Politica: Al Nazareno siamo all’anno zero. Nel Pd è “casino totale”, c’è chi pensa che forse è meglio lasciarsi per restare amici…

Le divisioni interne ai democratici (che compiono 15 anni) non sono più tra radicali e riformisti, ma sono solo ormai tra potentati. Per azzerare questa Babele, che non riesce più neanche a dibattere, bisognerebbe probabilmente prima dividersi di nuovo in due tronconi. Ci si risveglia dal sogno. La realtà è che tutto va male e il Pd apre la discussione su tutto, come se si fosse all’anno zero e non al quindicesimo compleanno del partito fondato il 14 ottobre 2007. Eppure, è storia vecchia, il male oscuro dei dem. «Le difficoltà in cui il Pd si è trovato all’indomani della sua nascita erano ampiamente prevedibili. Anzi, sono state l’inevitabile effetto delle decisioni dei “quarantacinque”. La scelta delle regole, infatti, è stata in gran parte finalizzata alla messa in sicurezza delle classi dirigenti dei Ds e della Margherita, e, conseguentemente, l’apertura alla cosiddetta società civile è stata in gran parte fittizia: consentita “in entrata”, con le candidature, ma non “in uscita”, con gli eletti». Queste parole le ho lette in un volumetto uscito nel 2009, solamente due anni dopo la nascita del Pd, scritto da Paola Caporossi, una studiosa di problemi dello Stato né diessina né margheritina che fece parte dei “quarantacinque”, il comitato che scrisse le regole del nuovo partito. Il piccolo libro si chiamava significativamente “La comparsa. Perché il Partito democratico non è mai nato”, (Pascale edizioni). Caporossi aveva dunque visto giusto, molto presto, su quello che sarebbe poi diventato il male incurabile del partito fin dai suoi primi passi. Ne sa qualcosa Walter Veltroni che pagò un prezzo personale esattamente per questo: la lotta per la sopravvivenza di due ceti politici – Ds e Margherita, appunto – a scapito della tanto evocata apertura alla società civile, ai senza partito, alle espressioni di culture altre rispetto a quelle dei due partiti fondatori. Eppure, Romano Prodi era stato chiaro fin dall’anno precedente la fondazione del nuovo partito: «Se non affrontiamo la costruzione del nuovo partito col senso del nuovo, col senso della felicità di costruire qualcosa di diverso, non supereremo mai gli ostacoli che esistono (…). Se non andiamo a passo veloce finiremo col cadere, e se ci si ferma, poi riprendere il cammino diventerà quasi impossibile» (4 luglio 2006). Invece prevalse il professionismo del ceto politico, e per certi aspetti era inevitabile. Poi andò sempre peggio – il famoso amalgama non riuscito – con l’esasperazione della lotta politica interna da un lato e della corsa ai posti di potere dall’altro (le due cose stanno insieme). La scalata di Matteo Renzi non sarebbe stata possibile se il Pd fosse stato già in grado di mostrarsi come un partito nuovo, di rottura con il passato e insieme di recupero delle cose migliori dello stesso passato. E il renzismo ha cambiato ulteriormente in peggio lo scontro di potere nel Pd. Lui lo continua a coltivare ed a usarlo ancora oggi che ne è uscito. Con le sue maniere forti, eppure corroborate dal consenso, Renzi aprì una nuova stagione che stava comunque dentro la storia del progressismo italiano e le dava una prospettiva nuova, la prima e unica rottura (la rottamazione) con i vecchi schemi. Finita anche quella fase nel modo che sappiamo, con la sconfitta alle politiche del 2018, è partita una stagione nella quale sono venuti a galla, incrostati, tutti i problemi mai risolti negli anni precedenti: lotte interne, linee politiche improvvisate, filiere di potere, leadership deboli, chiusura a riccio. Ed eccoci giunti fino a oggi. Al quindicesimo compleanno, il Pd dimostra molti più anni. E, come un vecchio, è colpito da anchilosi che non gli consentono di muoversi liberamente. Pur con tanta gente bella e anche numerosa che lo vota, il Partito democratico non sa dire che cosa vuole e che cosa serva al Paese. Soprattutto, non si scorgono nuove leadership all’altezza del dramma storico che il partito sta vivendo. Enrico Letta non ce l’ha fatta. Marianna Madia, veltroniana della prima ora e passata abbastanza indenne tra le onde correntizie, ha scritto su Huffington Post: «Ascoltando il dibattito di questi primi giorni dico con chiarezza che se il prossimo congresso deve essere la resa dei conti tra le correnti radicali e quelle liberal, l’errore è talmente grosso che è meglio sciogliere prima il Pd». Lo dice anche Rosy Bindi. Forse ha ragione, può essere persino che la divisione interna non sia nemmeno più tra radicali e riformisti (per quanto, sarebbe giusto rimetterla al centro e tornare a parlare di politica) ma tra potentati, che in realtà sono debolezze, gruppi e clan di vario tipo, personalismi nazionali e locali, lotta per la difesa delle proprie posizioni, anche prosaicamente di lavoro, di stipendio. Per cui azzerare questa Babele interna, come chiedono in molti (ma poi nessuno fa niente), sarebbe o meglio, appare una mossa preliminare saggia per poi trarre le conclusioni politiche magari come accennato scindendosi in due tronconi, stante la conclamata impossibilità di tenere insieme tutto e il contrario di tutto: Pier Luigi Bersani non può stare con Giorgio Gori, né Andrea Orlando con Marco Bentivogli. Personalmente, sono per non buttare via tutto (occorre tenere conto di essere il secondo partito italiano con un 20% di voti, e terrei anche il nome). Eviterei di pensare che tutto il dibattito gira attorno all’ennesima testa da far saltare per metterci un altro Segretario… Discutere non vuol dire “uccidersi l’un l’altro nel gruppo dirigente… discutere a partire da se stessi e dal proprio ruolo, è il presupposto minimo e necessario ad ogni reale cambiamento. Invece, ormai, non si assiste più a una sana e fisiologica dialettica tra componenti, ma è, come il romanzo di Jean-Claude Izzo, un “casino totale”. Eppure, non dovrebbe essere così difficile esternare per aggregare su qualche idea il partito. Il Pd sa benissimo che: “siamo un Paese fragile”. Dove il divario tra ricchi e poveri è sempre più ampio in questo (pericoloso) nuovo mondo. La pandemia, la guerra, l’aggravarsi della crisi climatica e la fiammata dell’inflazione hanno innescato una tempesta perfetta che, come tutte le tempeste perfette, sta colpendo dove può arrecare maggiori danni e maggiori sofferenze. Viviamo in un pericoloso nuovo mondo! Un nuovo mondo ritenuto pericoloso perché il valore della democrazia è considerato sempre più a rischio, visto che ormai il 40 per cento del Pil globale arriva da Paesi non “liberi”. Perché la povertà alimentare cresce, il commercio internazionale decresce e l’emergenza climatica è oramai una drammatica quotidianità. Ma tornando al tema del Pil, quello globale sconta un ribasso dal +5,7 per cento del 2021 al +2,9 per cento previsionale del 2022. E, relativamente a quello italiano, le previsioni di crescita si attestano al +3,2 per cento per il 2022 e al +1,3 per cento per il 2023. Rivisto pochi giorni fa in uno +,8%. E la Banca d’Italia non esclude neppure il ritorno a un Pil in negativo nel 2023 (-2 per cento). Poi c’è l’impennata dell’inflazione. In Italia, il dato del +7,8 per cento ci fa tornare indietro di 40 anni: nel 1985, era al +9,2 per cento e da allora a oggi mai aveva toccato tale picco. Stessa cosa accade ai prezzi per le spese di abitazione e utenze il cui incremento ci fa pensare ai livelli del 1980 o per i trasporti. Si calcola che la perdita media del potere d’acquisto delle famiglie italiane sarà di circa 2.300 euro annui. Alla luce di ciò ben si comprende il dato che indica in 24 milioni i nostri connazionali che quest’anno hanno sperimentato almeno un disagio o che hanno dovuto sopportare dei sacrifici di carattere economico, e in 18 milioni coloro che non sono in grado di raggiungere un livello accettabile per quanto riguarda i beni di cittadinanza, cioè cibo, energia e salute, facendo crescere di 6 milioni le persone sotto la soglia di povertà. E infatti il 57 per cento dichiara già oggi la difficoltà di pagare l’affitto e il 26 per cento pensa di sospenderne o rinviarne il pagamento e, nel caso di luce e gas, un italiano su 3 entro Natale potrebbe non coprire più le spese per le utenze. Non basta più essere le formiche d’Europa, quando poi risultiamo ultimi nella classifica di chi dichiara di spendere di più per godersi il presente e quando il 30 per cento della popolazione vive in una condizione di disagio che si traduce in una classe media sempre più in difficoltà e consapevole che avere un impiego non vuol dire anche avere una vita dignitosa. I nostri salari, per fare un esempio, sono gli stessi degli spagnoli, ma il costo della vita è del 20 per cento più alto del loro, il nostro è paragonabile a quello della Germania dove però gli stipendi sono superiori ai nostri del 33 per cento. Da noi il 28 per cento degli impiegati guadagna meno di 9 euro lordi all’ora. 23 italiani su 100 non arrivano a 800 euro e 900mila persone hanno un reddito da lavoro dipendente che non raggiunge i mille euro: il doppio delle persone rispetto a 15 anni fa. A questo dobbiamo aggiungere il fatto che 3,2 milioni di persone lavorano in nero, a 4,2 milioni è stato imposto un part-time e 3,1 hanno un contratto a termine. Se consideriamo anche che l’inflazione potrebbe ancora aumentare, appare chiaro a tutti che questa nuova classe di lavoratori è la “working poor”, quella che purtroppo da qui alla fine dell’anno si troverà costretta a decidere se pagare prima il mutuo o l’affitto di casa, oppure le bollette oppure la spesa. Stiamo parlando di un italiano su tre. Per contro, si rileva una crescita importante del mercato del lusso. Il mercato immobiliare delle abitazioni da oltre un milione di euro, per fare un esempio, ha segnato un più 46 per cento come anche quello delle automobili di alta gamma che ha registrato un più 16 per cento. Un altro dato che cresce è quello della forbice tra chi ha poco e chi ha troppo. Infatti, la ricchezza posseduta da pochi segna un aumento del 36 per cento. Tutto ciò, mostra un’immagine di un’Italia chiamata ad affrontare sfide molto impegnative che richiedono uno spiccato senso di responsabilità per coloro che sono stati chiamati al governo del nostro Paese. Un Paese reso sempre più fragile dal costante accentuarsi del divario tra la parte crescente di individui in sofferenza e quella più esigua, ma sempre più abbiente, di ricchi. Il Pd ha quindi di fronte a se uno scenario da cui trarre un’identità più precisa che lo caratterizzi come un partito che difende insieme diritti sociali e diritti individuali… rinnovando un patto con gli elettori di trovare una nuova strada per uno sviluppo sostenibile in un quadro di nuova solidarietà sociale e di ridistribuzione equa delle risorse e di salvaguardia dell’ambiente… Basta con le discussioni interne al gruppo dirigente, tese alla pura difesa del ceto politico. Aprirsi veramente (e non solo a parole) alla Società italiana che è cambiata (e non certo in meglio) e ha bisogno che il ceto politico cambi in ragione di trovare nuove risposte solidali in un quadro che vede arretrare le condizioni di vita di milioni di cittadini italiani, salvaguardando altresì la pace in Europa e nel Mondo, messa in discussione dalla guerra di Putin all’occidente e alle sue democrazie. Quanta materia per un ricco e proficuo dibattito congressuale che puntualizzi e arricchisca l’identità politica del Pd. Naturalmente c’è chi auspica invece la fine del Pd e una ulteriore scissione in due o più tronconi per mai sopiti rancori e frustrazioni del suo gruppo dirigente. E può quindi anche accadere che, dividendosi ancora, si porti ulteriore acqua ai mulini di Giuseppe Conte e di Carlo Calenda. Certo, che si può dire tutto, in questa fase. Persino gli intellettuali sono tornati a parlare di politica. Il tempo però non è eterno. Fate presto, vorrei dire ai membri della Direzione del Pd che si riuniranno il 9 ottobre: decidete il percorso congressuale, ma fate anche luce su qualche idea. Sapendo che, nella vita e anche in politica, è meglio essere chiari, onesti, e alla fine di un dibattito congressuale vero ed approfondito se proprio è impossibile stare insieme anche eventualmente separarsi. Ma, restando almeno amici, cioè alleati contro una destra preoccupante. Non è una strada facile né indolore ma pare essere ormai l’unica percorribile…

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