…approfondimento dal dossier: “La guerra globale della disinformazione
Una ventina d’anni fa, il giurista Cass Sunstein poneva la questione in questi termini: il web prima e i social network poi stanno peggiorando la qualità della democrazia perché ci fanno vivere dentro bolle ermetiche che escludono voci diverse da quelle che condividiamo. Se il filtro siamo noi, se siamo noi a scegliere la nostra dieta informativa tendenzialmente lasciamo fuori ciò che mette in crisi le nostre opinioni che diverranno man mano sempre più cristallizzate e granitiche. Il risultato è la polarizzazione e la radicalizzazione delle opinioni politiche, scrive Sunstein nel suo libro ormai classico Republic.com.
E oggi? Cosa rimane oggi di quell’analisi? Molto e poco. Ricordiamolo, Facebook nasce nel febbraio 2004 e Twitter nel marzo 2006: in poco più di dieci anni anche il ciclo della comunicazione della politica è stato stravolto dalla centralità assunta dai social media.
La consapevolezza e l’uso delle piattaforme social ha aumentato la coscienza diffusa nel mondo del potere anche positivo e democratizzante di questi strumenti. Trasparenza dei dati, privacy, capacità di mobilitazione, fact checking, sono solo alcune nuove issues che si sono affermate in parte dell’opinione pubblica grazie alle nuove forme di comunicazione.
Al tempo stesso, la minaccia populista sulla democrazia che preoccupava Sunstein sembra realizzarsi. Le varie declinazioni del populismo in occidente sono il fenomeno politico di questi anni e, soprattutto, dei prossimi. Realizzando proprio quella polarizzazione che angustiava il giurista di Harvard: “noi” ovvero il “popolo” contro “gli altri” che di volta in volta prende la forma di “immigrati”, “l’Europa”, “le élite”, “i partiti” ecc.
Questa ascesa del populismo ha a che fare solo con Facebook e la difficoltà nel confronto con opinione diverse? Certo che no. Eppure, è difficile escludere la trasformazione in corso dalle cause della crisi della democrazia della mediazione e della rappresentanza così come l’abbiamo conosciuta fino alla fine del XX secolo.
La Politica con la “P” maiuscola e il Palazzo globale ha imparato ha utilizzare i nuovi strumenti piegandoli a nuove forme di spin e in fin dei conti di propaganda. Solo per fare un esempio recente, l’esuberanza twittatoria di Donald Trump è la perfetta rappresentazione dello scenario nel quale ci troviamo oggi. Un neofita della politica Usa costruisce il suo successo prima all’interno del partito repubblicano e poi nella corsa alla Casa Bianca anche grazie a un uso sapiente dei social media in un’opera di propaganda di nuovo genere.
Pseudo-notizie fatte circolare ad arte, battute, esternazioni violente o irrituali, riescono a surfare alla grande sull’enorme onda delle conversazioni on line e ad affermarsi come dati oggettivi e hit delle condivisioni nelle enormi echo-chambers dei fan dove verità e falsità abdicano e trionfano opinioni granitiche. I vecchi mass-media gongolano e sfruttano questi sound bite in forma di tweet e alimentano più o meno consapevolmente il circuito della propaganda, in un rimbalzo continuo tra tradizionali giornali e tv e nuovi canali di informazione-pubblicazione.
Ovviamente Trump non ha vinto solo grazie al volano dei social media, né le bufale sono una novità del 2016, tuttavia è certo che la capacità del neo-presidente di bypassare i filtri mediatici tradizionali e di alimentare bolle propagandistiche hanno svolto un ruolo importante nella conquista di Washington.
In fondo, la grande discussione di questi ultimi mesi intorno alle fake-news e alla politica della post-verità cos’è se non un dibattito globale su una propaganda di nuovo genere che trova spazio rimbalzando da un media all’altro in un nuovo terreno del gioco politico? Se un tempo la propaganda tradizionale funzionava proprio secondo un meccanismo top-down e di prolungata ripetizione che alla fine avrebbe dovuto produrre il suo effetto grazie all’iterazione, oggi alla ripetizione si è aggiunta e sostituita la riproduzione attraverso i social media. Una notizia farlocca costruita ad arte per colpire un avversario o anche un hashtag su Twitter o un meme come quello dei gufi renziani attraverso la condivisione nei feed degli utenti di Facebook o Twitter riproduce un messaggio e produce un onda di propaganda indefinita e potente. La propaganda nell’epoca della sua riproducibilità social, verrebbe da chiosare questa novità.
È possibile limitare questo fenomeno del quale siamo tutti protagonisti? Difficile dirlo, tuttavia è quantomeno ingenuo pensare che la responsabilità sia esclusivamente nelle piattaforme che ci abilitano allo sharing piuttosto che nelle scelte individuali di chi – spesso – senza particolare cognizione del nuovissimo ambiente mediatico-culturale in cui tutti siamo, si trasforma in (in)consapevole vettore di propaganda, di cattiva informazione o di disinformazione. Come non sembra la strada migliore per arginare il fenomeno (per grande o piccolo che sia) istituire autorità di garanzia che decidano cosa è giusto pubblicare sui social media.
* fonte dossier “La guerra globale della disinformazione” – ISPI (Istituto studi politica internazionale)
(continua)
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