Pd: il caso Zingaretti e l’ipotesi della fine del partito unico del riformismo italiano…

Sopravviverà il Partito democratico alla bomba delle dimissioni di Zingaretti da Segretario? Sopravviverà, cioè, come soggetto politico unitario e non come pura federazione di correnti qual è oggi? Nessuno sa come si risolveranno le dimissioni del Segretario, ma in discussione c’è proprio il futuro del Pd: non è una previsione, ma è una possibilità reale che la sinistra possa dividersi in una forza socialdemocratica e in una liberaldemocratica. Si sta andando verso un esito infausto, con una nuova separazione fra radicali e riformisti? Può darsi benissimo, anche se finora non se vede che qualche traccia, che alla fine lo spirito di sopravvivenza ancora induce i maggiorenti del partito a trovare un accordo per tirare avanti fino al prossimo Congresso, quando sarà, con un leader sostanzialmente a termine: non è gente che manchi di esperienza e una soluzione compromissoria la si trova sempre. Ma il punto è più di fondo. Perché la verità è che, per la prima volta dalla sua fondazione (2007), è in discussione la sopravvivenza di un partito unico del riformismo storico italiano, che già ha perso pezzi a sinistra (LeU) e a destra (Italia viva e Azione), ma che resta sempre il partito di riferimento del riformismo socialdemocratico, cattolico-democratico e liberaldemocratico: il famoso amalgama chiamato Pd. La crisi innescata con la bordata di Zingaretti è soltanto la punta dell’iceberg di una crisi che viene da lontano: non dalla formazione del partito ma dal progressivo sfilacciarsi delle ragioni forti per cui nacque e il contestuale venire avanti di mere logiche di ricerca e gestione del potere, anche con discreti risultati, visto che amministratori, sindaci e ministri dem sono considerati in generale migliori a quelli degli altri partiti. Ma ecco che, arrivati a un certo punto, la ricerca del potere ha interamente sostituito lo spazio della ricerca, della proposta, dell’apertura all’esterno. È diventata il fine ultimo. Al punto che si ha persino l’impressione che il Pd non si ponga nemmeno più il problema della ricerca del consenso degli italiani, un consenso che per andare oltre il 18-20 per cento dovrebbe aprirsi a quei pezzi di società che condividono i valori e la visione del Paese nell’ambito della vasta area del centrosinistra. Al contrario, in questi anni tutti gli sforzi intellettuali dei dirigenti del Pd sono stati rivolti a individuare “alleanze strategiche”, dentro quello schema che Goffredo Bettini spiegò con grande chiarezza, immaginando un “tridente”: la sinistra di Pier Luigi Bersani, il Pd “contizzato” e la “terza gamba” che Matteo Renzi avrebbe dovuto costruire al centro. Vale a dire, la teorizzazione della rinuncia a parlare a tutto il Paese con un Pd che invece pensa di rimanere al 20 per cento (o magari anche al 15 per cento, chiuso nelle sue correnti sempre meno rappresentative) e che, grazie al proporzionale, può continuare a essere centrale nella gestione del potere politico italiano, perpetuando le lotte al proprio interno e l’accaparramento dei migliori posti offerti dalla grande “agenzia di collocamento interinale” democratica. Questo Pd può funzionare così se la barriera verso l’esterno rimane inscalfibile. Non ci può essere spazio per energie nuove, competenze, progetti, intelligenze che vengano dal mondo democratico non inquadrato, perché queste energie metterebbero in crisi gli equilibri interni. Sintetizzando brutalmente, per fotografare la situazione del Pd può essere utile il motto arboriano “meno siamo meglio stiamo” al quale si può aggiungere il concetto “meglio il 15/20 per cento con noi al comando che il 25/30 per cento con quelli meglio di noi”. Detto questo, le responsabilità sono di tutti coloro che hanno contribuito a cambiare la natura del Pd da partito politico a federazione di correnti. Tutti sono responsabili, chi ha strutturato le filiere come chi non ha fatto nulla per aprire il partito, per mettere in campo idee e progetti politici, unico antidoto a una politica intesa come mera gestione del potere. Ora che il tetto sta crollando, vibrano anche le fondamenta. La casa brucia. Cosa succederà è difficile dirlo. Ma, in assenza di grandi leadership e di grandi messaggi al Paese, non è affatto improbabile che le strade possano separarsi: non è una previsione, è una possibilità reale. Certo, si tratterebbe di dare risposta a due domande che certamente esistono. Le ha di fatto riproposte con forza Matteo Renzi aprendo la crisi del governo Conte 2. Uno dei motivi di quella crisi di governo è stato il desiderio da parte di Matteo Renzi di riprendere il controllo del PD e l’obiettivo chiaro era quello di far saltare l’asse con i 5 Stelle, per spaccare in due il Pd e fuori Conte, adesso toccava a Zingaretti messo immediatamente dopo l’insediamento del Governo Draghi nel mirino dal così detto “fuoco amico”. Le sue dimissioni hanno spiazzato tutti: competitor e amici. Ma, ecco le domande: la prima si richiama alla storia e ai contenuti della sinistra socialista e socialdemocratica col suo liberalismo progressista attento alle questioni sociali, che – facciamola breve – in seguito alla crisi della globalizzazione e all’accentuarsi delle disuguaglianze oggi, reclama progetti di riforma più radicali, una sorta di LeU più grande: è quello che non a caso pensano e auspicano Roberto Speranza e Pier Luigi Bersani, un progetto politico che ha molti sostenitori nel Pd, da Andrea Orlando a Giuseppe Provenzano, a Gianni Cuperlo agli stessi zingarettiani. E poi c’è l’altra domanda, quella che reclama una forza riformista liberale attenta al libero scambio e al libero mercato declinato nel neoliberismo dalla globalizzazione dell’ultimo ventennio. Anche qui i nomi di possibili costruttori non mancano. Ma nel Pd – questa è la seconda domanda – esistono forze interessate a una simile operazione di dolorosa presa d’atto che il partito unitario, messo così com’è messo, non ce la fa? Che farebbero i vari Giorgio Gori, Dario Nardella, Tommaso Nannicini, ma anche Lorenzo Guerini, anche Dario Franceschini, anche Piero Fassino, Marcucci e Delrio, se non restasse che prendere atto che l’amalgama messo in campo da Walter Veltroni tredici anni fa effettivamente non è riuscito? Anziché ex Renziani sarebbero disposti e tornare ad essere renziani a tutti gli effetti? A questo punto mi sovviene una terza domanda: quel è la parte che rappresenterebbe veramente la tradizione del riformismo democratico italiano? Su cosa si distinguerebbe veramente un’azione riformista sociale e popolare da un’azione che lascia al mercato  tutte le risposte sempre più diseguali al sorgere delle grida  populiste?  E soprattutto: come reagirebbe l’elettorato del Pd di fronte a una ulteriore separazione? E anzi, come sta reagendo in queste ore? Se tutto questo è vero, il caso Zingaretti si potrà anche chiudere in un modo o nell’altro ma resterà spalancato l’interrogativo sulla reale possibilità di andare avanti senza un big bang nella testa dei gruppi dirigenti. Sono domande che traggono ragione dall’impasse drammatica in cui sono finiti i dem in questi 13 anni di vita del Pd e dopo ben 7 segretari. Anni scuri nella breve storia di un Partito avvezzo ormai a barcamenarsi nei meandri della politica piena di sé, ma priva di idee per le persone. Un partito dove il gruppo dirigente farà di tutto per restare al comando o come suggerisce oggi nel suo editoriale su La Repubblica Ezio Mauro, si interrogherà finalmente sul futuro della sinistra e del Pd, aprendosi alla ricerca di cosa voglia dire oggi definirsi Democratici? Altrimenti se il Pd non si aprirà alla società mettendosi veramente come dice l’ultimo slogan elettorale: “dalla parte delle persone”, rischia seriamente di smarrirsi definitivamente sul piano delle idee per seguire solo le piccole vicende dei poteri personali di questo o quel dirigente dentro l’altrettanto piccola politica italiana…

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