Politica: Draghi sale al Colle e dà le dimissioni. Mattarella le respinge e lo manda in Parlamento… La coerenza di Draghi contro la determinazione del Capo dello Stato di portare questo governo alla sua scadenza naturale… sei giorni di tempo per salvare il soldato Draghi… i partiti ne saranno capaci?

È iniziata la parlamentarizzazione della crisi ed è stretto lo spazio politico per far rimanere Draghi Presidente del Consiglio a Palazzo Chigi. Come dimostra il duro scontro tra i ministri Orlando e Cingolani nell’ultimo Consiglio, la tensione è alta anche nell’Esecutivo. Tutto torna, alla fine: il bi-populismo si salda plasticamente, con la destra grillina che è vicina a consegnare l’Italia alla destra sovranista facendo di tutto per ammazzare il miglior governo riformista che poteva essere costruito sulla base dei rapporti parlamentari. L’oscuro arcobaleno Giuseppe Conte-Matteo Salvini (e Giorgia Meloni) si è di fatto ridisegnato ieri nel cielo della politica italiana sorprendendo chi confidava sul fatto che la botta del non voto del Movimento 5 stelle alla fiducia sul decreto Aiuti potesse essere riassorbita, e la previsione non era poi tanto campata in aria se è vero com’è vero che ieri su Mario Draghi ci sono state pressioni fortissime perché resistesse al suo posto: dal Quirinale, dal Partito democratico, dalle forze sociali, dall’Europa. Ma non c’è stato niente da fare per coerenza nei suoi stessi confronti e per far chiarezza in una situazione sempre più confusa istituzionalmente Draghi ha dato le dimissioni da Premier. Per ora, almeno. Sergio Mattarella – in una dialettica nella quale si è indovinato un certo dissapore con il Presidente del Consiglio – ha respinto le dimissioni rinviando il governo alle Camere, una ciambella di salvataggio, un tempo supplementare, guadagnando sei giorni prima del dibattito parlamentare di mercoledì prossimo. È la famosa parlamentarizzazione della crisi: «Ognuno dica la sua in Parlamento assumendosene la responsabilità», ha detto a sera uno scurissimo Enrico Letta. La rottura provocata dal M5S è il segno che la storia si sta vendicando della – chiamiamola così – “ingenua responsabilità” del Pd di farsi carico di portare alla scadenza naturale questo Governo nonché non nascondiamocelo preda di una forte preoccupazione di rotolare verso elezioni che sarebbero, nonostante lo sforzo dei Dem di garantire la stabilità del governo, comunque come minimo in salita. Il Pd è quindi impegnatissimo a sfruttare i prossimi sei giorni per vedere se è possibile ricostruire la fiducia al governo che, va ricordato, la maggioranza ce l’ha anche senza i contiani. È lo stretto spazio su cui lavora anche Matteo Renzi che a differenza di Letta parla apertamente di Draghi bis, cioè appunto un governo senza i contiani. L’interrogativo, gigantesco, riguarda il presidente del Consiglio. Draghi che certamente non è Mariano Rumor o Giovanni Leone o Giulio Andreotti, non è il politico di professione che sta lì a farsi rosolare a fuoco lento contando che il tempo sfianchi chi rema contro. Piuttosto il paragone corre a Romano Prodi, cotto a puntino da Fausto Bertinotti – comunque mille volte più lineare dell’ondivago “avvocato del popolo” – che nel lontano 1999 non accettò compromessi avviando però un corso delle cose che poi scivolò verso l’inevitabile vittoria elettorale della destra Berlusconiana. La grande differenza con allora è che Bertinotti voleva spostare l’asse politico a sinistra sui contenuti mentre Giuseppi fa finta di essere socialdemocratico sventolando la bandiera sociale al solo fine di raggranellare qualche consenso perduto ma vuoi per dabbenaggine vuoi per disegno consapevole egli sta spianando la strada alla stra-annunciata vittoria di Giorgia Meloni che però è nonostante i sondaggi favorevoli ancora tutta da dimostrare nelle urne – ma questo è un altro discorso. Con un cinismo raro in un Paese che pure ne ha viste tante, l’avvocato populista manda a monte tutti i piani di un Enrico Letta colpevole di non aver visto per tempo la tragedia di un uomo come Conte, un uomo che per non essere inesorabilmente “rottamato” e mantenere un proprio potere personale pur nella mancanza di una reale leadership partitica sui 5Stelle,  non ha esitato a votare tre governi di segno diverso, presiedendone personalmente due. Cosa farà, l’ex presidente della Banca centrale europea, l’uomo chiamato da Sergio Mattarella a salvare l’Italia dalla bancarotta e dalla pandemia e trovatosi pure a co-guidare l’Europa nella temperie ucraina? Le parole con cui ha salutato i ministri restano scolpite in tutta la loro durezza e sembrerebbero non lasciare presagire ripensamenti… Il Consiglio dei ministri è finito pure male, con un diverbio tostissimo tra Andrea Orlando e Roberto Cingolani: il ministro dem alla fine del discorso di Draghi gli aveva chiesto un ripensamento, al che il ministro tecnico gli ha intimato: «Stai nel tuo… Tu hai lavorato per Conte». Orlando ci ha spiegato che il dissapore (eufemismo) deriva dall’irritazione del ministro per la transizione ecologica per il lungo articolo scritto da Orlando insieme a Enzo Amendola proprio sulla materia di Cingolani. Sembra siano dovuti intervenire gli altri ministri. Un episodio che rivela un contrasto politico serio. A questo punto la prospettiva di un voto in autunno non è più teorica. C’è persino Massimo D’Alema (ma non ha nient’altro da fare?) che manovra per un governo Amato per la legge di Bilancio. Eppure, per lo statista che solo poche settimane in Europa fa ha spiegato che il nemico è «il populismo» che va sconfitto con le armi del riformismo non è detto che la strada dell’abbandono sia inevitabile. Mercoledì terrà un discorso forte. In quanto a Giuseppe Conte, ha ancora la possibilità di non diventare il nuovo Luigi Facta, l’uomo che cento anni fa consegnò l’Italia alla reazione. “Il quadro è dunque molto complesso. E la situazione della discussione interna al Movimento 5 Stelle contribuisce alla confusione”. È difficile prevedere come si ridisegnerà la geografia politica dopo l’abbandono della pattuglia pentastellata dell’Aula in occasione del voto alla fiducia sul Dl Aiuti. In questo contesto appare evidente che l’unico partito che potrebbe trarre beneficio da un’elezione anticipata è proprio Fratelli d’Italia, in costante crescita nei sondaggi. Per il resto, tutti hanno da rimetterci. Il tramonto del campo largo e della Lega di governo sono davanti agli occhi di tutti… Comunque, se si andasse al voto anticipato (tolto Fratelli d’Italia) chi ci guadagnerebbe veramente? Certo, anche il Movimento 5 Stelle. Con i numeri attuali non potrebbe mai sperare di avere neanche la metà degli attuali rappresentanti di cui dispone in Parlamento. Non dico che sarebbero decimati, ma poco ci manca. Perché hanno architettato questa mossa? Probabilmente la strategia di Conte e dei suoi è volta a intercettare quella fetta di malcontento che Meloni non è in grado di raccogliere. Ma politicamente questa mossa li ha isolati o quanto meno allontanati molto dal partner del campo largo evocato da Enrico Letta. Infine, il leader della Lega, Matteo Salvini, nelle scorse ore aveva ventilato l’ipotesi, qualora i 5 Stelle avessero fatto mancare il loro apporto all’Esecutivo, di far anche alla Lega di lasciare il Governo Draghi. Lo farà veramente? Non lo si può certo escludere, anche se alla fine sarebbe una mossa sconveniente per il Carroccio e per Salvini stesso. Stando al Governo si è materializzata un’emorragia di consensi per il Carroccio… ma questo è più da addebitare ai comportamenti di Salvini che non alla Lega nella maggioranza di governo. E non è credibile che Zaia, Fedriga ma anche lo stesso Fontana (per non dire di Giorgetti e Garavaglia) potrebbero accettare di buon grado il fatto che la Lega possa staccare la spina al governo. E nel Carroccio, i governatori contano. Molto. Vedremo mercoledì quando Draghi tornerà in Parlamento cosa avranno prodotto questi ulteriori 6 giorni di discussione tra e nei Partiti per: “salvare il soldato Draghi” …

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