Politica: Governo Meloni segnali di autoritarismo. Italia sempre più vicina al ritorno di un regime autoritario. Il pericolo è concreto e l’adesione all’Ue non è garanzia sufficiente a impedirlo. Perché un governo autoritario sarebbe dannoso?

L’occupazione degli spazi di potere – dalla Rai alla spartizione del Csm – e gli attacchi alle autorità di garanzia, fino alla Corte dei conti, sono segnal di autoritarismo. I vessilli della nuova stagione. È quindi un governo autoritario, quello che abbiamo sulla testa? In Italia incombe il rischio dell’autoritarismo, come ha denunziato giorni fa Romano Prodi? Dipende. Se la categoria in questione coincide con quella tratteggiata da Theodor W. Adorno e dai suoi collaboratori (La personalità autoritaria, 1950), se l’autoritarismo non è che la specifica «psicologia del fascismo», allora no, non è il caso di Giorgia Meloni. Nessuna camicia nera invade i corridoi di Palazzo Chigi, anche se la fiamma tricolore continua a illuminare il logo del partito al potere. E le opposizioni hanno voce e spazio, in Parlamento e nel Paese. Ne fanno poi un mediocre uso, ma questo è un altro paio di maniche. Sta di fatto, però, che certi segnali si moltiplicano, come il fulmine e il tuono che annunziano il temporale. L’occupazione militare della Rai, per dirne una. La spartizione leonina, sovra rappresentando la maggioranza di destra a scapito delle minoranze di sinistra, negli organi di autogoverno della magistratura (7 posti su 10 al Csm, 9 su 12 per i giudici speciali). Mentre risuonano gli attacchi personali e gli altolà alle istituzioni di garanzia, quando si permettono d’esprimere una nota di dissenso. Contro il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, reo d’aver criticato il nuovo Codice degli appalti per gli affidamenti diretti sottosoglia. Contro il governatore della Banca d’Italia, anche lui perplesso sull’innalzamento del tetto all’uso dei contanti. Contro il procuratore nazionale Antimafia, contrario all’eliminazione dell’abuso d’ufficio. Contro l’Ufficio parlamentare di bilancio della Camera, che aveva segnalato distorsioni nella riforma fiscale. Contro il Servizio bilancio del Senato, critico sull’autonomia differenziata. E c’è poi l’episodio, che con un decreto-legge e la mannaia del voto di fiducia, elimina il “controllo concomitante” della Corte dei conti sui progetti finanziati a carico dei fondi Pnrr. Per quali colpe non se ne parlerà più? Dopotutto si trattava d’una verifica in corso d’opera, senza poteri di blocco, espressa per il tramite di osservazioni e sollecitazioni. Ma che avrebbe segnalato ritardi, disfunzioni, inadempienze, indicando gli strumenti per correggerli. Da qui il fastidio: il direttore d’orchestra non ama chi gli suggerisca nell’orecchio. Da qui, più in generale, un’incrinatura nel fragile equilibrio tra autorità e libertà. Sono necessarie entrambe, perché non c’è società senza potere e perché non c’è democrazia senza diritti. Ma l’autoritarismo è una manifestazione degenerativa dell’autorità legittima; e fra i suoi caratteri essenziali – nella definizione di Juan Linz – c’è l’insofferenza verso ogni limite all’esercizio del potere. Ecco, sta tutto qui il vessillo della nuova stagione. Dove non c’è un imperatore né un governo autoritario, però l’autoritarismo trapela attraverso altri due “ismi”, due sottoinsiemi della categoria in questione. Primo: il sostanzialismo. «Non importa di che colore sia il gatto; l’importante è che prenda i topi», diceva il presidente Mao. Conta insomma il risultato, non il metodo con cui venga raggiunto. Tuttavia, questa dottrina nega l’essenza stessa del diritto. Perché nella regola giuridica convivono – come due facce della medesima medaglia – una componente formale e una sostanziale. Quest’ultima rappresenta l’interesse perseguito dalla norma; la prima invece detta le procedure per raggiungerlo. E se il formalismo, l’attenzione esasperata per i cavilli burocratici, è a conti fatti una iattura (in Italia ne sappiamo qualcosa), il sostanzialismo non è meno pernicioso. Guai a oscurare il ruolo delle procedure: la forma è garanzia di libertà, diceva Piero Calamandrei. Secondo: il verticismo. Una patologia che alle nostre latitudini dura ormai da tempo, con i partiti personali e le istituzioni personalizzate. Ma che adesso sta toccando l’apice – di più: viene ostentata come metodologia del buon governo. Da qui il diluvio dei decreti-legge, che spogliano della funzione legislativa il Parlamento. Da qui un record nei voti di fiducia, benché la maggioranza sia blindata, nessun pericolo di finire sotto nei suoi desiderata normativi. Da qui la nomina di commissari straordinari per ogni accidente, dall’immigrazione alle autostrade. Da qui, in conclusione, una sorta d’emergenza permanente, chiamata in causa per giustificare l’accentramento del potere. Col risultato di stressare le istituzioni non meno dei cittadini…

I sostenitori dei governi autoritari credono in un ordine naturale del mondo. La religione e gli uomini bianchi etero sono in cima. Donne, persone LGBTQI, persone non bianche, bambini e natura sono in fondo. La principale differenza tra un governo democratico e uno autoritario è che nel primo, le persone hanno più voce in capitolo nelle questioni politiche, possono scegliere la propria leadership politica e il potere esecutivo è soggetto a controlli ed equilibri. Nel secondo, il potere è più strettamente legato a una persona o a un gruppo di persone che limitano la capacità del popolo di decidere il proprio futuro. Generalmente, lo stato pone i limiti alla libertà di stampa, all’indipendenza della magistratura o ai poteri del parlamento. Laddove la democrazia rappresenta il pluralismo, l’autoritarismo caratterizza la repressione. Le elezioni in una democrazia sono più libere, comportano una scelta tra diverse opzioni e il governo non interferisce sul risultato. In uno stile di governo autoritario, ci possono essere o meno le elezioni, ma le scelte saranno inevitabilmente più limitate, soggette a una maggiore interferenza da parte del governo in carica, e il governo può anche rifiutarsi di dimettersi se perde. Una stampa libera, una magistratura indipendente, la capacità della società civile di organizzarsi e la libertà di espressione sono tutti pilastri della democrazia. Ognuno di questi aspetti è fondamentale per fornire controlli ed equilibri sulle attività del governo. In una democrazia, le persone sono autorizzate a dire la loro opinione e a criticare il governo, il che a sua volta promuove la creatività, l’innovazione e lo sviluppo. Quando un governo autoritario rende più difficile ai giornalisti fare il loro lavoro, per esempio limitando la loro capacità di agire o incoraggiando gli attacchi ai media, diventa inevitabilmente più difficile sviluppare un punto di vista diverso da quello del governo. Questo significa che le persone hanno maggiori probabilità di ricevere solo il resoconto del partito al potere su un particolare evento. In altre parole, il governo può manipolare la popolazione attraverso la propaganda. I governi autoritari limitano inevitabilmente il progresso di una società perché limitano la parola sulla direzione in cui il paese dovrebbe svilupparsi. Ostacolando le istituzioni politiche inclusive, alla fine ostacolano anche quelle economiche. Questo non significa che un paese non possa sperimentare progressi economici, perfino sfrenati, con un leader “forte” al timone, o attraverso uno stato monopartitico. La Cina ne è l’esempio perfetto. La Cina ha reso le sue istituzioni inclusive, incoraggiando l’imprenditorialità, i diritti di proprietà e la creazione di ricchezza. Tuttavia, a livello politico non è disposta a condividere il potere con questa nuova classe, e interviene e impone alle imprese ciò che si può e non si può fare, ponendo dei limiti a ciò che le persone possono fare. Ad un certo punto, è probabile che il percorso verso un ulteriore progresso economico e quello del continuo controllo politico entrino in conflitto. Le proteste a Hong Kong sono un assaggio di ciò che probabilmente accadrà in futuro. Ad un certo punto, un governo autoritario pone dei limiti sulle opportunità economiche delle persone perché si scontrano con quelle del controllo politico. Ad esempio, l’oligarchia in vigore in Ungheria impedisce agli altri cittadini di partecipare pienamente all’economia e di creare concorrenti alle grandi corporazioni gestite dai compari di Orban. Nel frattempo, Orban limita le possibilità di criticare il suo governo a livello politico. L’UE è stata chiara fin dall’inizio: sarebbe stata un’unione di democrazie che rispettano concetti come elezioni giuste, stato di diritto o libertà di stampa. Sfortunatamente, la sua architettura contiene un difetto fondamentale su questo punto. Se uno o più dei suoi membri iniziano a fare marcia indietro su questioni di democrazia una volta che sono all’interno dell’UE, fino a poco tempo fa, la Commissione aveva poche opzioni per agire. Prendete l’Ungheria, l’esempio più preoccupante. Viktor Orban, un tempo promotore della democrazia, delle libertà civili e dei diritti di proprietà alla fine del periodo sovietico, ha progressivamente trasformato l’Ungheria in uno stato semi-autoritario, che costringe i media indipendenti a chiudere e ha limitato le capacità delle ONG di criticare il governo. Anche la Polonia ha preso una strada autoritaria, trasformando i tribunali in alleati del governo e rendendo la vita più difficile ai media critici. La Slovenia è l’ultimo paese a prendere una piega sempre più autoritaria. l’UE ha delle armi nel suo arsenale, comprese alcune di nuova creazione, e deve iniziare ad usarle se vuole evitare che il suo ideale democratico si sgretoli. Per esempio, l’UE potrebbe portare i paesi in tribunale più frequentemente quando infrangono le leggi europee che aiutano a proteggere i media indipendenti o a fermare la corruzione. Al momento, la Commissione europea non sempre avvia questi casi, anche se avrebbe il potere di farlo. l’UE potrebbe anche esercitare una maggiore pressione politica sui governi che minano deliberatamente la democrazia e i diritti fondamentali. Un modo per farlo è fermare i fondi che vengono erogati a questi paesi. Quando il denaro si esaurirà, probabilmente costringerà alcuni di quei governi a un ripensamento. L’UE ha appena creato un meccanismo, chiamato “condizionalità dello stato di diritto”, che le permetterebbe di fare proprio questo. Inoltre, l’UE ha appena creato un fondo per fornire denaro sufficiente ai gruppi che fanno campagne per i diritti civili e la democrazia. Tali gruppi sono importanti per assicurare che il pubblico possa avere un dibattito ben-informato su ciò che il governo sta facendo, per aiutare il pubblico a parlare ai politici delle loro preoccupazioni e per intentare cause legali quando i governi ignorano la legge. Non sappiamo ancora quanto la Commissione farà un buon lavoro per assicurarsi che questo sostegno finanziario arrivi alle organizzazioni giuste. Per esempio, quelle in paesi dove le ONG nel settore dei diritti umani sono state soffocate, come l’Ungheria e la Polonia. Un governo autoritario ha un maggiore controllo sulla sua popolazione, limitando le sue libertà, le istituzioni del paese e limitando la voce che le persone hanno sul proprio futuro. In definitiva, un governo autoritario sarà un freno per una società quando il suo controllo politico entra in conflitto con la volontà di sviluppo del paese. Ci sono solo regimi semi-autoritari nell’UE finora, e questi includono l’Ungheria e la Polonia.

Fascismo a lento rilascio. È il processo sistematico che sta investendo l’Italia. L’economista Joseph Stiglitz ha dichiarato che il pericolo di un regime autoritario è reale: “Il timore è che ci si possa arrivare un passo dopo l’altro, una strategia opposta a quella dell’insurrezione dei seguaci di Trump – ha scritto in un articolo pubblicato su la Repubblica il 28 maggio 2023. La democrazia si può perdere all’improvviso oppure a poco a poco e la domanda è se sia proprio quello che sta succedendo in Italia”. Stiglitz ricorda che l’appartenenza all’Unione europea non basta a tutelare il carattere democratico dei governi nei vari Paesi: Ungheria e Polonia lo dimostrano. Chi guarda all’Italia da fuori vede meglio; noi rischiamo la lenta assuefazione nell’illusione che l’ordinamento democratico sia irreversibile. Ricordo i fattori che ci spingono verso tale deriva: la crisi economica e occupazionale che si protrae da decenni; un sistema politico autoreferenziale che induce la sfiducia di massa nella democrazia; la stabile egemonia di oligarchie finanziarie e politiche che sottomettono la democrazia italiana usando gli strumenti di volta in volta ritenuti più produttivi (comprese le stragi e gli omicidi, realizzati da noi con una gravità senza pari negli altri Paesi occidentali); la povertà culturale, informativa e di formazione civile che segna cronicamente il nostro Paese; la manomissione protratta e micidiale della capacità educativa della scuola e dell’università; le forti radici di ideologie quali il razzismo, il sessismo, il culto del capo; le falde ideologiche sempre attive del neofascismo e la larga, entusiastica adesione a partiti come Fratelli d’Italia e la Lega; la percezione della mancanza di un’alternativa di governo; la diffusa abitudine di dare la colpa di ogni male collettivo alla “sinistra”; il diffondersi del populismo; la saccente miopia che porta molti a credere che il fascismo sia morto nel 1945 e che oggi non ci sia alcun rischio; la dipendenza internazionale da organismi come la Ue e la Nato e dalla politica dagli Stati Uniti, tutti soggetti che non danno alcuna garanzia di orientamento democratico e non attivano anticorpi nel caso di derive autoritarie in singole nazioni; la tendenza complessiva che in Europa sta rafforzando forze antidemocratiche e che potrà in futuro mutare lo scenario anche in Paesi come la Francia, la Germania e la Spagna; la progressiva perdita di vigenza effettiva della nostra Costituzione; il crescente senso di insicurezza. Il pericolo del ritorno di un regime autoritario nel nostro Paese è reale e l’appartenenza all’Unione europea non basta a tutelare la democrazia. I segnali preoccupanti, purtroppo, non mancano. Vediamo ora il disegno d’insieme delle azioni del governo Meloni: scelte inique nel regime fiscale, tolleranza dell’evasione e riduzione dei diritti di chi lavora; rifiuto di istituire il salario minimo e taglio al reddito di cittadinanza; nessuna lotta alla disoccupazione e alla precarizzazione; aiuto ai poteri finanziari; gestione disastrosa del Piano nazionale di ripresa e resilienza; autonomia differenziata disgregativa della comunità delle Regioni; smantellamento della sanità pubblica e tagli all’istruzione; totale occupazione della televisione pubblica e di molti giornali; attacco alla magistratura e a ogni ente di controllo dell’operato del governo; persecuzione contro i migranti e collaborazione con i regimi del Nordafrica; apologia della razza italiana e lotta alla “sostituzione etnica”; restrizione del diritto di manifestare e dei diritti civili; politica propizia all’aggravarsi della guerra in Ucraina; delegittimazione dell’antifascismo e sovvertimento della memoria storica. Se si legge il libro di William Sheridan Allen, “Come si diventa nazisti” (Einaudi, 2014), fatte le debite differenze di contesto, molte analogie sono impressionanti. Luciano Gallino scrive nella prefazione: “Nel momento in cui una comunità politica sta procedendo a piccoli passi, tortuosamente, verso l’abisso, nessuno è in grado di prevedere quale forma concreta prenderà il disastro. La migliore precauzione consiste nell’essere il più possibile consapevoli della doppia direzione in cui qualunque passo può portarci”. Verso una democrazia migliore o verso una variante del fascismo?

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