Politica: i tre o quattro pensanti ‘adulti’ della Lega hanno capito che è arrivato il momento di dire a Salvini: “giù le mani dal Carroccio!” L’invidiabile imperturbabilità di Draghi davanti all’armata dei ‘quaquaraquà’ dei partiti italiani…

La Lega non è più il partito leninista, monolitico. Le uscite di Giancarlo Giorgetti e del governatore veneto Luca Zaia hanno aperto una crepa ormai difficilmente sanabile. Hanno messo in luce, mai come adesso, la cifra politica di un leader che aspira a candidarsi alla guida del centrodestra e a governare una Nazione stretta nelle forche caudine dell’inflazione, della recessione incombente, della guerra e tra Nato, Washington e Mosca. Le cancellerie occidentali e gli ambienti militari che contano guardano con apprensione per quanto potrà accadere a Roma se nel 2023 dovesse vincere una coalizione nella quale Silvio Berlusconi consiglia caldamente Zelensky di piegarsi ai desideri di Putin e Meloni, che si è smarcata da Viktor Orbàn e si è allineata ai più oltranzisti antirussi che governano la Polonia ma non ha mai preso le distanze da Trump. Meloni, poi, considera le leggi nazionali sempre prioritarie rispetto agli interessi europei. E poi c’è lui, Salvini che stava organizzando una trasferta diplomatica con tanto di piano da portare a Mosca all’insaputa di tutto il suo partito, di Palazzo Chigi e della Farnesina. Ora anche il Copasir vuole vederci chiaro su Capuano e le sue attività di consulenza con alcune rappresentanze diplomatiche in Italia attinenti la nostra sicurezza. Enrico Letta chiede a Salvini di spiegare in Parlamento. Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d’Italia, consiglia sarcasticamente Salvini di prendersi una vacanza anche dalle dichiarazioni pubbliche e di approfittare del lungo week end per portare la fidanzata sulla costiera amalfitana. Ma a volerci vedere chiaro, dal punto di vista politico, è in particolare adesso l’ala governativa della Lega… Ormai il “Capitano” ha superato la linea rossa della credibilità. Sono bastate due parole al Presidente del Consiglio per liquidare la figuraccia di Salvini e il suo tentato viaggio a Mosca. Non è la prima volta che deve risolvere gaffe altrui: come la proposta di pace mandata all’Onu da Di Maio. Per non parlare degli innumerevoli e inutili tentativi di Conte di trascinarlo a riferire alle Camere per sperare in chissà quale ribaltone. Il governo «non si fa spostare da queste cose». Sarà anche abusata, ma la metafora dell’adulto alle prese con dei fastidiosi ragazzacci si attaglia troppo bene per non essere utilizzata anche dopo le vicende tragicomiche di questi giorni. E così, con una locuzione non esattamente enfatica – «queste cose» – Mario Draghi ha liquidato la gag di Matteo Salvini sul suo viaggio (fantasma) a Mosca. Trapela il fastidio del presidente del Consiglio per questo quasi-incidente internazionale che ha fatto ridere le cancellerie di mezzo mondo, probabilmente anche quei corvi del Cremlino che in tempi non lontani proprio sul Capitano avevano contato per seminare un po’ di confusione in Europa. A Mosca, a Mosca voleva andare Matteo Salvini un dramma teatrale che si è trasformato in una commedia amara all’italiana. Come le tre sorelle di Čechov, forse il capo della Lega voleva sfuggire al grigiore provinciale della politica italiana e vivere un momento di gloria, di propaganda. Ancora una volta però l’istinto, la smania di fare, apparire più lesto e furbo degli altri, la smania e basta, lo ha cacciato in un pasticcio. Senza dire niente a nessuno ha incontrato l’ambasciatore di Mosca Sergej Razov all’inizio dell’invasione russa in Ucraina. Senza dire nulla ai dirigenti del suo partito, compreso il responsabile Esteri Lorenzo Fontana, si era affidato ad Antonio Capuano per scrivere un fantomatico piano di pace e per organizzare la sua missione in Russia: un presunto esperto campano di diplomazia giuridica, un consulente dell’ambasciata russa che perfino l’ex viceré di Napoli Nicola Cosentino di Forza Italia considerava un «imbroglione». Improvvisazione, dilettantismo. Salvini è diventato un problema. Su di lui si addensano nubi nere e sospetti. L’annuncio (abortito) del viaggio a Mosca ha messo in difficoltà il presidente del Consiglio Mario Draghi, impegnato a livello internazionale e con le altre capitali europee a trovare una soluzione alla difficilissima crisi ucraina. Il presidente del Consiglio ha evitato di polemizzare, ma ha chiarito che l’Italia è «fermamente collocata nell’Unione Europea e nel rapporto storico transatlantico. Il governo non si fa spostare da queste cose». In altre parole, Salvini come Giuseppe Conte possono agitarsi quanto vogliono ma sarebbe meglio che stiano al posto. E Draghi era già dovuto passare sopra quell’altra bufala che era stata fabbricata da Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri, con l’invio all’Onu di un piano italiano che semplicemente non esisteva, altra brutta figura italiana su cui è sceso il silenzio mentre da parte sua Giuseppe Conte, come Rigoletto, medita vendetta tremenda vendetta in vista dell’appuntamento del 21 giugno in Parlamento del presidente del Consiglio quando cercherà un voto contro l’invio di nuove armi all’Ucraina. Una minaccia probabilmente destinata all’ennesimo fallimento e tuttavia sul tavolo senza che nessuno dei partner della maggioranza dica niente. È vero: chissà come sarà la situazione tra 20 giorni, chi può dire che l’Ucraina, malgrado il sostegno atlantico (ma sembra con sempre minore convinzione di Parigi e Berlino), sarà ancora in piedi malgrado l’inferno scatenato in questi giorni da Putin. Ma tornando al “Capitano”. Il leader leghista ha immaginato di poter dare un contributo alla pace muovendosi come il classico elefante irrequieto che non si rende conto di essere in una cristalleria, partendo da una posizione (basta armi e tutto si risolverà per incanto) che nei media russi viene applaudita. Un esponente importante della maggioranza politica italiana che disturba il guidatore come quei monelli che in fondo all’autobus delle gite scolastiche fanno casino. Se non fosse una vicenda seria per la reputazione dell’Italia, ci sarebbe da ridere. Ma l’istinto di Salvini, che in passato ha azzeccato alcune mosse nel mondo politico populista, si è spento a partire dal 2019: dalle spiagge del Papeete in poi, il Carroccio ha perso quasi quindici punti, è in coda al Partito democratico e, ancora più dolorosamente, a Fratelli d’Italia che gode della sua libera collocazione all’opposizione. La china elettorale e la fine del suo tocco magico sta provocando la perdita nel territorio di pezzi del partito (al sud in particolare) a favore di Giorgia Meloni, di quella capacità magnetica che rendeva Salvini un capo indiscusso nel suo partito. Adesso le cose sono cambiate e l’ultimo incidente ha fatto suonare l’allarme rosso. Per Giorgetti (è cosa nota) agitarsi è sempre controproducente, scavalcare Draghi è poi assurdo. «Sono questioni di portata mondiale, ognuno deve poter dare il suo contributo ma all’interno di percorsi che sono molto ma molti complicati», ha spiegato il ministro per lo Sviluppo economico che da tempo osserva con preoccupazione la perdita di lucidità di Matteo. Ecco, il punto è proprio come gestire l’elefante nella cristalleria? Come recuperare la credibilità di un segretario di partito con il quale la stessa Meloni non ha più voglia di allearsi (se non fosse per l’attuale legge elettorale che costringe alle coalizioni spurie e non in grado di governare). Anche Silvio Berlusconi è in difficoltà. Al Cavaliere è chiaro l’errore fatto al suo quasi matrimonio, dove ha incoronato Salvini come l’unico leader del centrodestra. Ha perso la faccia anche l’ex premier di fronte ai Popolari europei e al capogruppo e prossimo presidente del Ppe, l’amico Manfred Weber, che in una recente intervista al Corriere ha mostrato il volto dei difensori della libertà ucraina. Salvini minimizza, dice che la Lega è «una grande squadra, che ha vinto e vincerà ancora», che in una grande squadra «ci sono giocatori con caratteri diversi ma gli obiettivi sono comuni. Polemiche e pettegolezzi li lasciamo volentieri ad altri». Giorgetti e Zaia, ma anche il governatore friulano Massimiliano Fedriga sanno che è arrivato il momento di commissariare Salvini. Non hanno ancora la forza di sostituirlo al vertice della Lega, non hanno un personaggio alternativo forte, non hanno il controllo dell’apparato del partito e dei gruppi parlamentari, non hanno il coraggio di una guerra a viso aperto per la leadership. Sanno però che il Capitano ha superato la linea rossa della credibilità. E dopo le amministrative del 12 giugno e l’esito dei referendum destinati con tutta probabilità a restare senza quorum… e ha registrare un forte calo nei consensi della Lega tra i suoi elettori… dovranno correre ai ripari. Sanno che non possono più lasciargli carta bianca quando arriverà il momento di compilare le liste per le Politiche, cosa che Salvini ha fatto finora costruendo una falange attorno a sé. Giorgetti, Zaia e Fedriga temono di non essere rappresentati o di essere sottorappresentati in Parlamento. Soprattutto ora che è stato ridotto il numero degli eletti e nei collegi uninominali si preannuncia una feroce contesa con Fratelli d’Italia. Problema che con un sistema proporzionale non ci sarebbe. I così detti draghiani della Lega sono furiosi, atterriti dalle mosse di Salvini, dall’ipotesi di un listone con Forza Italia. Sperano che l’esperimento in questo senso in Sicilia alle amministrative e poi alle regionali fallisca. Pensano a come recuperare l’esperienza di questo governo, se non lo stesso Draghi dopo le politiche, come mantenere una linea atlantica anche alla fine della guerra quando verrà disegnata la mappa degli equilibri geopolitici. Stanno pensando a come commissariare il capo e a non farsi ridurre a una voce afona. Non sarà semplice, forse non ci riusciranno ma il tentativo è in corso. La figuraccia in termini di percentuale di votanti che si preannuncia sui referendum sulla giustizia, sarà un’altra pietra al collo del leader leghista (adesso accusa, per una volta giustamente, i media di oscurare le consultazioni). Le linee telefoniche dei governativi del Carroccio sono calde, i primi sintomi evidenti già ci sono. Basta vedere la fuga di un personaggio come Paolo Damilano, candidato sconfitto a Torino, uomo vicinissimo a Giorgetti. Mosse telluriche complementari a quella dentro i Cinquestelle dove la linea di Luigi Di Maio è sempre più inconciliabile con quella di Giuseppe Conte. E’ comprensibile, come riferiscono fonti parlamentari, Draghi: «ne ha le scatole piene» preoccupato non tanto per la tenuta del suo governo quanto per l’esibizione meschina delle troppe smagliature a opera di due segretari di partito come Salvini e Conte. Da parte sua il Pd, cioè il vero e unico puntello del governo, non perde occasione per bastonare il leader leghista, ma questa linea fa sorgere una domanda: perché prendersela sempre con il capo leghista ma al tempo stesso mantenere il silenzio sull’alleato strategico di Salvini, cioè l’avvocato, che ha in serbo non una cialtronata ma un’arma più seria, una mozione che può produrre seri danni a Draghi? Sono i misteri del Nazareno, ove ancora restano i due pesi e le due misure per valutare Lega e M5s, gemelli siamesi nel populismo e nell’anti-atlantismo. Intanto Draghi, da vero statista, è riuscito a far passare la sua linea a un vertice europeo difficile, lungo, faticoso, nel quale si è dovuto lavorare a mediazioni complesse con paesi come l’Ungheria e la Repubblica Ceca, riottosi ad adottare decisioni importantissime contro il regime di Mosca. «Sul funzionamento del mercato dell’energia e sui prezzi alti siamo stati accontentati. La Commissione ha ricevuto ufficialmente mandato per studiare la fattibilità del price cap», ha detto il premier. Il risultato politico che esce da Bruxelles è persino storico, l’embargo del petrolio russo al 90%. È una botta seria a Putin, i cui effetti si vedranno «a partire da quest’estate», ha spiegato il premier di fatto annichilendo la propaganda del Cremlino e dei suoi seguaci anche nostrani secondo i quali le sanzioni non sarebbero minimamente efficaci… Le sanzioni fanno male. Aver superato con compromessi accettabili il veto di Viktor Orbàn è stato un capolavoro politico-diplomatico. Dopodiché Mario Draghi è perfettamente consapevole degli effetti negativi che il quadro internazionale e la guerra di Mosca sta producendo sull’economia: «Il governo finora ha speso già circa 30 miliardi proprio per mitigare l’effetto dei prezzi dell’energia sulle famiglie più vulnerabili e c’è stato un intervento anche sulle imprese», le risorse ci sono, finora «siamo stati bravi a trovarle nel bilancio, spero che continueremo a essere bravi». L’Italia c’è, c’è in prima fila. Draghi non si smuove dal suo impegno a fianco di Kiev e va avanti. “Ragazzacci fastidiosi” permettendo…

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