La pandemia qui da noi è sempre più drammatica (oltre 100mila morti) e richiede che la politica cambi passo e si metta a correre alla ricerca di riposte significative al dramma sanitario e alla crisi economica crescenti (1milione di poveri in più) e invece la politica sembra sempre più ferma… Una grande nuvola, un’ariaccia umida, un clima incerto dominano sul Governo e sul Partito democratico alle prese con specifiche incertezze, l’impasse sulla vaccinazione da una parte e il caos al vertice del Pd dall’altro pur nelle diverse motivazioni l’una con l’altro sono due fatti politici che chissà per quale strana congiunzione astrale vengono a cadere nelle stesse ore sommandone le difficoltà. Mario Draghi sta da giorni allestendo tutto ciò che c’è da allestire per preparare una seria vaccinazione di massa ma ancora non si riesce a entrare nel vivo di una grandiosa iniziativa di massa (anche se ci sono Regioni come il Lazio dove le cose stanno funzionando: e la magnifica fotografia che immortala Sergio Mattarella nel leggendario Spallanzani in attesa di offrire il braccio alla siringa ne è un emblema che resterà nella memoria), mentre il Comitato tecnico scientifico si è riunito d’urgenza per cercare di mettere in atto una nuova strategia – lockdown nei weekend e ulteriori restrizioni quando si contano 250 contagi ogni 100mila abitanti – ma tutto appare come malfermo, incerto, provvisorio: ulteriori misure restrittive mentre si ha l’impressione che i controlli anti-assembramenti siano notevolmente più deboli di quelli di un anno fa, ecco perché si pensa alle zone rosse nei weekend, misura che prevedibilmente non avrebbe un’accoglienza positiva e che continua a trovare il freno nella propaganda verbosa di Matteo Salvini. È vero che si allestiscono spazi nuovi e hub dedicati alla vaccinazione, ma il ritmo resta al di sotto del necessario. I medici fanno come al solito il possibile ma malgrado l’accordo nazionale sull’utilizzo dei medici di base la macchina non funziona perché le Regioni (vedi Lombardia) non riescono ad attivare il meccanismo. Per forza il Paese è sempre più nervoso. Il presidente del Consiglio ha parlato di una «via d’uscita non lontana» ma la gente ormai vuole sapere quando? Ed è difficile dare una risposta, perché la verità è che si naviga non diciamo a vista ma certo con il vento contrario, con le nuvole che si gonfiano. La politica sembra ferma proprio adesso che dovrebbe correre. E l’impasse comporta una sensazione orribile di impotenza e di generale insicurezza. Guardate il Pd in queste ore. Cacciatosi da solo in un quello che sembra un vicolo cieco, umiliato e offeso dalle Sardine e persino dal ex portavoce di Giuseppe Conte, quel Rocco Casalino che si è sentito in diritto di dover parlare di «cancro» a proposito di non meglio definiti aspetti o personaggi della vita del Pd. In più. i sondaggi infieriscono (Swg dice Pd quarto al 16%) ma il problema non è tanto questo quanto il fatto di non riuscire a trovare una figura adeguata al ruolo di segretario del partito in una fase eccezionale come questa. Uno non troppo debole ma nemmeno troppo forte, hai visto mai che rivolta il partito come un pedalino. Dal cilindro Dario Franceschini ha tirato fuori il nome di Enrico Letta, che pare accetterebbe di lasciare Parigi e la prestigiosa cattedra di Science Po per sedersi alla guida di un partito a pezzi ma solo a condizione che sul suo nome ci fosse il sì di tutte le correnti (già, sempre lì si torna). Una soluzione diciamo alla Draghi per un governo di unità nazionale del partito in cui però nessuno si fida più di nessuno. E se Letta sarà, sarà solo in seguito a un mega accordo fra tutte le correnti, con i necessari bilanciamenti per accontentare la Sinistra, gli zingarettiani, Ariadem e Base riformista. Si, proprio lui, Enrico Letta, defenestrato esattamente 7 anni fa da Matteo Renzi (non senza il consenso della sinistra di allora), potrebbe dunque essere il salvatore del Pd. Correnti permettendo. E’ un vero e proprio ritorno dall’esilio. L’ex presidente del Consiglio potrebbe quindi prenderne la guida anche perché non è uomo di nessuna delle attuali filiere, gode di un prestigio indiscutibile ed è stato fuori dalle beghe degli ultimi anni. In attesa che il diretto interessato sciolga la riserva – ha chiesto 48 ore per pensarci – si può provare, dando per scontato che accetterà, a capire il senso politico della sua scesa in campo alla guida del Pd. La leadership di Letta, uomo di istintivo equilibrio, è vista con una certa apprensione da un po’ tutti i maggiorenti del partito ad eccezione di Dario Franceschini leader di Areadem e, pare, di Paolo Gentiloni uomo del Pd nel Board Europeo. Letta, gode di un prestigio indiscutibile viene reclamato dall’“esilio” parigino per salvare la baracca lasciata incustodita dall’abbandono di Nicola Zingaretti. Per tutto questo, Letta sarebbe (sarà) un segretario fortissimo, anche se gli verrà a mancare una legittimazione popolare, quella delle primarie, che infatti dovrebbe prima o poi mettere in agenda. Letta è un riformista, un ulivista. Fu il più giovane ministro nel governo dell’Ulivo diretto da Romano Prodi, l’allievo di quel particolare segmento del cattolicesimo democratico particolarmente orgoglioso e culturalmente solido che ha in Nino Andreatta il punto di riferimento essenziale. Non è insomma un “democristiano” di tipo classico, di scuola, per dire, demitiana o di altro tipo, è uno che ha sempre guardato oltre le due grandi chiese, Dc e Pci, è un innovatore dal cuore antico. In questo senso, pur avendo un bel sentire comune con il riformismo ex comunista (l’amicizia con Pier Luigi Bersani lo testimonia), Letta non è dunque uomo di quella che comunemente si definisce “Ditta”, intendendo quell’insieme di categorie, movenze, schemi politici e organizzativi che identificano, oggi come ieri, i dirigenti di provenienza diessina. Questa componente, rivitalizzata nel biennio zingarettiano anche per reazione al quadriennio renziano, vuole sempre avere, per istinto oltre che per calcolo, il controllo del partito, ben accettando qualunque contributo ma appunto restando ben salda nella cabina di comando. Lo spiegò tanti anni fa Massimo D’Alema dicendo che il Pd era come un aereo nuovo, c’è un’ala destra e un’ala sinistra ma l’importante appunto è chi pilota il velivolo. Sottinteso: noi della Ditta. È quello che il teorico dell’Ulivo Arturo Parisi ha sempre rimproverato agli ex ds, di non riuscire a non pensarsi come ex qualcosa, di considerare la “mescolanza” una scorciatoia tattica e non un camminamento strategico… verso un reale ‘meticciato’ politico. Naturalmente in questi anni molte cose sono cambiate ma sotto la direzione di Zingaretti le cristallizzazioni in “famiglie” sono riemerse. Complice anche una voglia di rivincita verso quel renzismo che pretendeva di rottamare una storia che veniva da lontano, in questi due anni la squadra del segretario si è effettivamente impossessata delle leve di comando del partito (ma non dei gruppi parlamentari individuati come i veri killer di Zingaretti). Certamente il nuovo leader sarà molto attento a non fare come un elefante in una cristalleria. Non è come Matteo Renzi, è l’opposto. Ma politicamente la scelta di Letta non potrà che essere non un generico “appoggio” al governo Draghi ma l’assunzione piena della sua agenda e lo sforzo anzi di implementarne la ricchezza e di lavorare per il suo successo. La questione dell’alleanza M5s verrà in questo senso relativizzata: al centro dei pensieri di Letta ci sarà il governo del Paese, non Di Maio e nemmeno Conte. Ecco dunque, se le cose stanno così, che al di là delle diatribe su quando fare il congresso (che è una richiesta non certo lunare di Base riformista: in fondo il partito è dato al 16 percento, basterebbe questo per capire cosa ci si deve inventare) che a storcere il naso e a sbuffare senza far comunque rumore saranno i Goffredo Bettini, i Matteo Orfini, forse lo stesso Andrea Orlando che vede sfumare la sua possibile leadership dato che il congresso ci sarà chissà quando e che comunque vedrà “Enrico” stra-favorito. Insomma, forse è proprio la sinistra che Zingaretti con le sue repentine dimissioni ha messo sul chi vive rispetto alla leadership di Letta per le stesse ragioni per le quali mal tollera la premiership di Mario Draghi, il cui governo è vissuto come un tronco piazzato sui binari di un necessario spostamento a sinistra dell’azione riformatrice del Pd alla quale si oppongono i tardo renziani di Base riformista rimasti nel Pd che seppur corrente minoritaria controlla come già detto i gruppi parlamentari e vorrebbe tenere nel Pd ancora aperta l’Opa di Renzi in un Congresso da tenersi al più presto… e poi magari sostenere Bonacini alla Segreteria del partito. Letta, c’è da giurarci, legherà la sua segreteria ad un nuovo corso che si è aperto nella situazione italiana, sapendo che la battaglia interna sarà ancora una volta come 7 anni fa su questo fronte…
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