Sulla situazione internazionale, incentrata sulle primarie americane e l’eventuale vittoria di Donald Trump, assistiamo di fatto alla sospensione di ogni importante decisione qui in Europa ma non solo qui. In particolare, la sospensione riguarda quello che sarà lo sbocco finale di un possibile arretramento delle democrazie verso l’autoritarismo nel Mondo intero… visto che quest’anno vanno al voto ben 73 Paesi, ovvero bel il 50% degli abitanti del Globo. Disponiamo oggi di tanta valida letteratura sull’arretramento delle democrazie verso l’autoritarismo. Di tantissima, sulla polarizzazione identitaria spesso alimentata dal sistema mediatico con l’aiuto dei social. Di altrettanta, sulle ragioni sociali dello scempio della democrazia pluralista e deliberative a causa dell’ineguale forza dei ceti (diseguaglianze) di essere rappresentati a fronte di una società di individui soli e senza potere di influenza. Tanta è anche la letteratura sull’impatto dell’anarchia internazionale sul declino delle democrazie occidentali. Ma c’è un problema che non ha ancora attecchito o comunque non tanto da inaugurare una saggistica corposa. Parliamo del come si esce dalla degenerazione autoritaria. Questo è un problema non per domani ma per l’oggi. Poiché ci porta a riflettere sui disastri che questa involuzione sta producendo allo stato di diritto. Purtroppo per noi, a occuparsene sono solo i media. Gli studiosi non sembrano preoccupati, convinti che nulla possa davvero cambiare. Ma l’interesse dei mezzi di informazione si ferma alla dimensione narrativa – racconta quel che muove le emozioni. L’ultimo esempio qui da noi: le pagine dei giornali sono generose con l’ennesimo moto di vittimismo, ora da parte della sorella di Giorgia Meloni, che non sembra rendersi conto che stare al centro del potere non consente (povera lei) di avere una vita privata come tutti i cittadini, e traduce la popolarità con «ci vogliono male», «ci vogliono far cadere, ma noi resisteremo!» Ma ancora: la vicinanza a Palazzo Chigi è diventata una patente di ingresso o di uscita – una massima che ora disturba ma finirà per apparire normale. E molti studiosi e opinionisti credono ingenuamente che il sistema non cambierà. Appena chiuso il sipario sulla defenestrazione di Marino Sinibaldi dal Centro per il libro e la lettura, si apre quello del ministro Gennaro Sangiuliano che impone un regista vicino alla sua parte a dirigere i teatri di Roma, rinnovando i fasti del MinCulPop contro il “dominio” dell’arte e cultura antifasciste. E si potrebbe continuare con le notizie sulla cappa ispettiva sui magistrati o l’accusa di politicizzazione al Csm. Per punire l’indipendenza dalla destra, la destra elimina gli indipendenti. Il sistema non cambierà; la Costituzione anche qualora venisse cambiata si chiamerebbe Costituzione della Repubblica italiana, e le elezioni, pur con una nuova legge Acerbo, continueranno a tenersi. Ma dovrebbe interessare gli studiosi di politica e gli opinionisti l’infiltrazione negli apparati statali che la destra (in Italia come altrove) mette in atto, dimostrando grande disprezzo (anzi, timore) per il pluralismo, la critica e l’opposizione (se più di una innocua minoranza numerica in parlamento). Per questo, fa saltare la logica di una burocrazia autonoma. La separazione tra partito e stato – una conquista costata miseria e sangue in Europa — è quel che la destra non digerisce, neppure oggi. Conquistare le istituzioni, violare le regole condivise di nomina non sono meri fatti dm cronaca. Sono indicazioni pesantissime di un modus operandi che dimostra come una fetta di cittadinanza non abbia mai accettato che il potere della maggioranza venga limitato da organi non eletti; che la forza della volontà venga limitata dal potere della legge. Demolire la pratica e l’etica dello stato di diritto non richiede tanto sforzo, come si vede. Molto di più ne richiederà ricostruirla. Ecco perché dopo l’analisi della regressione verso forme autoritarie, resta da capire come se ne esce e, quindi, come fermarla. Oggi, si può dire senza preoccupazione di sbagliarsi che l’onda Trump in America indica tutta la stanchezza nel popolo americano in relazione al ruolo storico di poliziotto del mondo. I segnali si registrano ormai da tempo, ma diventano sempre più evidenti. Non è da oggi che l’America è sulla via del ripiegamento. Questo è dovuto sia ad una globalizzazione mal gestita che ha lasciato al freddo più di uno strato rilevante di popolazione anche negli Usa, moltiplicando la pressione sulle amministrazioni che si sono succedute: “occupiamoci degli affari di casa e del ceto medio impoverito, più che andare in giro a fare il poliziotto del mondo”. È la ragione per cui Trump vinse la prima volta e si ripropone oggi. Con buona pace di chi diceva che il covid ha sconfitto il populismo. Sì, Trump ha cavalcato e ha vinto anche su questi temi all’insegna del “facciamo l’America, non il mondo, di nuovo grande”. E di fatto Biden non solo ha ereditato questa situazione, ma l’ha addirittura accentuata. Perché ha continuato a dire che la politica estera americana era la politica del cittadino medio. Significa: ritiro delle truppe dall’estero, seguire le situazioni dal sedile posteriore, aver perso l’ambizione di essere il provider della sicurezza, il regolatore dell’economia, lo standard setter dei diritti. Dice Marco Minniti che se vince Trump, vuol dire che torna in grande lo spirito di America First: “L’Europa, a quel punto, sarà costretta ad assumersi le sue responsabilità, dovrebbe occuparsi da sola di sé stessa, di Medioriente, di Africa. E, non siamo preparati a tutto ciò”. Certamente, ma anche se vince Biden, dice ancora Minniti “che non darei prematuramente per sconfitto, ci saranno dei cambiamenti. Diciamo così: Biden rappresenta la sostanziale continuità, il fare le cose insieme. Ma non mi illuderei sul fatto che all’Europa non venga comunque chiesto un contributo maggiore negli scenari in cui dovrebbe essere protagonista. Insomma, un condominio, una collaborazione, ma comunque sempre più esigente e ‘accentuata’. Con Trump invece l’equilibrio del condominio e della collaborazione si potrebbe rompere. Non una semplice richiesta di maggiori oneri nell’ambito di un’azione comune. Ma uno scenario di sostanziale disimpegno americano che metterebbe l’Europa di fronte non solo a nuovi oneri, ma a tutte le sue contraddizioni”. Così, si innestano le crisi Ucraina e quella mediorientale. Infatti, gli Stati Uniti si stavano spostando verso lo scenario indo-pacifico per contrastare l’ascesa della Cina, vero rivale sistemico già oggi e ancor più in prospettiva. Solo che poi si sono ritrovati bruscamente in mezzo a due scenari che volevano abbandonare: da un lato l’esigenza di puntellare la sicurezza europea contro la guerra scatenata da Putin; dall’altro intervenire in Medioriente che si erano illusi di lasciare in mani sicure attraverso lo sviluppo degli accordi di Abramo innestati da Trump e proseguiti da Biden. Ovvero: mettere in sicurezza Israele in nome di una comune prosperità con i paesi arabi. Peccato che era rimasta fuori dall’equazione la causa palestinese e chi era interessato a bloccare questi sviluppi, l’Iran, l’ha presa a pretesto per fomentare la guerra di Hamas e bloccare la prospettiva di un ordine in Medioriente di segno occidentale. Ucraina e Medio Oriente: due conflitti e un labirinto. E quindi cosa possiamo pensare che succederebbe nel caso di una eventuale vittoria di Trump sulle crisi in atto? Sicuramente (lo sta già facendo in questi giorni) metterebbe innanzitutto sotto grande pressione l’Ucraina. Un conto è il flusso degli armamenti con gli Stati Uniti, un conto è se quel contributo si riduce. Più in generale si aprirebbe un enorme tema strategico per gli europei: quello del rapporto futuro con la Russia dopo che la situazione sul terreno avrà visto Putin rimanere in possesso del venti per cento circa dei territori ucraini. Con un’America che tendenzialmente si allontana, l’Europa rischia di dividersi su Putin, tra chi vorrà tornare ad una forma di realistico dialogo e chi vede in Mosca una minaccia esistenziale. E siccome Putin ne è consapevole è irrealistico pensare che, di qui alle elezioni americane, si possa trovare una soluzione alla crisi ucraina. In tal senso l’effetto Trump già c’è! Putin aspetta con ogni evidenza. Dà prova di consapevolezza e aspetta. Zelensky dà prova di preoccupazione e si adopera. L’Europa è inconsapevole e attendista. Auspica una vittoria di Biden, teme Trump ma poco fa per spiegare alle opinioni pubbliche come stanno le cose e non è un fatto solo italiano. E avanti così fino almeno al 5 novembre di quest’anno. L’esito più probabile è che la situazione vada avanti così. E, mentre Putin aspetta, la discussione tende a curvare dall’“aiutiamo l’Ucraina a vincere” al tema “mettiamo l’Ucraina in sicurezza”. Significa, da un lato, renderla un boccone quanto più indigesto possibile per evitare che Putin ci riprovi, rafforzando i rapporti con la Nato e Ue. Ma dall’altro implica il riconoscimento che una parte dei territori dell’Ucraina di fatto restano alla Russia. E questo comporterà una situazione di contrapposizione che rischia di protrarsi nel tempo in Europa e che metterà l’Ue di fronte a due interrogativi: il primo, è come reagire a questa situazione; il secondo come rafforzare le proprie difese, il che mette di nuovo i governi europei di fronte al bivio “burro o cannoni”. Non c’è una soluzione facile. L’Europa, inoltre arriva al voto del prossimo giugno già squassata dalla sfida democrazia-populismo. In Francia l’avanzata di Marine Le Pen, in Germania di AfD. E il presidente del Consiglio Michel che si dimette per candidarsi alle Europee… L’Europa arriva alle elezioni con tutte le sue fragilità, ma con il lusso – di avere ancora Biden in carica – e quindi di potersi ancora permettere di non scegliere. In un certo senso, il poliziotto del mondo c’è ancora. Poi si porrà il tema della coesione tra paesi europei più sensibili al pericolo russo, come Polonia, scandinavi e baltici, e paesi meno sensibili, come molti altri. E questa è un’ulteriore linea di faglia che si somma e aggrava quelle in atto dentro i singoli paesi attorno alla dialettica democrazia-populismo. Se vincerà Biden queste contraddizioni esisteranno, ma saranno attutite. Se vincerà Trump, per il solo fatto di esistere come presidente, anche senza forzare le situazioni, questi nodi rischiano di arrivare rapidamente al pettine. E proprio nel momento in cui sarebbe chiamata a scelte impegnative. Anche quanto accade nel Mar Rosso racconta di questo. Il Mar Rosso è la rappresentazione esemplare del bivio in cui si trova l’Europa. Affida le misure offensive necessarie per la sua stessa sicurezza a Usa e Uk, due potenze non europee, mentre dibatte su una missione puramente difensiva e di scorta navale. È comprensibile che questo avvenga perché esiste un problema di opinioni pubbliche specie in periodo di elezioni. Ma se l’Europa volesse contare, dovrebbe porsi il tema di incidere sulle cause dei blocchi navali nel Mar Rosso più che sugli effetti e decidere di partecipare alle azioni offensive degli anglo-americani. Il Mar Rosso è un esempio di come una via di comunicazione possa essere militarizzata: gli scambi internazionali usati come arma. Nel momento in cui viene limitato il traffico in un tratto di mare in cui passa il 12 per cento dei traffici mondiali, hai due fenomeni: aumento delle pressioni inflazionistiche ed effetti depressivi per i paesi direttamente destinatari dei traffici. È la classica derivata di un conflitto più generale che si sta già espandendo. Netanyahu è tra quelli che sperano che Trump vinca per via del rapporto personale tra i due. E pensa che la pressione americana sul Medioriente potrà essere minore, sia nel contenimento delle azioni attuate da Israele, sia per il futuro di Gaza e della prospettiva dei due Stati. Netanyahu scommette su questo. Ma un effetto Trump potrebbe esserci anche per l’Iran. Con Biden si cammina su una linea molto sottile: porre degli altolà a Teheran per evitare una maggiore destabilizzazione e la regionalizzazione del conflitto, ma non esasperare allo stesso tempo la tensione con l’Iran e le sue reazioni. Questa linea così sottile potrebbe essere trattata da Trump con maggiore disinvoltura e la tensione potrebbe crescere ulteriormente. D’altronde vale la pena chiedersi… che cosa è oggi la difesa europea senza la Nato. Oggi è poca cosa. È una sommatoria di sistemi di difesa e sicurezza nazionali. E avrà ancora a lungo forte bisogno dell’apparato americano. Si dovrebbe spingere sin d’ora sul tema delle capacità autonome per contribuire, Draghi docet, a un sistema coerente e forte di difesa e sicurezza occidentale. Il famoso due per cento di spesa militare sui bilanci nazionali è solo una componente, poi c’è la standardizzazione delle commesse militari e il tema fondamentale di come stimolare tra i paesi membri una visione più omogenea in politica estera. Ma la questione di fondo è culturale e di approccio: la disponibilità a usare le armi. Quella tendenza, molto forte a livello di opinione pubblica, segnata dal rifiuto che siano uno strumento necessario per garantire la pace. È il nodo tuttora non affrontato che condiziona il prosieguo dello sviluppo del tema sicurezza europea. Il mondo si divide sempre più tra chi se la sente e chi non se la sente di farvi ricorso. Le ragioni sono varie e giustificate. Ma nel mondo di oggi, chi non se la sente, parte in salita. Insomma, la confusione mondiale, in mondo già confuso e apolare, sta già aumentando. Perché è un mondo dove nessuno è in grado di mettere ordine. E, di conseguenza, i conflitti scalano molto rapidamente dal livello locale al livello regionale al livello globale. Non si trova una soluzione in un mondo dove non comanda nessuno. Ma ognuna di queste crisi ha elementi di mitigazione. Qui c’è un ruolo per deterrenza militare, dialogo diplomatico, intelligence, per un sistema di sicurezza efficiente. Sono elementi che aiutano a trovare le co-interessenze e consentono in uno schema anarchico quantomeno di mitigare i rischi. Rischi che esistono anche tra Usa e Cina su Taiwan. L’interdipendenza tra Stati Uniti e Cina è ancora molto rilevante e la Cina si trova in una fase di difficoltà economica che non le permette nuovi conflitti. Vale anche per Taiwan. Washington e Pechino hanno interesse a smorzare i toni. Ciò non toglie che la Cina resta l’avversario strategico da contenere e ha tutta l’intenzione di esercitare la propria egemonia sul suo vicinato. Sarà interessante vedere se Trump vorrà esasperare il confronto o farsi artefice – da ‘deal maker’ d’eccezione quale si descrive – di nuove intese pragmatiche…
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