L’aumento dell’occupazione nel lavoro dipendente registrato dall’Istat è la coda lunga del rimbalzo tecnico postcovid del Pil e, nello specifico, potrebbe essere stato trainato dalla riduzione della cassa integrazione che ha spinto gli occupati a tempo indeterminato over 50, maschi e femmine, a tornare al lavoro. Va comunque sempre tenuto conto che, in queste rilevazioni statistiche, non si discute della natura del lavoro prodotto, né del significato di «contratto a tempo indeterminato». Come sappiamo, dal Jobs Act di Renzi (2015), il significato di questo istituto è significativamente cambiato nel senso deteriore del termine. Dal punto di vista della quantità del lavoro l’Istat ha certificato un dato mensile (+82 mila occupati) e annuale (+496 mila occupati), i dipendenti sono circa 18 milioni 250 mila lavoratori. Logicamente il tasso di disoccupazione e inattività sono scesi al 7,8% e al 34,3% rispettivamente. Il tasso di occupazione è salito al 60,5%, un (valore record dal 1977, primo anno della serie storica. Ma anche in questo caso il dato va relativizzato. Rispetto all’economie capitalistiche paragonabili a quella italiana, si tratta del tasso di occupazione tra i più bassi. Uno degli effetti di un mercato del lavoro tra i più selvaggi e arretrati d’Europa dove i salari sono fermi da trent’anni e la produttività del lavoro è una delle più basse. Questi aspetti emergono se si inizia a fare un’analisi «qualitativa» del lavoro prodotto. Da ultimo lo ha ricordato un rapporto del Forum Disuguaglianze e diversità secondo il quale dal 1990 al 2020 c’è stata una riduzione del salario medio di circa tre punti percentuali. In altre economie come quella coreana, irlandese, Usa o britannica è aumentato tra il 50 e il 90%. In un articolo sulla rivista «Il Mulino» Valeria Cirillo, Matteo Lucchese e Mario Pianta hanno ricordato che questa situazione ha radici profonde nel declino produttivo, nei forti divari di genere e territoriali, nel ritardo nei livelli di istruzione, nella crescente diffusione di forme di lavoro precario e precarissimo. Sono aspetti fondamentali, del tutto invisibili se qualcuno li avesse proprio voluti cercare tra i titoli urlati sui siti di informazione online. Tutti replicavano in fotocopia i dati nudi e crudi senza un minimo di contestualizzazione. Ma questa è ormai davvero la norma. Ci siamo abituati da quando l’informazione statistica del lavoro è diventata la fonte della società dello spettacolo. E non si contano i governi che hanno speculato su uno zero virgola in più congiunturale. Quello dell’estrema destra postfascista e leghista sembra totalmente distratto. Quindi, sale l’occupazione ma i salari sono fermi! L’economia italiana sorprende sia gli osservatori sia gli studiosi. Più che la tenuta della (bassa) crescita nel 2023, in queste ultime settimane le notizie più sorprendenti riguardano proprio il mercato del lavoro. Negli ultimi dodici mesi l’economia italiana ha creato come si accennava quasi mezzo milione di posti di lavoro in più. È un numero davvero impressionante, poiché corrisponde a una crescita annua degli occupati superiore al due per cento. I più adulti tra chi qui legge ricorderanno la sparata e la promessa di Silvio Berlusconi quando a metà degli anni Novanta del secolo scorso scese “in campo”. Il Cavaliere promise agli italiani un milione di nuovi posti di lavoro in una sola legislatura. Il fatto che in un solo anno, tra l’altro in un contesto di bassa crescita, ne siano stati creati quasi mezzo milione, potrebbe portare a parlare di un apparente miracolo nel mercato del lavoro italiano. Il fenomeno più sorprendente riguarda l’esplosione di posti di lavoro dipendente a tempo indeterminato, quello che le parti sociali e i politici chiamano “lavoro di qualità”. Mentre la crescita del lavoro autonomo è rimasta contenuta, nel 2023 sono stati creati più di quattrocentomila posti di lavoro stabili per donne e uomini. Il lavoro dipendente a termine è, invece, addirittura diminuito. Come si può spiegare il boom del lavoro a tempo indeterminato? La crescita degli occupati non è certamente dovuta a innovative politiche del lavoro, anche perché nel 2023 la legislazione sul lavoro è rimasta pressoché invariata, fatto salvo per la conferma della riduzione del cuneo fiscale già introdotta dal Governo Draghi nel 2022. La spiegazione più plausibile dell’apparente miracolo italiano del lavoro è verosimilmente legata all’altra faccia del mercato, ossia la bassa e inesistente crescita dei salari italiani. Tra il 2021 e il 2023 l’indice armonizzato dei prezzi al consumo – quello più utilizzato per i contratti di lavoro – è aumentato in Italia rispettivamente dell’8,7 per cento e del 5,9 per cento. Negli stessi due anni, la crescita delle retribuzioni è stata di circa il 3 per cento per anno. Mentre i prezzi aumentavano in un biennio di quasi il 15 per cento, nello stesso periodo i salari nominali aumentavano di solo il 6 per cento. Questo significa che i salari reali sono diminuiti di quasi il 9 per cento. In altre parole, per le imprese il costo del lavoro in termini reali in Italia è diminuito di quasi il 10 per cento. Come si insegna in qualunque corso di base di economia del lavoro, quando il salario reale diminuisce la domanda di lavoro da parte delle imprese aumenta. Inoltre, a seguito dei continui interventi della Banca Centrale Europea, nel 2023 i tassi di interesse sono aumentati da circa l’1 per cento al 5 per cento circa, riducendo inevitabilmente gli incentivi per le imprese a investire in nuovi macchinari. Come indicato dall’Istat, dopo un biennio di imponenti investimenti in edilizia legati al super-bonus e bassi tassi di interesse, nel 2023 gli investimenti aggregati sono cresciuti in Italia meno dell’1 per cento. Probabilmente, le imprese italiane nel 2023 hanno sostituito nuovo capitale troppo costoso con nuovo lavoro decisamente a buon mercato. Riassumendo, bene rallegrarsi per l’esplosione del lavoro a tempo indeterminato e per il quasi mezzo milione di posti di lavoro creati in un anno. Al tempo stesso, bene ricordare e sottolineare che chi sta davvero pagando la grande inflazione degli ultimi due anni sono le retribuzioni reali dei lavoratori. Cerchiamo di non sorprenderci e stupirci se tra qualche settimana o mese ci accorgeremo che i “lavoratori poveri” – già oggi sopra il 12 per cento del totale– continuano mestamente a crescere in Italia…
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