Politica: Economia. Le forme della disuguaglianza. Thomas Piketty spiega che cos’è il suo socialismo partecipativo…

di Ezra Klein AP/Lapresse

L’economista francese, che nel 2013 è diventato una celebrità della gauche globale per aver scritto “Il capitale nel XXI secolo”, ha scritto una breve storia dell’uguaglianza. E, a sorpresa, si scopre che ha una visione ottimista del futuro (che non piacerà molto agli imprenditori). Questo è un articolo già pubblicato nell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2023 in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia…  Se non conoscete Thomas Piketty, sappiate che probabilmente è il più importante “cronista” della disuguaglianza economica. In una serie di articoli, e in collaborazione con una ampia rosa di coautori, Piketty ha messo insieme minuziose raccolte di dati internazionali che mostrano le quote straordinarie di reddito e di ricchezza che sono confluite verso l’1 o persino lo 0,1 o addirittura lo 0,01 per cento della popolazione. Il suo libro “Il capitale nel XXI secolo” (l’edizione italiana è stata pubblicata da Bompiani nel 2014, ndr) illustra il modo in cui il capitalismo premia la ricchezza rispetto al lavoro e spiega perché ciò avvenga. È diventato un formidabile best seller internazionale, una cosa che accade molto raramente per opere di questo tipo, dal momento che si tratta di un saggio economico lungo, denso e complesso. Ma Piketty è una di quelle persone che, attraverso il lavoro empirico e la teorizzazione, hanno veramente rimappato il modo in cui pensiamo alle dinamiche fondamentali dell’economia. Ed è decisamente una di quelle figure intellettuali capaci di cambiare i paradigmi. Nel suo nuovo libro, Una breve storia dell’uguaglianza (pubblicato in italiano da La nave di Teseo, ndr), Piketty sostiene che abbiamo assistito a una marcia verso l’uguaglianza che molti di noi ancora sottostimano ed è molto più ottimista sul futuro che potremmo avere, perché pensa che si possano adottare delle politiche molto più radicali di quelle che la maggior parte degli economisti o dei politici prendono in considerazione. E che queste politiche potrebbero davvero costruire un mondo molto più equo. Che cosa l’ha portata a scrivere un libro che è una storia dell’uguaglianza ed è fondamentalmente più ottimista, così mi pare, di molti dei suoi saggi precedenti? “Ho sempre considerato le mie opere e le conclusioni a cui sono giunto come relativamente ottimistiche e mi è dispiaciuto vedere che alcune persone ne avevano fatta una lettura diversa. I miei due libri precedenti, “Il capitale nel XXI secolo” e “Capitale e ideologia” (uscito in italiano per La nave di Teseo, ndr), erano molto lunghi e le persone potevano perdersi nelle argomentazioni. Questa volta ho voluto scrivere un libro molto più breve. E, così facendo, credo di essere riuscito a chiarire il mio pensiero. Ho esaminato circa duecento anni, partendo dalla fine del XVIII secolo, e ho osservato l’ampia evoluzione che hanno avuto in quel torno di tempo l’uguaglianza politica, l’uguaglianza sociale e l’uguaglianza economica. Individuo un movimento di lungo periodo verso una maggiore uguaglianza, che è scaturito da grandi mobilitazioni politiche, in alcuni casi da lotte sociali e a volte anche da grandi crisi. Ma, alla fine, è stata la costruzione di nuove regole del gioco legali, educative, fiscali e sociali a trasformare le nostre società e a renderle più eque e più prospere”. Andiamo all’argomento di questo libro. Proprio all’inizio, lei fa una distinzione importante: quando pensiamo alla disuguaglianza, tendiamo a concentrarci sulle statistiche del reddito, ma lei sostiene che invece l’indice di cui è più importante tenere conto è la disuguaglianza patrimoniale. Perché? “Per valutare le opportunità e il potere di una persona credo che la ricchezza sia, per certi versi, un indicatore migliore del reddito. Quando non si ha alcuna ricchezza o, peggio ancora, quando si ha una ricchezza negativa, si è costretti ad accettare qualsiasi condizione lavorativa e qualsiasi salario, perché si deve pagare l’affitto e ci si deve prendere cura della famiglia o dei parenti. Non si possono fare scelte. Se invece avete un patrimonio anche solo di 100.000, 200.000 o 300.000 dollari o euro, questo fa una grande differenza rispetto alla ricchezza zero o a una ricchezza negativa. In quel caso, se vi viene proposto un lavoro che non vi piace, non dovete accettarlo senza neppure poterci pensarci. Potete prendervi un po’ di tempo. Potete provare a creare una vostra attività. E potete provare ad avviare diversi tipi di progetti nella vostra vita. Non si tratta quindi soltanto di denaro, ma di avere potere contrattuale rispetto al resto della società e di poter decidere il tipo di vita che si vuole avere. E, in effetti, questo movimento verso una maggiore uguaglianza che descrivo nel libro è, in prima istanza, un movimento in cui un numero sempre maggiore di persone acquisiscono via via sempre più controllo, più potere contrattuale, più opportunità nella gestione della propria vita. E da questo punto di vista, sì, la ricchezza è un indicatore migliore del reddito”. Lei ha ricostruito quale sia stata, per oltre 200 anni e in vari Paesi, la distribuzione della ricchezza nella società. Che tipo di dati utilizza? Perché dovrei credere che i dati che abbiamo sulla ricchezza in Francia, nel Regno Unito o negli Stati Uniti, risalenti a più di 150 anni fa, siano abbastanza attendibili da poter ricostruire una storia di questo tipo, da condurre le analisi che lei svolge e da trarne delle conclusioni? “Penso che i dati che abbiamo per la fine del XVIII secolo e per tutto il XIX sulla ricchezza e sulla proprietà siano probabilmente migliori di quelli che abbiamo oggi. All’epoca non c’erano i paradisi fiscali e non c’era la tassazione progressiva. Le persone non avevano quindi particolari ragioni per cercare di nascondere la propria ricchezza. Anzi, era proprio il contrario. All’epoca la ricchezza e la proprietà erano molto spesso un elemento necessario per poter esercitare i propri diritti politici. E infatti, molto spesso, il sistema politico si basava sulla proprietà per concedere il diritto di voto. Quindi quei dati sono piuttosto buoni. Oggi invece dobbiamo fare molti sforzi per assicurarci di aver inserito tutti i correttivi che tengano conto dell’evasione fiscale di ogni tipo e dei paradisi fiscali. Talvolta pensiamo che quello attuale sia un mondo pieno di big data e molto trasparente – e in effetti alcune aziende private accumulano molti big data su di noi, che spesso vorremmo non accumulassero. Ma, per quanto concerne invece le statistiche e le informazioni pubbliche su chi possiede che cosa e su come ciò cambi con il passare del tempo, viviamo in realtà in un’epoca di grande opacità. E bisogna impegnarsi molto per cercare di combinare le informazioni rilevanti relative all’epoca contemporanea. Questo è un tipo di studio che gli storici hanno iniziato a fare molto tempo fa: di fatto, tutto il mio lavoro è la continuazione di un’ampia attività di ricerca storica iniziata già alla fine del XIX secolo sul reddito, la ricchezza, i salari e i prezzi. Ma, per quanto ci riguarda, quando ho iniziato a lavorare su questo tema alla fine degli anni Novanta e poi negli anni successivi, siamo stati in grado di elaborare una quantità di dati molto maggiore e di aumentare notevolmente il numero di Paesi presi in considerazione. E, disponendo di dati relativi a dieci, venti, cinquanta, cento Paesi, è possibile fare confronti. Ed è possibile iniziare a chiedersi che tipo di impatto abbia avuto l’aumento o il calo della disuguaglianza in un Paese o in un altro e fare delle comparazioni. Molte delle conclusioni però sono ancora molto incerte. Siamo nel campo delle scienze sociali e non troveremo mai una formula matematica”. Quali sono le tre cose che ritiene di aver imparato osservando queste tendenze nel corso del tempo e che la gente potrebbe non aspettarsi? In che cosa la storia dell’uguaglianza differisce da quello che pensiamo comunemente di sapere o di intuire riguardo a un periodo che è durato più di due secoli? “La prima è che c’è stato un movimento di lungo periodo verso una maggiore uguaglianza, sia di reddito sia di ricchezza. La seconda è che questo movimento verso una maggiore uguaglianza in termini di reddito e di ricchezza è iniziato davvero solo dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale. La terza è che, se si confronta la situazione odierna con quella del 1910 o del 1914, viviamo in un mondo più equo in termini di uguaglianza di ricchezza e soprattutto di reddito, ma che questo movimento è stato di portata limitata, poiché la concentrazione della ricchezza è ancora enorme. Però, per quanto la disuguaglianza economica appaia ancora oggi molto grande, un secolo fa era ancora più estrema. Se guardiamo all’Europa del 1900 o del 1910, vediamo che il 10 per cento dei più ricchi possedeva il 90 per cento della ricchezza, anziché il 60 per cento che possiede oggi. E che a quel tempo il 40 per cento che aveva una ricchezza media non si distingueva quasi rispetto al 50 per cento dei più poveri. Infatti, il 40 per cento costituito da chi aveva una ricchezza media possedeva nel complesso tra il 5 e il 10 per cento della ricchezza totale. E il 50 per cento costituito dai più poveri possedeva l’1 o il 2 per cento della ricchezza totale. Ciò vuol dire che praticamente non esisteva una classe media. Quindi, nel lungo periodo, c’è stato un miglioramento significativo, nel senso che oggi, in Europa, questo 40 per cento costituito dalle persone di media ricchezza possiede quasi il 40 per cento della ricchezza totale e negli Stati Uniti poco meno del 30 per cento. È molto difficile riscrivere la storia immaginando che cosa sarebbe successo se non ci fossero state la Prima e la Seconda guerra mondiale. Ma si può certamente affermare che negli Stati Uniti la Grande Depressione ha avuto un impatto ancora maggiore della guerra sul panorama politico e sociale. E che ci sono Paesi, come la Svezia, in cui, anche se la Prima e la Seconda guerra mondiale non hanno avuto l’impatto che hanno avuto in altri posti, si è comunque sviluppato questo movimento verso una maggiore uguaglianza. E anzi, per certi versi, in quei Paesi il movimento verso l’uguaglianza si è sviluppato anche più che altrove. Quindi non intendo dire che la guerra abbia avuto un’importanza in sé a questo riguardo. È stato piuttosto l’intero processo che nella prima metà del XX secolo aveva portato a una trasformazione del sistema politico, sociale e fiscale a rendere poi possibile anche una limitata diffusione della ricchezza e un limitato aumento dell’uguaglianza”. Una cosa molto apprezzabile di questo libro è che non si limita a riportare un freddo elenco di tendenze storiche, ma propone anche una serie di politiche piuttosto trasformative che, secondo lei, porterebbero il liberalismo più vicino a raggiungere molti di quei suoi obiettivi di lungo termine che tende però a non raggiungere mai. Ci parli di quello che lei chiama “socialismo partecipativo”. Che cos’è che rende il socialismo partecipativo diverso da una più convenzionale socialdemocrazia? “A mio avviso, si tratterebbe davvero della continuazione nel XXI secolo della socialdemocrazia. La socialdemocrazia ha dei grandi limiti. Uno di questi è che, in termini di concentrazione della ricchezza, i progressi sono stati limitati. Oggi il 50 per cento dei più poveri, grazie all’aumento dei redditi e dello stato sociale, ha una vita molto migliore rispetto a un secolo fa. Questo è abbastanza ovvio in termini di accesso all’istruzione, alla salute, alla pensione, al reddito. Ed è un progresso enorme. Ma il 50 per cento dei più poveri possiede solo una quota compresa tra il 2 e il 4 per cento della ricchezza complessiva. Nel libro sostengo che un modo per fare un passo avanti sarà quello di avere un’eredità minima per tutti. Non sarà qualcosa che sostituirà un reddito di base, l’istruzione gratuita o la sanità gratuita. Sarà qualcosa che si aggiungerà a tutto questo e sarà forse il passo finale, o uno dei passi finali, di questo lungo processo. Mettiamo che tutti i cittadini possano ricevere al compimento dei venticinque anni 120.000 euro che corrisponderebbero, nel contesto europeo, a circa il 60 per cento del patrimonio medio di un adulto, che attualmente ammonta, in media, a 200.000 euro. Saremmo ancora ben lontani da un’uguaglianza delle opportunità, dal momento che se il 50 per cento dei più poveri, che oggi riceve quasi zero, riceverebbe 120.000 euro, le persone che si trovano nel 10 per cento dei più ricchi, e che oggi ricevono in media circa 1 milione di euro, riceverebbero comunque 600.000 euro anche al netto delle imposte progressive sull’eredità e sui patrimoni che essi dovrebbero pagare per finanziare tutto questo meccanismo. Quindi ci sarebbe ancora una sostanziale disuguaglianza di opportunità tra questi due grandi gruppi. E, se volete la mia opinione, penso che potremmo spingerci anche molto più in là. Ma già questa misura farà una grande differenza, perché darà più potere e più opportunità al 50 per cento dei più poveri. Rimango sempre molto sorpreso davanti al fatto che spesso le persone affermano di essere a favore dell’uguaglianza delle opportunità a livello teorico ma poi, quando si propongono politiche concrete per andare in questa direzione, molte di loro, e soprattutto quelle che si trovano nella “parte alta” della distribuzione delle ricchezze, vanno completamente fuori di testa e dicono: «Che cosa??? Darete dei soldi a questi ragazzi poveri?». E sostengono che con i soldi questi ultimi faranno cose terribili, come se i ragazzi ricchi, invece, facessero sempre buone scelte relative ai soldi che ricevono. Se poi si vogliono porre dei limiti a ciò che le persone possono fare con l’eredità minima, io non ho nessun problema al riguardo, a patto che si pongano gli stessi limiti a tutti gli eredi, compresi i figli dei ricchi. Ma, per la verità, questo mi sembrerebbe un approccio molto illiberale e molto autoritario”. Può spiegarci che cos’è la cogestione e perché lei ritiene che sia così importante? “Anche in questo caso cerco di partire da ciò che ha avuto successo nel corso del XX secolo e di vedere come possiamo fare dei passi avanti. Nel XX secolo, oltre alla tassazione progressiva, c’è stata un’altra interessante innovazione politica che si è sviluppata negli Stati Uniti e in molti Paesi europei: la cosiddetta cogestione, ovvero il fatto che i rappresentanti dei lavoratori hanno un significativo diritto di voto nei consigli di amministrazione delle aziende, anche se non detengono alcuna quota del capitale sociale. In Germania funziona così: i rappresentanti dei lavoratori hanno il diritto di esprimere fino al 50 per cento dei voti nel consiglio di amministrazione di una grande azienda. Gli azionisti hanno comunque diritto a esprimere il 50 per cento più un voto. Quindi, in caso di parità, possono fare la differenza. Ma ciò significa che, se i lavoratori hanno in aggiunta anche una quota minoritaria del capitale della società, ad esempio il 10 o il 20 per cento (o se un governo locale o regionale ha il 10 o il 20 per cento del capitale), allora questo può spostare la maggioranza nelle decisioni. In pratica, i lavoratori possono controllare la maggioranza dei voti, anche a fronte di un azionista che ha l’80 per cento o il 90 per cento delle azioni. Posso dirvi che dal punto di vista di un azionista questo sembra essere comunismo. E che agli azionisti francesi, britannici o statunitensi questo sistema non piacerà affatto. Solo che questo sistema è stato applicato non in qualche piccolo e oscuro Paese, ma in Svezia e in Germania, ed è in uso fin dai primi anni Cinquanta. All’epoca gli azionisti non volevano neppure sentirne parlare. Ma l’equilibrio di potere nel contesto specifico di questi Paesi nel Secondo dopoguerra ha portato a questa trasformazione istituzionale. E, settanta anni dopo, in Germania e in Svezia nessuno vuole cambiare le cose. E nessuno le può cambiare. A quanto si è visto, questo sistema non solo non ha distrutto il sistema capitalistico, ma ha anzi permesso un più virtuoso coinvolgimento dei lavoratori nella definizione delle strategie di lungo periodo delle aziende. I lavoratori, in un certo senso, investono nel lavoro in azienda. E a volte sono investitori di lungo periodo più seri e più impegnati di molti investitori finanziari a breve termine che spesso vediamo operare. Come possiamo spingerci un po’ più in là in questa direzione? Nel mio libro discuto varie ipotesi, ma dico che prima di tutto bisognerebbe estendere il sistema ad altri Paesi e ad aziende di dimensioni più piccole. E, se si vogliono fare degli ulteriori passi in questa direzione, si potrebbe dire: «Ok, abbiamo i rappresentanti dei lavoratori che hanno diritto di esprimere il 50 per cento dei voti e gli azionisti un altro 50 per cento. Ma, nell’ambito del 50 per cento dei voti che spettano agli azionisti, almeno nelle società molto grandi, dovrebbe esserci un limite massimo al peso dei voti di un singolo azionista, da fissare, ad esempio al 5 o al 10 per cento». Viviamo in una società molto istruita, in cui milioni di ingegneri, tecnici, manager possono offrire il loro contributo. L’idea che nelle aziende abbiamo delle organizzazioni di potere di tipo monarchico è, per certi versi, in totale contrasto con la realtà attuale”. Come mai pensa che la cogestione avrebbe tanta importanza e non sarebbe invece solo una variazione marginale nel funzionamento dell’economia? “Non sto dicendo che sarebbe un filtro magico. E penso che debba essere comunque accompagnata da tutta una serie di altre politiche, tra cui la stessa ridistribuzione della ricchezza. Ecco perché l’eredità minima e l’imposta progressiva sul patrimonio – che in Germania non c’è – sono così importanti. Se non si ridistribuisce la ricchezza stessa, la cogestione non sarà sufficiente. Inoltre, tutto ciò deve essere accompagnato da un sistema che dia davvero accesso a un’istruzione di alta qualità, e questa è una cosa che non c’è in nessun Paese. Infine, non dimentichiamo che, anche in Germania, le regole di cogestione sono state applicate finora solo alle aziende molto grandi. Ma, nonostante tutti i loro limiti, credo che le regole che determinano la cogestione abbiano contribuito a limitare sia in Germania sia in Svezia l’enorme aumento dei compensi per chi sta al vertice, soprattutto se si fa un paragone con gli Stati Uniti e con la Gran Bretagna. Ma l’idea è di fare ulteriori passi in quella direzione, prima estendendo a tutte le imprese, piccole e grandi, il diritto per i lavoratori di esprimere il 50 per cento dei voti e ponendo poi anche un limite al potere dei singoli azionisti. Perché in alcuni casi, con le attuali regolamentazioni delle cogestioni, alla fine sono gli azionisti ad avere il voto decisivo e quindi questo meccanismo non ha l’impatto che potrebbe avere”. Si tratta di proposte rilevanti, che implicherebbero grandi movimenti di soldi. Allo stesso tempo, stiamo vivendo un’impennata dell’inflazione abbastanza insolita, anche se forse non storica. E l’idea dominante che si è diffusa, soprattutto negli Stati Uniti su spinta di Larry Summers e di altri, è che una parte di questo fenomeno derivi da un’eccessiva ridistribuzione e da un eccesso di stimoli. Come si comprendono l’inflazione e i prezzi in questo contesto? E quali sono, secondo lei, i pericoli dell’inflazione? “Beh, la risposta breve è che io voglio finanziare la ridistribuzione attraverso la tassazione progressiva e non attraverso la creazione di moneta. Perché la creazione di moneta e l’emissione di debito pubblico possono essere giustificate in un certo contesto, ma è chiaro che nel lungo periodo non funzionano. Lo sappiamo. Il mio punto di vista sulla ridistribuzione è che questa dovrebbe essere pagata dalla tassazione progressiva e dai ricchi. E la buona notizia è che i ricchi sono molto ricchi. Se si guarda ai miliardari di oggi, le persone più ricche hanno 200 miliardi di dollari o giù di lì. Dieci anni fa avevano 30 o 40 miliardi di dollari. E dieci anni prima i loro patrimoni ammontavano solo a 10 miliardi o a cifre di questo tipo. Si capisce subito che l’ascesa di questi ricchissimi non ha nulla a che vedere con l’aumento delle dimensioni dell’economia mondiale, perché si tratta di una crescita molto più rapida. Quindi non si può continuare così. E, ovviamente, il modo per finanziare la ridistribuzione è proprio questo. Non sto dicendo che tutto dovrà venire dai miliardari. Anche i milionari dovranno pagare. Ma se non si inizia chiedendo la giusta quota ai miliardari, sarà molto difficile convincere i milionari che anche loro devono pagare…” A questo punto, ancora una volta domandiamoci, come mai la Sinistra, la nostra quella europea, quella mondiale… continui a guardare al passato… e non colga l’attualità di un dibattito che fornisce nuove possibilità di ragionamento e azione prendendo le mosse proprio dal tema delle diseguaglianze e dalla ridistribuzione del reddito…

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