriali e gli artigiani del Veneto dove la pandemia ha ridotto il Pil del 9%, ma anche Confindustria che insiste sul green pass nelle fabbriche e nelle aziende anche per riportare la produzione ai livelli precedenti. Il “Giornale” berlusconiano ha messo in fila i mugugni degli esponenti locali veneti, tutti Zaia-boys Già: perché ad essere irritati per gli stop and go sul green pass sono prima di tutti i governatori: Zaia (che per primo ad agosto bloccò i tamponi gratuiti per evitare disincentivi a vaccinarsi), Fontana, ma anche i “fedelissimi” Fedriga e Fugatti, fino al ligure Toti, che leghista non è ma uomo di cerniera e ha sempre esortato Salvini a “togliersi la maglietta della Lega” in ottica federativa. Gente tutti i giorni in trincea contro il virus che non tollera rallentamenti di nessun genere. Ma lo spaesamento è approdato anche in Parlamento, dove la tensione per i rapporti altalenanti con il governo e per la campagna elettorale si accumula. E diventa difficile distinguere le verità dai sospetti. C’è chi dice che nel gruppo alla Camera al momento del voto, ci si era già orientati per l’astensione con presentazione di ordini del giorno, per non esagerare né dividersi tra governisti e ultrà, ma il punto di caduta non ha retto alla prova dei fatti. C’è chi maligna che una trentina di deputati si siano smarcati dall’abbraccio con FdI, ma Claudio Borghi derubrica il tutto ad “alcune assenze come negli altri partiti”. C’è chi estende il malumore ai parlamentari politicamente nati con la vecchia Lega Nord, e chi addirittura ascrive ai “leali ma preoccupati” il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari. Meloni e Salvini? Sono due “Professorini” che sparano contro gli imprenditori. I due vanno contro quelle categorie che vogliono rappresentare. Lo vogliamo dire con estrema chiarezza? La battaglia contro il green pass della coppia sovran-populista Meloni e Salvini è una vera e propria dichiarazione di guerra non contro il governo, ma contro quelle stesse categorie che loro pretendono di rappresentare. E qui un elenco in stile salviniano ci sta davvero bene: la loro battaglia contro il green pass è in realtà una guerra aperta contro i commercianti, i ristoratori, i baristi, gli operatori turistici, i piccoli e i grandi imprenditori, gli operatori culturali e via dicendo. Tutti gli indicatori statistici lo confermano: il green pass è stato ed è uno degli strumenti che sta consentendo all’economia di ripartire. Sia per ragioni sanitarie sia per ragioni psicologiche. D’altra parte, è evidente, e non è necessario essere scienziati per capirlo: più siamo i vaccinati e meno la malattia è pericolosa; più abbiamo quel documento e più tutti ci sentiamo sicuri. È una questione di tutela personale ma anche e soprattutto della comunità in cui viviamo. Tutto il resto sono discussioni futili. E allora davvero non si capisce perché mai il duo Salvini-Meloni debba sparare a zero contro quelli che loro stessi pretendono di voler rappresentare. L’unica spiegazione plausibile è la follia politica di chi ha l’ardire di cavalcare sia la paura sia la speranza. Ma rincorrere la pazzia fobica dei no vax significa sparare a zero contro quell’Italia produttiva che vuole ripartire proprio grazie al green pass. E non è un caso, pensateci, se la destra populista finisce per avere lo stesso atteggiamento di professorini che disquisiscono in punta di diritto e di filosofia di libertà individuali, senza soffermarsi sulla forza vitale di chi vuole ricominciare a produrre, vendere, viaggiare. A vivere. Salvini sa di essere a un turning point. Non gli si può rimproverare di risparmiarsi: d’estate non ha fatto un giorno di vacanza, girando l’Italia come una trottola (costringendo anche la fidanzata a un tour elettorale in Calabria) tra sostegno ai candidati e gazebo del referendum sulla giustizia. Non riesce a decidersi tra le diverse sirene che gli sussurrano nell’orecchio: i referenti delle piccole imprese e degli autonomi che rappresentano le radici storiche del partito o gli “homines novi” che hanno allargato il bacino di voti flirtando con la destra sociale e con i No Vax. Paradossalmente, a impedire che la maionese impazzisca e a compattare il partito, è l’offensiva anti-salviniana del Pd: “C’è una parte di maggioranza che vuole strappare a ogni piè sospinto – attacca il senatore Stefano Candiani – Volevano persino calendarizzare il ddl Zan in piena campagna per le comunali. Bisogna abbassare i toni e dare risposte sensate, non dogmi. Il governo Draghi è necessario per uscire dalla pandemia, ma dico no ad atti di fede: qui se si fa una critica si finisce tra gli eretici…”. La data cruciale sarà il 18 ottobre sera, a ballottaggi chiusi: quando ogni partito farà i conti con la propria identità in era draghiana e con i rapporti di forza all’interno della propria coalizione. Anche se per la Lega vale una postilla: non basterebbe una leadership ammaccata a rendere scalabile un partito, servirebbe un frontman alternativo. E per il momento non c’è.

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