PD: inutile tregua, per una lenta agonia…

Appare come una lenta agonia, quella che vive il Partito democratico. Nel mondo e in Italia succede di tutto. Trump e i nuovi dazi. Trump/Netanyahu l’ambasciata Usa a Gerusalemme, e la a nuova “intifada”. Da noi invece è il destino dell’Ilva e della TAV, passando per il “contratto di governo” tra 5 stelle e Lega. Gli argomenti per stare in partita ci sarebbero. Eppure, l’immagine prevalente che il Pd riesce a dare di se, è quella di un gruppo dirigente sempre di più ripiegato su se stesso; diviso, senza esplicitarne le vere motivazioni strategiche e, perciò, fintamente unito. Di rinvio in rinvio, di compromesso in compromesso, in nome di un’unità interna ridotta a feticcio, così il partito muore… L’assemblea di sabato 19 maggio ha rasentato questo rischio. Era, francamente, impensabile che la massima assise di quello che è ancora il secondo partito italiano, non discutesse di politica, ovvero non dicesse la sua sul governo possibile, sul contratto, etc. Eppure, c’è voluto un ordine del giorno, proposto dopo un paio d’ore di colloqui di retro palco, approvato con un voto ‘divisivo’, da tutti interpretato come: “discutiamo d’altro, persino del governo, perché siamo divisi sul segretario”. Il cambio di ordine del giorno, però, non è bastato, perché Martina, nella sua relazione, ha parlato non solo di  Lega e 5 Stelle, ma, anche, del Partito e del Congresso – da celebrare al più presto – ha parlato di sé e del suo ruolo di reggente fino ad allora. Così alla fine di una travagliata giornata – nella quale il segretario uscente, invece di intervenire nella discussione se ne va (è sembrato che questa fosse la linea di molti) la relazione di Martina viene approvata a minoranza (con anche il voto dei renziani). Tutto, dunque, viene rinviato a luglio. La elezione di Martina a segretario e anche la convocazione di quel Congresso che tutti (a parole) volevano. Una più larga e composita minoranza, si è manifestata, dopo che l’ex Segretario ha fatto saltare ogni possibilità di dialogo governativo coi 5 Stelle, senza nemmeno vederne le carte. Forzando la mano con l’intervista televisiva a “che tempo che fa”. Venuta in Assemblea (la minoranza) del Partito con la convinzione di eleggere Maurizio Martina a Segretario, si è vista cambiare l’ordine del giorno. Mai come stavolta il renzismo è stato messo “alla stanga” in una sala dove Renzi, in teoria dovrebbe contare ancora il 70 per cento dei delegati. Di cose di cui discutere, ce ne sarebbero tante, senza che la massima assise del secondo partito italiano, discuta della politica attuale. Ancora non si è cercato di comprendere le ragioni: i vari perché, di questa sequela di sconfitte, iniziate con quella del 4 dicembre nel referendum costituzionale e poi una dopo l’altra nelle varie scadenze elettorali susseguitesi, fino all’ultima disastrosa sconfitta ‘storica’ del 4 marzo scorso. La minoranza, che fu umiliata al momento della compilazione delle liste elettorali, nell’assemblea si ribella esprimendo per la prima volta una forte volontà di andare allo scontro, pur consapevole di essere in minoranza. Vuole rompere, mostrare palesemente la divisione verticale del Partito. Si fa sentire rumoreggiando come fosse “una curva di uno stadio”. “Capiamoci, anche basta!” urla avendo capito l’antifona il presidente Matteo Orfini. Che dopo aver annunciato di voler cambiare l’ordine del giorno, rinviando a una successiva riunione la discussione sul nuovo leader, cerca di arginare la bordata di fischi che arriva dalla platea, la prima di tante della giornata. Gli anti-Renzi all’improvviso sembrano tantissimi. Quelli di Emiliano rumoreggiano ancor di più senza sosta. “Sono 190 solo gli orlandiani” qui presenti, è il calcolo che viene attribuito all’uomo macchina della corrente, Giulio Calvisi. “È come un’onda sempre più alta”, esulta Sergio Lo Giudice. Orfini precisa: “è un differimento deciso all’unanimità”. “Ma quale unanimità, state facendo il gioco delle tre carte”, s’inalbera l’ex deputato campano Simone Valiante. I renziani spingono per non andare alla conta. Come già accennato addirittura Renzi, sceglie di non parlare subordinando questo all’accordo per dare e avere concessioni sul timing segretario, la discussione e il congresso. Accordo trovato in extremis, dopo un lungo “tira e molla”. Così l’assemblea inizia alla mezza con un notevole ritardo sull’ora prevista. I delegati sono sempre più imbufaliti. Passa così, questa ulteriore ‘inutile’ tregua. Le dimissioni di Renzi (non avendole ritirate) diventano “irrevocabili”, ma Renzi, senza la votazione del nuovo segretario, continua con ambiguità a essere un ex (non ex) Segretario “ombra”. Condizionando la linea del partito e il lavoro del reggente Martina, una cosa mai vista prima d’ora nel Partito democratico. Un PD così mal messo… dove pensa di poter andare? Altro che opposizione “dura e pura” al nascente governo penta-leghista. La maggioranza renziana non potrà sottrarsi all’infinito e prima o poi dovrà fare i conti con un partito dilaniato e con questa minoranza in crescita. Martina, Orlando, Emiliano, Fassino, Franceschini e Cuperlo, più i defilati ma ormai in campo, Richetti e Serracchiani, l’ala governativa con Minniti, Madia, Pinotti, lo stesso Gentiloni e alla fine Nicola Zingaretti il Governatore del Lazio. Una minoranza più agguerrita che mai. Pronta a tentare uno “schiaffo”, alla memoria del passato renziano. Renzi come concordato non interviene e va via subito dopo la relazione di Martina; i suoi, che si sono collocati al centro del salone per la prima volta, danno l’impressione di essere come intimiditi psicologicamente dal clima in sala. La minoranza, sistematasi, non a caso, nell’ala sinistra della sala, monopolizza l’arena con una rumorosa ribalderia. “Stanno cambiando gli equilibri?” Così sembra annuisce Andrea Martella (martiniano). Mentre Gianni Cuperlo s’aggira soddisfatto in sala. Anna Finocchiaro e Luigi Zanda (anche loro non certo renziani) assistono ai lavori seduti, senza muovere un muscolo, mentre attorno a loro s’inscena la ribellione dei molti delegati che nell’occasione, avrebbero votato, senza se e senza ma, per Martina segretario. Dandogli fiducia e autonomia per gestire questo periodo di transizione fino al congresso. Martina concorda sul congresso anticipato dopo l’estate. Nella relazione dice con chiarezza: “però fino al congresso se tocca a me… tocca a me!” E al congresso? Si vedrà, si terranno le primarie (sempre più discutibili) se lo riconfermeranno o meno. Se no, si vedrà allora chi sarà il nuovo Segretario, che governerà il partito per un intero mandato. Intanto si vanno sommando le candidature e le dichiarazioni di disponibilità a concorrere per l’incarico. Per i renziani dopo il diniego di Delrio, non è chiaro chi possa correre forse Guerrini o Rosato (ma c’è chi pensa debba riprovarci ancora Matteo Renzi). Per la minoranza ci sarà Martina, c’è già anche la candidatura di Nicola Zingaretti il Governatore del Lazio. Ci sono le disponibilità di Chiamparino e come già sottolineato, dei due sempre meno renziani: Richetti e Serracchiani e, probabilmente l’elenco si allungherà ulteriormente. Alla fine di una travagliata giornata con il voto “unitario” sulla relazione di Martina, la minoranza ottiene la conferma della continuità della sua reggenza e con la ‘irrevocabilità’ delle dimissioni di Renzi, si domanda se esce dall’Assemblea più forte? Si può pensare sia effettivamente così. Sono stati i renziani, questa volta a non volersi contare, e a prender tempo. Proprio recentemente Martina di fronte all’ipotesi prospettata da parte di alcuni dei suoi fedelissimi di un possibile ritorno dell’ex premier alla guida del Pd. Ha suggerito: “State attenti a tirare Renzi per la giacchetta”. Intendendo, che non sembra esserci una grande “convinzione”, anche tra molti dei renziani su questa possibilità. Nel Partito prevale un sentimento di liberazione. Una sorta di “tana libera tutti”. Con l’intenzione di liberarsi dalla soggezione permanente a Matteo Renzi. Un sentimento certo divaricante rispetto ai militanti e agli elettori rimasti del PD. E anche rispetto alla “vulgata corrente”, di opinion leader, commentatori, editorialisti che considerano l’ex Sindaco di Firenze ancora l’unica vera leadership presente nel PD, auspicando che Renzi non esca di scena. Tuttavia, occorre prendere atto, che sono sempre di più coloro che nel gruppo dirigente assieme a altre personalità vecchie e nuove del partito (Veltroni, Prodi, Napolitano, e qualche volta contraddicendosi lo stesso Ministro Calenda) pensano che Renzi, non sia la persona più adatta a condurre i Democratici verso un congresso dal carattere “fondativo”, con una partecipazione pensata, diffusa, vissuta tra la gente. Una fase necessariamente “costituente” per un rinnovo profondo del PD. Rendendo possibile una sua risalita (del partito) col tempo, nel consenso elettorale degli italiani. E’ sempre più chiaro a tutti, che con Renzi nel ruolo di Segretario e Premier, il PD non vince più!!! Per la verità lo stesso Renzi non sta facendo molto per assecondare un possibile suo ritorno. Lui sembra ancora credere ad una “chiamata” collettiva, di un suo ritorno sollecitato a gran voce, causa l’incapacità dei competitors dentro e fuori del partito. Francamente sarebbe meglio che a riguardo non si facesse illusioni.  In fondo il caso del reggente Martina non è altro che la conferma di una regola. Sempre, il passaggio da reggente a Segretario in carica avviene in brevissimo tempo (Franceschini dopo Veltroni e poi Epifani prima di Bersani). La consuetudine, la mancanza d’altro. Offre la possibilità di essere Segretario a chi c’è in quel momento a disposizione. Martina ci crede: “anche sia per un solo giorno, poche settimane o qualche mese”. Mettiamola così tra i Democratici, la voglia di liquidare e dimenticare Renzi seppur non sia ancora diventata ‘spasmodica’, ormai c’è. Eccome se c’è! Coalizza correnti, gruppi, leader individuali, che un tempo nemmeno si sarebbero mai accostati tra loro. Gli stessi fuoriusciti dal PD, quelli di Liberi e Uguali, rientrano nella partita, guarda caso chiamati il prossimo fine settimana a decidere cosa fare in futuro e guardano con interesse cosa succede dentro al PD.  Il ritorno di Renzi alla guida del Pd (cosa da lui negata, ma ormai non gli crede più nessuno) non potrebbe esimere l’ex Segretario da una forte, accentuata e sincera autocritica. Le dimissioni dopo l’ultimo risultato elettorale (date in quel modo), è stata l’ennesima ‘furbata’, che ha rivelato definitivamente (se ce ne fosse stato ancora bisogno) un Renzi, che non ha certo a cuore gli interessi e i valori del Partito. Un Renzi, che non sa mai prescindere da se stesso. Impegnato solo a sopravvivere politicamente ai suoi errori. E sono ormai tanti gli errori da lui commessi. A partire dalle scelte dei compagni di viaggio non proprio eccellenti collocati nei posti che contano (Boschi, Lotti, e gli altri del Giglio Magico). Renzi è sempre stato indulgente con questi suoi sodali e fedeli amici, con una logica accomodante, facendosi carico direttamente delle loro insufficienze. Non c’è dubbio, che la sua capacità di leadership sia ancora alta. Qualche risultato nella azione del suo triennale governo c’è stato e gli va riconosciuto. Ma l’attuale situazione è tale, che già richiede più di qualche correzione a quel che è stato fatto e soprattutto qualche nuova idea per andare avanti. Insomma il maquillage (ma non solo) è da rifare completamente. A partire da un partito ormai “liquefatto” più che liquido. Non si può più prescindere dal cambiare il suo processo decisionale, che non può caratterizzarsi con “un uomo solo al comando”. Va cambiato anche il modo di selezionare i dirigenti (competenze, al posto della fedeltà al Capo). Vanno superate le troppe discrasie esistenti tra locale, provinciale, regionale e nazionale. Occorre una riforma vera del partito, che non è mai stata fatta. Avere un partito sintonizzato sui territori con Segreteria Nazionale e viceversa: vuol dire fare un bel pezzo di strada per la ricostruzione necessaria nel rapporto tra la base e il suo vertice. Rivitalizzando così anche l’azione politica del partito. Oggi nelle sue sezioni rimangono solo alcuni pezzi di partito e di dirigenza, tanto sconforto e molto risentimento rispetto alla leadership renziana e al gruppo dirigente centrale. Reo di aver ignorato e sacrificato proprio loro. La prima linea del partito nei territori. Dimenticandosi altresì delle periferie e delle istanze di gran parte di quel che è stato sempre il suo storico corpo sociale. Da lì bisogna ripartire. Per percorre rapidamente questo tortuoso tratto di strada. I militanti e gli elettori del PD sono sempre più demotivati e confusi. Arrabbiati!! Cresce la richiesta di un cambio totale di registro. La pretendono per primo dall’ex leader e poi dai molti del gruppo dirigente. Se la sentono veramente Renzi & C. di fare questo lavoro di cambiamento? Di intraprendere questa “lunga marcia?” Perché non ha alcun senso mantenere un controllo persino “esagerato” delle truppe (nel partito: Direzione, Assemblea e nei Gruppi parlamentari) per stare fermi, su posizioni politiche sconfitte, con un elettorato che ha lasciato il campo del centrosinistra e si è collocato altrove. Un PD totalmente immobile solo in attesa che emergano le contraddizioni degli avversari, chiamati al governo del Paese. Debole senza nessun altra iniziativa quel: “adesso vediamo cosa sanno fare loro”. Ripetuto continuamente dall’ex leader e dai due Capi gruppi del partito di Camera e Senato Delrio e Marcucci. Con il rischio o meglio nel contempo l’intenzione di bruciare i nuovi candidati che si propongono alla guida del Partito Democratico. Mantenendo il controllo dei vertici del partito nella speranza che la leadership renziana possa avere un veloce ritorno sulla scena politica nazionale e internazionale. Serve a poco tutto ciò, in questo modo non c’è alcuna possibilità di ripresa… è solo la ricerca di una rivalsa personale… e poi, nei confronti di chi? Non è certo questo che serve al Partito Democratico. Come non servono i caminetti, gli incontri “carbonari”, per sfide sul nulla. Dentro un Partito ormai senza una precisa identità politica. Si potrebbe dire “senza più anima”. Il Partito ha invece l’urgenza di essere guidato, smorzando le varie questioni divisive. Non è riproponendo di cambiare di nuovo il nostro sistema istituzionale (camera unica, repubblica semi-presidenziale). Il referendum è già stato fatto. E’ quella sconfitta, che ha alimentato tutte le altre. E con questo attuale “congelamento” del Partito, si alimentano solo le sconfitte che verranno. Il PD è scomparso sul territorio e vi sono più di 700 comuni che vanno alle elezioni il 10 giugno p.v.. Queste attese sconfitte, sono già state assunte dalla minoranza del partito, a ulteriore dimostrazione di una erronea strategia e della mancanza di una qualsiasi reazione del partito. Se all’ex leader, alla fine non interessa questo impegno “titanico” da farsi in prima linea, che richiede l’attuale sfida politica di guidare il partito stando all’opposizione dello schieramento governativo penta-leghista e, allo stesso tempo ricostruire il partito a partire dai territori. Deve dirlo. Espressamente. Lasciando ad altri il destino del PD, che lui ha condotto fin qui in questi ultimi anni,  rendendolo residuale nel panorama politico italiano. Il modo stesso di muoversi dell’Assemblea del partito è la dimostrazione plastica di un gruppo di persone, che non avrà più come destino unico quello di stare unito. Mantenendo irrisolto il modo di stare dentro il partito. Con un modello organizzativo ormai assente dalla fine del Pci. Non c’è alcuna speranza di una qualsiasi ripresa. Quindi? Renzi chiarisca una volta per tutte cosa vuole fare. Se questo PD è il suo partito personale con una proposta politica che guarda al centro (e non più a sinistra) e ne indichi il percorso. La sua prospettiva è dunque un partito tipo “en Marche” di Macron? Un partito che lo segua senza alcuna ulteriore discussione? Tra i suoi c’è chi lo dice chiaramente come l’eurodeputato Sandro Gozi. Questo PD che è rimasto, continua ad essere bloccato prima che da altro, da una proposta politica non chiara. Da un programma mediocre, che non ha saputo guardare o comunque non a sufficienza, ai bisogni reali della gente. Ma solo alla volontà di una leadership personale votata a rafforzare la sua “immagine” e quello del suo governo. Esprimendo una politica che non ha convinto, che in un breve lasso di tempo, gli ha fatto perdere il consenso dei blocchi sociali tradizionali della sua rappresentanza, senza sostituirli con altri. Renzi è partito dal fondo del partito. Convinto che bastasse rottamare la vecchia guardia, perché l’intero “corpaccione” del PD lo seguisse nelle conquista delle sue mete, trascinandosi appresso tutto il corpo elettorale storico. Si sbagliava! Non cogliendo affatto l’occasione di dare al partito la fisionomia di una sinistra di governo nuova e moderna 2.0. Capace di tenere insieme i ceti sociali più colpiti dalla più lunga crisi finanziaria e economica che mai prima d’ora abbia vissuto l’Occidente, con i ceti medi anch’essi in difficoltà nella crisi. Renzi non ha mai dedicato vera attenzione e vero interesse al partito, anzi lo ha spesso “maramaldeggiato” ai propri fini. E oggi?! “Peggio della sconfitta è stata la reazione alla sconfitta. Una totale rimozione delle sue cause, E poi ancora lo psicodramma 5 stelle sì 5 stelle no, usato come una manovra diversiva per non discutere delle conseguenze di questa sconfitta “epocale”. Infine gli appelli all’unità, al rispetto al pluralismo, da parte di chi ha compilato le liste elettorali in maniera “padronale”, con la sola volontà di “asfaltare” ulteriormente la rappresentatività della minoranza all’interno del Partito”. Così Giuseppe Provenzano nel suo intervento all’assemblea. E continuando l’attacco diretto all’ex premier: “Quando hai perso le elezioni, hai perso il referendum, hai perso 6milioni di voti, quando sei sparito da intere aree geografiche e aree sociali del Paese. Quando sei stato il nuovo al potere, il più giovane Presidente del Consiglio dei Ministri nella storia repubblicana, ma tutti i giovani italiani ti voltano le spalle. Ti vuoi chiedere perché? Renzi non è certo l’unico responsabile della scomparsa del centrosinistra italiano. Non basta guardare agli ultimi 5 anni e forse non basta guardare nemmeno ai 10 anni trascorsi dalla nascita del Partito Democratico. Bisognerebbe probabilmente andare indietro almeno di 25 anni. Ma ha la responsabilità di aver catalizzato in così poco tempo un ‘odio’ nei confronti del PD, così forte, da far ottenere 17milioni di voto al M5s e alla Lega e quasi tutti provenienti dalle fasce popolari. Se non si vuole relegarli e regalarli per sempre all’opposizione tra sistema e anti-sistema o anche quando si parlerà di Europa di europeisti e anti-europeisti. Facendo finta che la globalizzazione non abbia polarizzato ulteriormente il conflitto già esistente tra Nord e Sud del Mondo. Abbia colpito le condizioni di vita di molti anche in questa parte ricca del Globo, che è l’Occidente. Aprendo spazi alle diseguaglianze e alla crescita di un’ampia area di povertà assoluta, anche qui da noi. Accentuando la contraddizione tra inclusi e esclusi nella nostra società”… C’è da chiedersi, quando il PD deciderà finalmente di parlarne? Pare alquanto indicativo di come questo ‘silenzio’ crei un profondo disagio in molti piddini. Un altro esempio di questo forte disagio è ciò e che, informandosi sull’andamento dell’assemblea del PD è chiedendo: “E Maurizio Martina cosa fa? Non può permettere tutto questo. Ragazzi fate qualcosa, quello è entrato in casa nostra, ha sfasciato tutto il mobilio e adesso si è messo a mangiare i pop corn coi piedi sul tavolo”. Queste le parole di Olga D’Antona (ex deputata dei DS), alla fine della cerimonia in ricordo del marito Massimo D’Antona, il giurista assassinato 19 anni fa in via Salaria dalle nuove Brigate Rosse. Apprendendo la decisione dell’Assemblea PD di rinviare la formalizzazione delle dimissione di Matteo Renzi da Segretario e la conseguente non elezione nell’incarico di Segretario di Maurizio Martina almeno fino al congresso. Non resta che chiedersi del perché di questa ulteriore… inutile tregua, per una lenta agonia…

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