Life 1): con il populismo è più facile immaginare la fine del Mondo che la fine del Capitalismo…

“…ci confrontiamo con l’incapacità di produrre ricordi nuovi: eccola, la formulazione essenziale dell’impasse postmoderna”.

(Franklin M. Fisher)*

Nell’attività di Coach, mi è capitato negli ultimi 10 anni, di dovermi confrontare sempre più spesso con persone (allievi) che avevano una percezione della realtà alquanto soggettiva… Ciò rendeva loro particolarmente difficoltoso individuare strade e obiettivi di un processo base di coaching, per la loro crescita personale nella vita, nel lavoro e nelle relazioni in generale.  E rendeva alquanto difficoltoso anche il mio compito di Mental Coach in quanto il mio ausilio alla costruzione di una loro road map che rendesse credibili nella realtà i loro “sogni” trasformandoli in obiettivi da raggiungere per realizzarsi, risultava spesso incerto. D’altronde il contesto in cui viviamo di questi tempi è noto per la sua complessità: è un tempo caratterizzato dal populismo in molti ambiti della nostra quotidianità, rendendo così la nostra esistenza più faticosa nel districarsi dalla generale ‘confusione’ del presente e dalla mancanza di chiare prospettive nel futuro. Oggi sembra «più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo».  Davvero è così? Davvero non c’è alternativa? F. Mark Fisher, nel suo “Realismo capitalista”, ci ragiona sopra e ci dà qualche indicazione utile. A muoverci.  Sul che fare? Quali strumenti utilizzare? L’esplosione del fenomeno populista, che tanto influisce oggi sulla nostra stessa personalità è perfettamente spiegata dalla psicologia cognitiva, unita all’arrivo di internet. Credo che praticamente tutti ci siamo trovati nella necessità di ricostruire un percorso che vede all’interno di uno stesso contesto Bias cognitivi*** e Social Media, narrazioni e psicologia cognitiva, populismi e politica. E che sfociano in questo scenario atipico difficile da comprendere per molti, in cui le istanze populiste sono sia causa del problema, sia l’effetto dello stesso, sulla base proprio della personalità dei singoli individui. Provo a spiegarmi meglio con qualche esempio. Se provate a chiedere a un lavoratore quanto profitto dovrebbe fare l’azienda per cui lavora, probabilmente non vi stupireste troppo se quello rispondesse: “I ricavi? Devono essere distribuiti ai lavoratori e alle loro famiglie. Va bene anche se il profitto dell’azienda è zero”. Idea interessante, anche se non proprio nuova. Però, sarebbe anche il racconto del mondo ideale che l’onesto lavoratore raffigura per sé. Che coincidenza! Se, dopo aver parlato con l’operaio, prendeste l’ascensore per andare ai piani alti a parlare con l’Amministratore Delegato della medesima azienda, potreste chiedergli: “Esimio dottore, quale carico fiscale è quello corretto per un’azienda come la sua?”. Non vi stupireste troppo se quello rispondesse qualcosa del tipo: “Il carico fiscale deve essere ridotto al minimo, magari una flat-tax al 15%, o anche meno. Perché deve sapere, caro signore, che esiste la ‘trickle-down economy’, l’effetto trickle-down, o “teoria della goccia” che spiega che se lasciamo che i ricchi facciano i soldi, poi quelli spendono e spandono e nel far questo arricchiscono l’intera società!”. Che storia meravigliosa anche questa! E che coincidenza! Un’altra “narrazione” che casca a pennello per l’esistenza di chi l’ha appena raccontata. E sia chiaro che non stiamo parlando di eccezioni. Come scrive Luca Passani  – informatico Italiano che vive in Virginia, vicino a Washington DC, fin dal 2011 e dove lavora come Chief Technology Officer presso ScientiaMobile, Inc. – «Ogni uomo inventa storie. In ogni momento. Grandi e piccole. Senza farci caso. Magari solo per il gusto di non trovarsi in scacco con l’accusa di essere incoerente con qualcosa detto prima, o per non apparire preda di sentimenti poco edificanti come l’invidia o l’avarizia. Oppure, per giustificare con sé stesso e con gli altri il proprio comportamento e ruolo nella società». La mente umana funziona così. In psicologia cognitiva (e in psicologia generale), questa è chiamata “the narrative” (la narrazione). A scanso di equivoci, va subito detto che non c’è nulla di male nella narrazione. La narrazione è un meccanismo potente e, soprattutto, è utile. Serve a noi come individui per dare un senso alla nostra vita. Ma serve anche a noi come società per permetterci di funzionare bene insieme quando facciamo squadra. Yuval Noah Harari –  storico, saggista e professore universitario israeliano –  ha scritto, provate a proporre ad una scimmia: «Cara scimmia, se sacrificherai la tua vita per la mia causa, io ti prometto la vita eterna dopo la morte in un posto dove avrai tutte le banane che vuoi!» Orbene difficilmente la nostra perorazione otterrà l’effetto sperato. Invece, quando si tratta di uomini, la narrazione funziona alla grande. Oltre a guerre di ogni tipo, la promessa della vita eterna ha permesso la costruzione di piramidi, cattedrali e un gran flusso di soldi e ricchezze a dei tizi o tizie vestiti di tutto punto elegantemente o in modo buffo secondo le loro latitudini. Riassumendo, ognuno di noi costantemente inventa storie, grandi e piccole, per dare un senso al mondo che lo circonda e alla propria vita. In alcuni casi la narrazione riflette la realtà, ma (sempre) più spesso la narrazione distorce la realtà ad uso e consumo del suo narratore. La narrazione ha bisogno di cura e nutrimento per crescere forte e rigogliosa. E uno degli alimenti principali è l’inclinazione naturale che porta ognuno di noi a cercare fatti, notizie e dati che corroborano le nostre idee esistenti, ignorando con naturalezza fatti e numeri che contrastano con quello che ci piace credere. Nella società moderna, giornali, siti e televisioni fondano i loro business sul rafforzamento delle inclinazioni dei loro lettori. Ad esempio, il lettore di Libero troverà in prima pagina la notizia sui migranti clandestini che arrivano per una sostituzione etnica. Mentre Il Manifesto darà risalto ai poveri immigrati che, armatisi di scopa e paletta, hanno pulito il centro di Bari alla “facciaccia” dell’ignavia degli italiani. Sommando Narrazione e Bias confermativi, ho compreso quanto inutili siano spesso, l’infinità di discussioni in cui tutti ci troviamo ingarbugliati in famiglia, al lavoro, al bar così come su Facebook. Cos’è una tipica discussione tra gente comune se non il confronto tra narrazioni diverse e il tentativo, assai spesso futile, di trovare incoerenze nella storia l’uno dell’altro? Gino: “Gli immigrati sono tutta brava gente che contribuisce al paese. Fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare. Ecco il link!” Pino: “Non è vero. Qui è tutta gente senza arte né parte che arriva per delinquere. Guardati questo di link!” Il bias da conferma porta la gente a vedere la realtà che vogliono vedere, con l’aggravante che ognuno pensa di aver fatto ricerche come se fosse uno scienziato. Sommando Narrazione e Bias da Conferma, molti arrivano a risultati impressionanti: una fede incrollabile in idee balorde. Una volta fatta propria un’idea di partenza che ci soddisfa, ecco che tramite la ricerca costante di conferme si può arrivare a granitiche certezze. Che poi queste certezze siano coerenti con la realtà, quello è un discorso totalmente separato. A questo punto, credo che siate in grado di comprenderete bene come proporre un percorso di coaching ad un allievo che vi contatta per farsi aiutare nel suo cammino di crescita personale, spesso non sia semplice, proprio per la soggettività con cui la realtà viene oggi percepita e vissuta da molte persone… Ma ciò e l’onere che spetta a qualsiasi Mental Coach. Orbene: fenomeni di esaltazione individuali e collettive ci sono sempre stati nella storia dell’umanità. Personalmente, sono arrivato alla conclusione che religioni e ideologie non siano altro che narrazioni collettive a cui una comunità aderisce. Ma, mentre nei vecchi tempi le cose si muovevano più lentamente, l’arrivo dei mass media prima e ultimamente di internet hanno funzionato da catalizzatori, rendendo i processi cognitivi che portano alla narrazione, anche quelli sballati, estremamente più rapidi. Fino a poco tempo fa, un mattacchione che partorisse un’idea bislacca non aveva che da andare fino al bar sotto casa per sentirsi etichettato come “diversamente intelligente”. Con il web, le cose sono cambiate. Sui social quel mattacchione ha molte più possibilità di incontrare altri mattacchioni che la pensano come lui, seminando e nutrendo le rispettive narrazioni. Alla luce di tutto questo mi pare spiegato credo sufficientemente l’avvento di movimenti quali anti-vax, credenti nelle scie chimiche, veganisti, neonazisti e neofascisti, partiti politici con programmi improvvisati, insignificanti e non attuabili, seguaci di tycoons che raccontano favole di un’America sfruttata dagli altri paesi e, ahinoi, gente che crede che il loro Dio gli abbia detto di convertire il resto del mondo all’Islam più medievale che si possa concepire… e in questa babele anche avere “sogni di vita” irrealizzabili perché basati sulla mancanza di ogni realtà per quanto reale sembri. Già, come Life Coach, ho dovuto rendermi conto di quello che spesso rende difficile aiutare qualcuno a dipanare la strada per la realizzazione dei suoi “sogni di vita”. Io stesso, più volte ho frainteso quale sia la differenza tra realtà e reale, che come molti, sempre più spesso vedo considerati come sinonimi. E’ invece stato importante professionalmente, ma anche per la vita mia e quella di altri, provare a definire questa differenza per comprenderne il significato. Mi sono aiutato in particolare con uno scritto di Gian Luca Bianco. Lui si presenta così: «Sono regista, un’etichetta che vuol dire tutto e nulla, mi piace pensarmi essere umano di passaggio sulla terra insieme ad altri 7 miliardi 380 milioni di persone. Mi appassionano le storie. Mi piace raccontarle attraverso le immagini, la musica, le parole, i suoni, il silenzio». Ha scritto: “Comprendere la differenza tra «realtà» e «reale» salverà noi e il nostro pianeta”. E spiega come, la realtà è la realtà concreta della cui esistenza nessuno può dubitare. “La realtà di una forchetta sul tavolo in cucina o di una forte nevicata sopra i tetti sono fatti in sé, accadono di fronte a me, non sono proiezioni della mia coscienza o del mio inconscio. La realtà, di fatto, ha due caratteristiche, la prima: è indipendente dalla mia volontà; la seconda è permanente e mi coinvolge. Se mi guardo allo specchio non mi stupisco di vedermi, anche se l’immagine che ho di me, spesso non coincide con l’immagine riflessa allo specchio e nonostante ciò mi riconosco. Ugualmente se guardo la forchetta sul tavolo non dubito che sia una forchetta, che possa essere utilizzata per portare del cibo alla bocca”. D’altronde noi frequentiamo la nostra vita quotidiana in maniera abitudinaria, direi meccanica, così come mi vedo allo specchio e vedo la forchetta sulla tavola. Siamo quindi certi che la realtà risponda ad un certo ordine: io sono io. La forchetta è la forchetta. La neve è la neve. Noi abbiamo fiducia in quel che vediamo e siamo certi che oggi c’è, pertanto ci sarà anche domani. Questa è la nostra routine della realtà. E il reale? Allora, quando incontriamo il reale? Tempo fa, ho fatto personalmente un percorso con una psicologa e con questa terapista avevamo individuato nei brutti sogni che di tanto in tanto facevo, dei segnali importanti da non sottovalutare e quindi da tenere in considerazione. Vi è mai capitato di svegliarvi di soprassalto per un incubo e non riuscire a riaddormentavi? Questa condizione ci avvicina al limite evidenziandoci la verità, per questa ragione la prendiamo in considerazione molto attentamente, ne restiamo quasi scioccati. Scrive ancora Bianco: “Di fatto l’incontro con il reale è sempre un incontro con un limite, è sempre un cazzotto in faccia o nello stomaco che ci risveglia dal sonno in cui siamo piombati”. Vale l’esempio del Covid-19: #nonandràtuttobene, i numeri  della seconda ondata.  Ecco,  l’apparizione improvvisa di qualcosa che si pensava in parte superata e di poterla comunque controllare, non è stato così e la minaccia della malattia imminente, e/o della perdita del lavoro che mette in pericolo la nostra vita e quella della nostra famiglia, o addirittura la rottura traumatica di una relazione di vita per la morte di una compagna/o, sono segnali evidenti e reali, ma per fortuna non parliamo solo di accadimenti negativi, perché anche un nuovo amore o la nascita di un figlio o un’esperienza vissuta intensamente o l’incontro con un opera d’arte, con una scoperta scientifica, tutto ciò che ci risveglia dal sonno della realtà, è reale. Il reale è ciò da cui non si può fuggire, non ci si può nascondere, che all’improvviso spezza il sonno della normalità della realtà. E istantaneamente tutto viere rimesso in discussione: sono io allo specchio, quella forchetta è solo una forchetta, che cosa è la neve sul tetto?” E se per chiarezza provassimo a dare una definizione del reale in poche parole? Ci aiuta Massimo Recalcati: “…potremmo dire che non coincide mai con la realtà ma è ciò che la scompagina”. Vengo alle ragioni di questo lungo post che dividerò in più puntate sul blog. Da anni ci interroghiamo e tentiamo di sensibilizzarci e di sensibilizzare le persone che ci circondano al tema dei cambiamenti climatici, tema che non riesce quasi mai sfondare la barriera della quotidiana routine della realtà. Il Professor Walter Ricciardi (diventato per via del Covid-19 ormai noto a tutti noi – dato il suo ruolo di consulente del Ministro della Salute in questa disastrosa pandemia); sottolinea il professore, come il mondo scientifico è compatto nel sostenere che gli effetti sulla salute diretti ed indiretti attesi nel futuro saranno tra i più rilevanti problemi sanitari da affrontare nei prossimi decenni: “La certezza che oggi abbiamo conseguito sul fatto che il degrado ambientale e i fattori climatici siano correlati all’aumento dei rischi per la salute, deve diventare per noi assunzione di responsabilità a creare una rete globale per vigilare sugli scenari futuri e promuovere una prevenzione che parta da ognuno di noi trasformandosi in uno sforzo corale. Ogni Paese deve fare la sua parte. Abbiamo due generazioni ovvero 20 anni per salvare il pianeta dai cambiamenti climatici e dagli effetti devastanti che questi avranno sulla salute dell’uomo e dei territori, poi potrebbe essere troppo tardi”. Che dire di tutto questo, oggi, di fronte al Covid-19 che ci sta cambiando ulteriormente l’esistenza? Senza spaventarci perché non funzionerebbe per ciò che serve a tutti noi, dobbiamo invece sperare di essere arrivati al momento di un grande “colpo di reni” per provare a superare l’empasse di una realtà che ormai attanaglia la vita di molti di noi, in troppi se non addirittura in tutti i paesi del pianeta, che spesso sono governati tra l’altro da personalità poco inclini al cambiamento e sempre più spesso sono incapaci di accettare l’evidenza dei fatti. Cominciamo a prendere in considerazione la possibilità di vivere in un modo più consono al nostro pianeta e a noi stessi, rompendo qualche piccola abitudine, i danni sono ormai così evidenti la realtà così palese, che se oggi, decidessimo di chiudere gli occhi e tornare a dormire, non è detto che avremo altre occasioni di venire a contatto con il reale e questo sarebbe una grande sconfitta proprio dell’umanità…

“Il reale è ciò che resiste al potere dell’interpretazione. Il reale non coincide con la realtà poiché la realtà tende a essere il velo che ricopre l’asperità scabrosa – «inemendabile» – del reale”.

(Jacques Lacan)**

Una narrazione è solo una storia e può nascere (o essere fatta nascere) in qualsiasi momento nella mente di chiunque, come una scintilla che può generarsi per mille motivi. Una scintilla in un bosco innevato del Nord Europa si esaurirà immediatamente. La stessa scintilla tra la boscaglia arida durante un’estate italiana può scatenare incendi che anche i Canadair avranno difficoltà a domare. Il combustibile che fa deflagrare le narrazioni è sempre stata la disponibilità delle persone a farla propria. Se una narrazione trova sponda nei desideri, nelle paure, nelle invidie o nelle necessità di alcuni, quelli finiscono per farla propria e rafforzarla utilizzando il bias da conferma e altri bias cognitivi a cui accennerò più avanti. La storia è piena di esempi in questo senso…

(continua)

E’ sempre tempo di Coaching!

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*Economista americano. Ha insegnato economia al Massachusetts Institute of Technology dal 1960 al 2004.

**E’ stato uno psicoanalista, psichiatra e filosofo francese ( nato 13 aprile 1901, morto 9 settembre 1981, Parigi Francia).

***Bias: Come nutriamo la nostra narrazione? Con il bias cognitivo (pron. ‘baiəs) è un pattern (modello, schema, configurazione o sfondo) sistematico di deviazione dalla norma o dalla razionalità nel giudizio. In psicologia indica una tendenza a creare la propria realtà soggettiva, non necessariamente corrispondente all’evidenza, sviluppata sulla base dell’interpretazione delle informazioni in possesso, anche se non logicamente o semanticamente connesse tra loro, che porta dunque a un errore di valutazione o a mancanza di oggettività di giudizio. Un bias cognitivo è uno schema di deviazione del giudizio che si verifica in presenza di certi presupposti. I bias cognitivi sono forme di comportamento mentale evoluto. Alcuni rappresentano forme di adattamento, in quanto portano ad azioni più efficaci in determinati contesti, o permettono di prendere decisioni più velocemente quando maggiormente necessario. Altri invece derivano dalla mancanza di meccanismi mentali adeguati, o dalla errata applicazione di un meccanismo altrimenti positivo in altre circostanze. Questo fenomeno viene studiato dalla scienza cognitiva e dalla psicologia sociale. L’etimologia del termine bias è incerta: in italiano arriva dall’inglese, col significato di “inclinazione”, ma a sua volta discende dall’antico francese, col significato di “obliquo” o “inclinato”.

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