Politica: c’è chi pensa e dice che, il popolo ha sempre ragione!

È dalla grande crisi finanziaria del 2008 che uno spettro s’aggira per l’Europa: il populismo. Un fenomeno politico globale nato fra gli anni ‘80 e i ‘90 e che in questo primo quarto di secolo, di questo primo secolo del terzo millennio, ha attraversato almeno una trentina di Paesi europei e in una decina è arrivato a governare; e oggi il vento e non solo in Europa, sta ulteriormente soffiando forte a destra… Ultimo caso nel vecchio continente è la Slovacchia, dove il filorusso Fico ha conquistato per la terza volta il potere. Nell’area di destra, i partiti populisti, sovranisti e nazionalisti sono più di una cinquantina: tutti contro la Ue, la Bce, il Fondo Monetario, i migranti, gli accordi sul clima, l’aborto, la globalizzazione e la parità di genere. Una decina di questa cinquantina sono ascrivibili alla sinistra o sono difficilmente etichettabili, e con varie differenze. Cos’è il populismo? Il dato comune è quello di contrapporre il popolo, per definizione virtuoso, alle élite sempre corrotte e malvagie. È un’ideologia che – secondo uno dei politologi che più l’hanno studiata, l’olandese Matthijs Rooduijn – crea un rapporto diretto con i leader e può anche non discendere da particolari tradizioni politiche. Pesca soprattutto fra i giovani in difficoltà socioeconomica e con livello d’istruzione medio-basso, perlopiù maschi. Fiorisce tanto fra i conservatori inglesi o americani (vedi l’elezione di leader come Boris Johnson e Donald Trump) quanto fra i progressisti francesi (La France Insoumise di Mélenchon) o tedeschi (Die Linke), mentre in altri casi (Sinn Fein in Irlanda, il Movimento 5 Stelle in Italia) mischia elettorati diversi. I figli naturali del populismo sono il sovranismo, che antepone i bisogni d’un singolo popolo alle politiche delle istituzioni internazionali, e poi il nazionalismo, che esalta i concetti di patria, di protezionismo economico, di difesa dell’etnia. Un’ascesa costante. «I cittadini voluti dal popolo» intercettano le paure, il malcontento, le frustrazioni di molte opinioni pubbliche. Se nel 1998 i populisti erano al governo di due soli Paesi in Europa, riguardavano appena 13 milioni d’elettori e valevano meno del 7% dei voti, vent’anni dopo governavano già undici Stati e 170 milioni di cittadini: nel 2018, un europeo su quattro aveva deciso di votare per loro. Anche l’ultimo grande Paese del continente che sembrava estraneo al fenomeno, il Portogallo, ha fatto registrare l’ascesa del sovranista xenofobo André Ventura. Insomma, in Europa l’aria soffia forte a destra, e alle europee 2024, molti di questi partiti saranno determinanti. Ma fino a che punto i populisti sono disposti a spingersi? E che cos’hanno fatto, finora, di tutto ciò che promettevano? Andiamo con ordine. Più a destra della destra. il 15 ottobre si è votato per le politiche in Polonia era favorito è il partito Diritto e Giustizia (PiS), fondato nel 2001 dai gemelli Lech e Jaroslaw Kaczynski. Andò per la prima volta al governo nel 2005, alleato con l’estrema destra: Lech faceva il presidente, Jaroslaw il premier. Il PiS è tornato al potere nel 2015, vincendo con Andrzej Duda sia le presidenziali che le politiche. Ha il 35% e le sue principali battaglie sono contro l’aborto e diritti Lgbt. La sua riforma per imbrigliare la magistratura è stata bocciata dalla Corte di giustizia europea, che ha bloccato 36 miliardi. La guerra di Putin ha fatto della Polonia un baluardo Nato, costringendo anche a rivedere le dure politiche di respingimento degli immigrati condivise con gli ungheresi, i cechi e gli slovacchi nel Gruppo di Visegrad: al confine con la Bielorussia c’è un muro per fermare pakistani e curdi, ma si potevano non accogliere i «fratelli» ucraini? Quest’apertura ha provocato però le proteste degli agricoltori, danneggiati dall’invasione del grano ucraino venduto sottocosto. E l’ascesa fino al 9% di Konfederacja, un partito più a destra del PiS, spinge Duda ad accontentare i contestatori, dando meno armi a Kiev. Ma da ieri, nonostante il Pis sia ancora il partito di maggioranza relativa, non è più al governo. Donald Tusk è il nuovo premier. “Dopo l’autocrazia torna il diritto”. Polonia, a due mesi dalle elezioni, il sovranista uscente Morawiecki è stato bocciato in aula. Passa invece il premier europeista Ue Donald Tusk: “ è una buona notizia!” In Olanda, dopo tredici anni di centrodestra e di governo del «frugale» Mark Rutte, le elezioni politiche del 22 novembre hanno aperto la via al negazionismo climatico e alla lotta all’immigrazione del Bbb, il Movimento Civico-Contadino: fondato quattro anni fa, ha già incassato il 10%. Al suo fianco si è affermato il populista Partito per la Libertà di Geert Wilders, amico di Salvini,oggi al 10,8%. Un tempo sinonimo di tolleranza, l’Olanda è diventata un Paese simbolo del populismo. Dagli anni‘80, quattro partiti di destra agitano la bandiera della lotta all’immigrazione. Qui c’è stato il primo assassinio politico d’un leader sovranista, Pim Fortuyn, nel 2002. Nazionalisti e sovranisti. In Francia, il Front National di Jean-Marie Le Pen nato negli anni ‘70 ha cambiato nome. Nel 2018, la figlia Marine l’ha ribattezzato Rassemblement National. Ha mantenuto la linea xenofoba, ma per avere i voti moderati ha avviato il processo di «dediabolisation»: se vogliamo i voti moderati, dice, non dobbiamo più farci demonizzare come accade ai neofascisti. Così, non si parla più d’uscita dall’Ue e dall’euro, ed è passata in pochi anni dal 10,4% al 18,6%, con punte del 24%, e Marine Le Pen ha tentato due volte la corsa all’Eliseo e mira a fare della Francia, scrive The Economist, «il secondo grande Paese governato dalla destra dura, dopo l’Italia». Determinanti per lei i voti di Reconquête, movimento fondato nel 2022 dal giornalista antiimmigrati Éric Zemmour, che nella corsa per l’Eliseo ha ottenuto il 7%. Fra i sovranisti francesi c’è infine la Nupes, il cartello che va dai comunisti agli ecologisti, ed è guidato da France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon vale il 25,66% e ha posizioni anti-Ue e anti-Nato non troppo diverse da quelle dei vecchi lepenisti. In Spagna è in ascesa il sovranismo neofranchista di Vox, nato nel 2013 e molto caro a Giorgia Meloni. Ma al voto del luglio, a sorpresa, Vox non ha sfondato: molti gli rimproverano una politica troppo «di compromesso». Nel 2015 sono arrivati al 16% anche i populisti liberali di Ciudadanos, paladini antiburocrazia. Ma sono radicati soprattutto in Catalogna e contano meno: la causa dell’indipendentismo catalano li ha un po’ oscurati. In Belgio, il partito Vlaams Belang (Interesse fiammingo) rivendica l’indipendenza delle Fiandre, e chiede lo stop all’immigrazione. In Parlamento ha 18 seggi su 150. Da quando un sondaggio l’ha indicato come primo partito (26%), il movimento ha abbracciato una linea più moderata: parla meno d’indipendenza e, soprattutto, sono state abbandonate le posizioni no-vax degli ultimi tempi. In Estonia la guerra ha cambiato tutto per i populisti di Ekre, entrati nella coalizione di governo. Alle ultime elezioni sono state punite le loro posizioni filorusse e antieuropeiste. Ekre fiancheggiava apertamente Mosca e temeva l’invasione dei profughi ucraini «che portano l’Hiv». Ma a chiuderne l’esperienza è stato lo scandalo che ha travolto il premier russofono Jüri Ratas, accusato di corruzione assieme a un ministro di Ekre che prometteva «tolleranza zero sulla corruzione». In Slovenia, il partito populista SDS e il suo premier nazionalista Janez Janša, detto «il piccolo Orbán sloveno» per il suo modo di denigrare gli avversari, nel 2022, ha perso le elezioni. Gli avversari gli rimproverano l’accanimento sui giudici, l’amicizia con Trump (l’ex first lady, Melania, è slovena) e un piccolo impero mediatico sostenuto da Budapest (anche se, al contrario di Orbán, Janša è fortemente anti-Putin). Durante la presidenza slovena dell’Ue, le bordate all’Europa non hanno aiutato: nel 2021 il vertice a Brdo, che doveva servire a sdoganare l’ingresso di gran parte dei Balcani nell’Unione, s’è rivelato un fallimento. Tuttavia, il suo partito SDS resta ancora il secondo partito sloveno con il 23,5%. Gli xenofobi. In Germania c’è l’AfD, antisemita e islamofobo, ha sfondato nel 2017 col 12,6%, diventando il terzo partito tedesco. Oggi è al 21%, ma rimane fortissimo non solo nei Lander orientali Meclemburgo-Pomerania Anteriore (31,5%) e in Turingia (34%), ma recentemente ha avuto ottimi risultati anche in Baviera e in Assia. L’AfD resta confinato all’opposizione e nel 2015 s’è anche spaccato sul diritto d’asilo dei migranti siriani, accolti da Angela Merkel, ma è il punto di riferimento di numerosi gruppuscoli xenofobi e razzisti come Die Freiheit, il Movimento identitario antiturco, il neonazi Die Heimat, il Partito nazionaldemocratico Npd e soprattutto con Pegida (Patrioti europei contro l’islamizzazione e il tramonto dell’Occidente), organizzazione che s’è presentata al voto solo a Dresda nel 2015 (10%) ed è stata condannata per incendi alle moschee. Il leader Lutz Bachmann ama farsi selfie truccato in stile Hitler. Entrata al Bundestag, l’Afd ha sfumato qualche posizione: il principale candidato alle europee, Maximilian Krah, sostenitore dell’inutilità dell’Ue, ora riconosce che è necessario un coordinamento politico dell’Europa. In Austria, nel 2000, stupì la prima vittoria dei nazionalisti del Partito della Libertà (FPÖ) di Joerg Haider. Travolto dall’Ibizagate, lo scandalo dei finanziamenti russi al partito, il Fpö sembrava finito. Il cancelliere conservatore Kurz e il suo successore, Nehammer, l’avevano «cannibalizzato»: il primo impedendo un referendum per l’uscita dall’Ue e qualsiasi imposta patrimoniale e di successione (tutti punti nel programma dell’alleato FPÖ), il secondo facendo sua la proposta d’inserire nella Costituzione il diritto all’uso di denaro contante. Ma poi il no alle sanzioni a Mosca e una forte posizione xenofoba lo hanno resuscitato: l’FPÖ è tornato al potere assieme ai centristi dell’Ovp in tre coalizioni locali. Nei sondaggi delle Europee 2024 è dato al 29%, e può essere determinante anche per una coalizione di governo. In Grecia non hanno più superato la soglia di sbarramento i neonazisti di Alba Dorata, che nel 2014 erano diventati il terzo partito greco (9,3%) e chiedevano l’uscita dall’Ue, l’espulsione degli immigrati e l’abolizione dei sindacati. Il loro declino è iniziato con l’arresto dei vertici del partito, accusati d’aver ordinato nel 2013 l’uccisione del rapper antifascista Pablos Fyssas. Il caso Gran Bretagna. L’esperimento più disastroso è sicuramente la Gran Bretagna. I nazionalisti dell’Ukip chiedevano la de-islamizzazione del Paese, l’indipendenza degli inglesi dal Regno Unito e l’uscita dall’Ue. Diventati primo partito nel 2014, nel 2016 hanno ottenuto la Brexit con un referendum. Ma il loro leader, Nigel Farage, ha abbandonato subito la politica. Oggi, il risultato della Brexit è evidente: secondo l’Osce, la crescita del Pil inglese dei prossimi due anni sarà la peggiore fra le grandi economie mondiali, seconda solo a quella della Russia che è un Paese in guerra. A Downing Street si sono succeduti cinque premier in sei anni. Farage ha ammesso che «la Brexit è stata un fallimento». E l’Ukip è precipitato dal 27,5 delle europee 2014 allo 0,1% delle ultime politiche. I populisti di sinistra. Con le elezioni 2023 si è chiusa definitivamente in Grecia la stagione dell’ex premier Alex Tsipras e dell’economista ideologo, Yanis Varoufakis. Il loro movimento Syriza è una coalizione di 14 sigle della sinistra radicale: cresce con la crisi del 2008 dei debiti sovrani e chiede tagli della spesa militare, nazionalizzazione della sanità, revisione di tutti accordi con la Ue e la Bce. Nel 2015, Syriza sfiora la maggioranza assoluta in parlamento e, per rinegoziare con Bruxelles il pesantissimo debito greco, indice un referendum popolare: il 61,5% dei greci dice no alle misure Ue. Una settimana dopo Tsipras rompe con Varoufakis e accetta l’austerità imposta dall’Europa. La Grecia si salva, Syriza no: precipita al 17,8%. E come leader, al posto di Tsipras, elegge addirittura un ex banchiere americano di Goldman Sachs. In Spagna è precipitato, dal 21 al 13% Sumar, una coalizione trainata da Podemos: un partito populista di sinistra ispirato al «We Can» di Obama. Presentato nel 2014, sull’onda delle proteste di piazza degli Indignados, dopo un anno, Podemos era già il terzo partito di Spagna. Nel 2018, va al governo in coalizione col premier socialista Pedro Sanchez e il suo appoggio è fondamentale per ottenere il reddito minimo garantito, l’aumento della spesa sociale, l’eutanasia, i diritti delle persone trans. Ma il salto dalla protesta al governo costa caro, gran parte del programma è stravolto dalla pandemia e a diversi punti si dice addio: dalla Tobin tax sulle transazioni finanziarie, all’abolizione di alcuni accordi di libero scambio. I sovranisti di destra al governo. L’ultima sorpresa è la Finlandia, con i Finns, il partito dei Veri Finlandesi. Nel 2015 ottennero per la prima volta quattro ministri, ma l’esperienza si concluse con una scissione. Nazionalisti e antiimmigrati, chiedevano l’uscita da un’eurozona accusata di buttare soldi per aiutare Paesi «cicala» come l’Italia. Oggi, che con il 20% sono il secondo partito e sono appena tornati al governo insieme agli alleati liberali del partito Kok, non parlano più di uscita dalla Ue. Ok all’austerità, ma salvando la spesa sociale. Sì, anche all’ingresso della Finlandia nella Nato, deciso dal precedente governo socialdemocratico, nonostante i Finns abbiano fino all’anno scorso sostenuto l’opposto. Fratelli d’Italia, radici neofasciste, nazionalisti, euroscettici, anti immigrati. Una volta al governo si è ammorbidito e Giorgia Meloni, scrive l’agenzia Reuters, «nonostante la retorica spesso infuocata, preferisce la cautela allo scontro, promuovendo lo status quo». Soffre però la concorrenza a destra della Lega, suo alleato. In Svezia i Democratici Svedesi, nati trent’anni fa in nome del suprematismo bianco e apertamente contrari all’emancipazione femminile, difendono «l’uniformità etnica svedese» e sono islamofobi. L’anno scorso – anche grazie alla forte campagna negazionista sul Covid, sono diventati il secondo partito svedese ed entrati col 20,5% nel governo. Da quel giorno hanno deciso d’abbandonare una loro vecchia battaglia: un referendum contro l’Ue. Infine, l’Ungheria, il modello di riferimento di tutti i sovranismi di destra europei. Il partito Fidesz, liberale negli anni ’80, ha virato a destra fino a diventare nazionalista e fortemente anti-Ue. Dal 2018 ha la maggioranza assoluta e il suo leader, Viktor Orban, continua a non avere rivali. Ha costruito in Europa il primo muro antiimmigrati, ha ridotto le libertà di magistrati e cittadini, ha imbavagliato i media. È stato espulso dal gruppo dei Popolari europei. Con la guerra, suo malgrado, ha accolto i profughi pur soffiando sulla minoranza ungherese in Ucraina. Quando stava all’opposizione, Orban si batteva per l’integrazione europea e accusava i socialisti al governo di fare affari con Putin e il suo gas. Una volta al governo, uno dei suoi primi accordi l’ha chiuso proprio col colosso energetico russo Rosatom. E oggi è lui, in Europa, il miglior alleato di Putin è lui.

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