Politica:  governo Meloni, la settimana del gran minestrone per non farci capire nulla. Le riforme istituzionali e l’eterna politica del disapprendimento. La ‘diarchia’ Meloni-Mantovano che guida l’Italia mettendo in minoranza la stessa maggioranza. Infine, la politica sociale di Francesco e l’inadeguato comizio di Meloni…

Ancora una volta, come da oltre trent’anni a questa parte, i partiti dibattono su come cambiare la Costituzione e la legge elettorale. Un’arma di distrazione di massa – assieme al significato salvifico che si dà all’Europee del 2024 – per non occuparsi di cose serie. Più soporifero del dibattito sulle riforme istituzionali c’è solo il dibattito sull’allarme democratico delle riforme istituzionali fatte solo da una parte, ovviamente se la parte è la destra perché quando, come nella tragica stagione del titolo V della Costituzione, le ha fatte da sola la sinistra l’apprensione magicamente scema. Il dibattito sulle riforme e le polemiche sulle riforme sono il nostro giorno della marmotta, la perenne ripetizione dell’identico, una specie di scemenza artificiale che addestra le migliori menti della nostra generazione a non imparare niente dall’esperienza e semmai a reiterare gli errori del passato, un formidabile algoritmo umano basato sul disimparare automatico, “machine unlearning”, che dovrebbe essere studiato alla Silicon Valley quanto a precisione ed efficacia della sua capacità predittiva: finisce, infatti, sempre a schifìo. E poi si ricomincia come se non fosse successo nulla. Ci risiamo, dunque: le riforme istituzionali. E vai con presidenzialismo, semi presidenzialismo, sindaco d’Italia, premierato forte, modello Westminster più qualunque combinazione a vanvera tra questi modelli, solitamente affidata alle cure del dentista Roberto Calderoli, un luminare di sistemi istituzionali comparati fin da quando ha sperimentato sul campo di Pontida le nozze padane col rito celtico. Di solito il segnale inequivocabile che sia arrivato il momento di spegnere la luce è quando – dopo aver esaurito le cartucce sul sistema francese o su quello tedesco, e aver scongiurato una qualsiasi porcata calderoliana – qualcuno propone per incanto di adottare il sistema di voto alternativo all’australiana. Ci arriveremo presto anche a questo giro, perché ci arriviamo immancabilmente dal 1991, anno del referendum sulla preferenza unica. Da allora sono trascorsi trentadue anni – in politica un’eternità quasi quanto quella che nel calcio misura la frequenza degli scudetti del Napoli – eppure i partiti e i leader non demordono, insistono a parlarne, a fare e a disfare, invece di occuparsi di cose serie come, per esempio, non sprecare la montagna di miliardi europei del Pnrr, far funzionare la sanità, costruire le infrastrutture necessarie ed evitare che la scuola pubblica sforni ulteriori ondate di grillini. Il dibattito sulle riforme questa volta probabilmente è anche peggiore rispetto ai cicli precedenti, e non come scrive Ezio Mauro perché al governo c’è la destra, ma perché all’arma di distrazione di massa delle riforme istituzionali se ne aggiunge parallelamente un’altra che è quella delle elezioni europee del 2024. Un’altra arma di distrazione di massa non perché Bruxelles sia poco importante, tutt’altro, piuttosto perché le strategie dei partiti e dei leader politici, nessuno escluso, sono esclusivamente indirizzate a conquistare i migliori piazzamenti possibili alle elezioni del 2024, anziché affrontare oggi le questioni cruciali per modernizzare il paese, sviluppare l’economia e riconoscere più diritti e più garanzie ai cittadini. In mancanza di idee e di capacità di realizzarle, la politica italiana si aggrappa al dibattito sulle riforme istituzionali e rimanda i problemi a elezioni lontane al solo scopo di trovare in esse un significato salvifico, un segno di speranza in grado di garantire il perdono e la riconciliazione con gli elettori. Ma è solo ammuina, è solo merce dozzinale, è solo politica …sempre con la “p” minuscola. Ed eccoci, in questa settimana del gran minestrone, per non farci capire nulla al Governo EmmeEmme. Così la diarchia Meloni e Mantovano guida l’Italia mettendo in minoranza la maggioranza. La premier e il sottosegretario tradizionalista cattolico, conoscitore degli apparati dello Stato ma anche ex giudice non sovranista decidono tutte le cose importanti e lasciano le briciole a Salvini, Giorgetti, Crosetto e Tajani. Ormai è acclarato che il potere romano è in mano a una diarchia non paritaria perché uno è una, la premier, l’altro il suo sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Giorgia Meloni ripone in Mantovano una totale fiducia. Con lui elabora le strategie per la gestione del governo, i rapporti con i ministri e i capi delegazione della maggioranza, ovvero Matteo Salvini e Antonio Tajani. Con l’ex magistrato che ha preferito a ogni altro fedelissimo militante di Fratelli d’Italia, la capa ha deciso le nomine pubbliche dei giganti come Eni, Enel, Poste, Leonardo, Terna, i vertici della Guardia di Finanza, della Polizia e della Rai. Ovviamente qualcosa Meloni e Mantovano hanno ceduto alla Lega, qualche strapuntino a Forza Italia, ma nella sostanza la diarchia EmmeEmme, pur dispensando, aggiustando, accontentando, detta la linea, comanda, di fatto anticipa quello che potrebbe essere il modello di premierato. Più che quello di Westminster, che richiederebbe un bipartitismo anglosassone, potrebbe venire fuori un modello comunque disegnato attorno al progetto politico che lei ha in mente, il grande Partito Conservatore che sbanca in Italia e sbarca in Europa per mettere in sintonia Roma e Bruxelles. Un partito dell’etnia italica, per parafrasare il cognato Francesco Lollobrigida. Attenzione, a casa Meloni la vera ideologa conservatrice è la sorella Arianna; a Palazzo Chigi è Mantovano, che non ha però i tratti del sovranista aspro, antieuropeo, ottuso, essendo persona accorta, colta, intelligente. Per dirne una, al diarca ombra non passa per l’anticamera del cervello di riproporre la riforma costituzionale sul primato del diritto interno su quello comunitario sulla falsariga ungherese e polacca. Mantovano con la toga ha scritto in alcune sentenze l’assoluta preminenza dei principi internazionali dettati dalle Corti europee di Strasburgo e del Lussemburgo. In Cassazione ha motivato il rigetto di un mandato di arresto proveniente dalla Polonia perché non basta una sentenza di condanna di un Paese europeo: lo Stato italiano deve vagliare la motivazione del provvedimento straniero e verificare la sua conformità ai principi internazionali del giusto processo. Il sottosegretario alla Presidenza con delega ai Servizi segreti è irraggiungibile ai giornalisti. «Parlo poco perché non serve», disse mentre infuriava la polemica sui morti di Cutro. Ma nei giorni scorsi è stato tranchant con la Corte dei conti che ha criticato i ritardi del governo sul Pnrr: «Una invasione di campo bella e buona. Ditemi dove è scritto che la Corte dei conti ha questa competenza, di sostituirsi alla Commissione europea nel vaglio sul Pnrr». Tessitore con il Vaticano e con il Quirinale, conoscitore degli apparati dello Stato, un tradizionalista cattolico che non sopporta i tradizionalisti critici di Papa Francesco. In occasione della morte del Papa emerito disse «viva il Papa, chiunque sia. Ogni tentativo di lettura dialettica è sbagliato». Quando punta l’avversario, silenziosamente fa male. L’ex sottosegretario all’Interno nei governi Berlusconi si trovò fuori dal Parlamento nel 2001, perdendo nel collegio di Gallipoli anche grazie a un travaso di voti da Forza Italia a favore di Massimo D’Alema. Per ironia della sorte, da quelle parti dominava Raffaele Fitto, che oggi è l’altro uomo forte di Meloni. Mantovano ne parlò apertamente sulla carta stampata, facendo nomi e cognomi, proprio in un articolo sulla Stampa: fu citato con l’intervistatore a giudizio per diffamazione. Lui si presentò davanti al giudice con un dossier che sembrava la Treccani. L’avvocato di D’Alema, l’ex senatore Calvi, consigliò al suo assistito di ritirare la denuncia. Tornato in magistratura, è riapparso un anno fa alla Conferenza programmatica dei Fratelli d’Italia per parlare di natalità e famiglia naturale, contro l’eutanasia, le coppie omogenitoriali e la gestazione per altri. Il fondatore del centro studi Livatino ricorda bene gli anni della Bicamerale, del dialogo con l’allora presidente della Camera Luciano Violante, degli insegnamenti di Pinuccio Tatarella, l’esponente pugliese di Alleanza soprannominato «ministro dell’Armonia». E forse questi insegnamenti gli serviranno per consigliare alla presidente del Consiglio di trovare un accordo con Elly Schlein sulle riforme costituzionali. È l’unica strada per approvarle in Parlamento con una maggioranza assoluta ed evitare il referendum che non ha mai portato bene a chi ha guidato Palazzo Chigi. Infischiandosene degli alleati e di chi si impunta sull’elezione diretta del presidente dello Stato o del presidente del Consiglio. Provino a mettersi contro la diarchia EmmeEmme. Qualcosa in questi ultimi mesi avranno pure imparato. Infine, ieri Papa Francesco e gli Stati generali sulla famiglia grande evento sulla natalità. La presidente del Consiglio ha puntato a ottenere un mega spot di formidabile visibilità, ma è apparsa del tutto fuori posto accanto al Pontefice. Ha colpito tutti la “papessa” Giorgia Meloni di bianco vestita accanto a Papa Francesco, alla fine persino lui ci ha scherzato su rilevando l’incongrua uniformità cromatica. Fosse stato questo, il problema della presidente del Consiglio., ieri, Meloni ha fatto un discorso politico sui temi morali che molto informano la cultura della destra come al solito senza riuscire a tenere a freno il tono, appunto, politico, condotto con l’ormai ben noto cantilenare comiziando: e davanti al Pontefice! Non è solo una questione di bon ton, dati che, come per il coraggio di Don Abbondio, se uno non ce l’ha mica se lo può dare: la questione piuttosto è che Meloni utilizza qualunque occasione per rimarcare un tono inutilmente aggressivo e polemico, è il suo carattere. Ma in certe occasioni la cosa oltre che fuori luogo può evidenziare l’enorme differenza di livello con gli interlocutori, in questo caso – e scusate se è poco – papa Francesco. Quest’ultimo ha svolto un discorso forte, declinando alla sua maniera l’urgenza di superare «l’inverno demografico» ma non lo ha fatto in modo ideologico, ma politico, richiamando la politica a mettere in atto, «politiche lungimiranti» con un occhio particolare ai giovani, persino con una implicita allusione alla battaglia degli studenti: «Forse mai come in questo tempo, tra guerre, pandemie, spostamenti di massa e crisi climatiche, il futuro pare incerto». E questo perché in questo contesto di incertezza e fragilità le giovani generazioni «sperimentano più di tutti una sensazione di precarietà con difficoltà a trovare un lavoro stabile, difficoltà a mantenerlo, case dal costo proibitivo, affitti alle stelle e salari insufficienti». Un discorso di politica sociale – «solo i più ricchi possono permettersi di fare figli: ingiusto e umiliante» – stando attento a restare fuori dalle polemiche sulle famiglie Arcobaleno o sulla maternità surrogata, temi che dividono e che forse neppure si possono adeguatamente affrontare sul palco di un evento come quello degli Stati generali sulla famiglia. Francesco è stato Francesco, insomma. E se qualcuno può nutrire perplessità sull’opportunità di un intervento del Pontefice a una manifestazione con il Governo (qualunque governo) in gran spolvero, bisogna sempre fare i conti con l’agire di questo Papa che usa tutti gli spazi, anche quelli che possono risultare, e magari sono davvero, incongrui, pur di far sentire la sua voce. Invece Meloni, puntando a ottenere un mega spot di formidabile visibilità, è apparsa del tutto fuori posto. Snocciolando con tono da comizio un discorso che è stato un distillato di oscurantismo e aggressività: «Vogliamo restituire agli italiani una nazione nella quale esser padri non sia fuori moda», ha scandito la presidente del Consiglio in contrasto con le leggi (vedi alla voce Unioni civili) oltre che con il sentire comune del Paese prima di attaccare la maternità surrogata. «Vogliamo una Nazione in cui non sia un tabù dire che la maternità non è in vendita e gli uteri non si affittano, che i figli non sono prodotto da banco che puoi scegliere e restituire se non ti piacciono». Lo stile è questo. Il tono minaccioso. La mimica arrogante, A due metri da Papa Bergoglio che aveva appena ricordato che è necessario «affrontare il problema insieme, senza steccati ideologici e prese di posizione preconcette», la leader di Fratelli d’Italia – questa era la sua postura reale, altro che capo del Governo – ha scagliato i suoi anatemi oscurantisti in un crescendo rossiniano: «Vogliamo affrontare questa sfida con gli occhi della realtà, il motore della visione e non vogliamo infilare la camicia di forza dell’ideologia». Dove ideologia per lei equivale a modernità e a libertà di scelta: drappi rossi davanti al toro reazionario. Fine del comizio, applausi, risate con il Papa. La battaglia meloniana per una «Nazione» fondata su basi culturali e morali di secoli fa continua…

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