Politica: il flipper delle alleanze promette una campagna elettorale a rischio autolesionismo. L’alleanza di centrosinistra non si amalgama. Accordi cervellotici, ma ora non sono più ammessi passi falsi…

Dopo una settimana di tensioni, comincia a chiarirsi il profilo della coalizione di centrosinistra, anche perché una rottura, a questo punto, sarebbe una figuraccia per tutti (che è esattamente quel che li aspetta all’indomani del voto, se vanno avanti così, tra due mesi). Al termine di una settimana assai complicata, soprattutto per Enrico Letta, si può dire che il quadro delle alleanze, nel vasto e variegato (ma non più tanto largo) campo che si opporrà al centrodestra, comincia a delinearsi piuttosto chiaramente. Al centro è verosimile rimanga una coalizione composta dalla lista democratica e progressista promossa da Partito democratico e Articolo Uno (con Luigi Di Maio in tribuna), dalla lista liberale e ultra-draghiana di Carlo Calenda (con Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna anche loro, simmetricamente, in tribuna proporzionale), nonché dalla lista antagonista e anti-draghiana del Cocomero rossoverde di Nicola Frantoiani e Angelo Bonelli. Nonostante le tensioni cui Calenda non rinuncia, l’alleanza tra Lui Letta fino a Bonelli & Frantoiani nonché Di Maio-Tabacci,  è ancora l’ipotesi più verosimile, se non altro perché una rottura sarebbe una figuraccia per tutti. Il tono dei tweet di Calenda e quello delle reazioni di Frantoiani e Bonelli non permette però di escludere che alla fine Calenda preferisca andare da solo, mentre tramonta definitivamente il dialogo con il Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte, oltre che dal Pd anche da parte dei rossoverdi che pure, dopo avere tentato un approccio, si erano mostrati assai diffidenti, temendo la strumentalizzazione che li volessero utilizzare solo per far ingelosire Letta e ottenere o meglio fargli perdere qualche collegio in più. In verità, un grande rimescolamento di carte con la sinistra, sarebbe probabilmente l’unica possibilità di invertire l’inarrestabile corsa del partito di Conte verso lo zero per cento. È dunque è il primo lui a scartarla. In ogni caso, però, la vera domanda è se reggerebbe il Partito democratico, e specialmente la sua sinistra interna, di fronte a una rottura col Cocomero, o se non scoppierebbe una rivolta anche a largo del Nazareno, di fronte al rischio di apparire all’elettorato come una sorta di junior partner di Azione, quasi che alla fine fosse il Partito democratico a fare il terzo polo con Calenda, una specie di lista Draghi senza Mario Draghi, e senza nemmeno Matteo Renzi, cioè quello che ha portato Draghi a Palazzo Chigi (contro la volontà del Pd). Renzi che peraltro si ritrova a correre da solo su posizioni perfettamente identiche a quelle dell’alleanza Letta-Calenda, praticamente su ogni argomento. Unico punto di dissenso resterebbe solo quale delle due sarebbe la lista Coca-Cola e quale la lista Pepsi. Scongiurata l’ipotesi che un pezzo del Pd (la Sinistra) preferisse abbandonare il partito per unirsi alla coalizione Conte-Cocomero, se fosse nata, che avrebbe potuto a quel punto presentarsi a tutti gli effetti come il vero centrosinistra, e provare a polarizzare lo scontro su di sé, a tutto danno del Pd. Infine, visto anche il tenore dei suoi recenti tweet, non può essere escluso dal novero delle possibilità che sia Calenda a rompere con il Partito democratico, e a quel punto verosimilmente anche con Emma Bonino, separazione che potrebbe però costargli l’esenzione dalla raccolta delle firme, costringendolo quindi a un’alleanza “tecnica” con qualcun altro. A questo punto l’intero Partito democratico si risolverebbe a una corsa solitaria. Letta l’ha declinata proprio in queste ore come l’opzione B. In un romanzo ‘a chiave’ sarebbe (forse) la conclusione più elegante: dalla coalizione con dentro forze che la pensano all’opposto su tutto, ma si presentano insieme, si passerebbe infatti a ben tre liste separate (Partito democratico, Azione, Italia Viva) che la pensano più che meno allo stesso modo su tutto, ma si presentano divise lo stesso, perché i rispettivi leader non si sopportano tra loro. Tra le subordinate minori, comunque da non scartare, restano poi sulla carta ancora possibili: un’Alleanza dei Dissidenti tra i sansepolcristi del grillismo guidati da Alessandro Di Battista e Virginia Raggi, Italexit di Gianluigi Paragone e i fasciocomunisti di Marco Rizzo e Simone Di Stefano; una Coalizione Renziana, formata da Matteo Renzi e Luciano Nobili; una Coalizione di tutti quelli che ce l’hanno a morte con Renzi, che potrebbe raccogliere gran parte delle liste sopracitate, dall’ex Casapound Di Stefano fino a Emma Bonino. E resta, drammaticamente inevasa, soprattutto una domanda: ma non era meglio il proporzionale? Ma insomma, è tutto complicato. Troppo complicato, cervellotico, innaturale. Oggi, tanti anni dopo, il problema che in qualche modo persiste è l’irriducibile dissidio novecentesco tra riformisti e massimalisti ovviamente aggiornato al 2022: e se i nomi di Filippo Turati e Giacinto Menotti Serrati sono per lo più sconosciuti agli stessi dirigenti dell’alleanza di centrosinistra, resta tuttora vivo il senso di una frattura ricomponibile – forse – solo in una logica di mera resistenza al nemico. E’ lo spettacolo della “coperta” di Enrico Letta, troppo corta come in una comica di Buster Keaton: se la tiri di qua copre Carlo Calenda ma scopre i piedi dei rossoverdi e viceversa. Niente da fare, questo amalgama è faticosissimo. E non si può ancora dire che non sia riuscito.  Resta tutto troppo complicato e innaturale nel fronte contro Giorgia Meloni e le altre due destre: tra le lamentele e le mediazioni fallite, sembra proprio che la vittoria sia irraggiungibile. Così è messo oggi il centrosinistra italiano, nella costernazione dell’Europa e nello smarrimento di larga parte dell’opinione pubblica, dopo tre anni di ambizioni sbagliate, vergognosi corteggiamenti dei populisti, lotte di potere, leadership deboli. E dunque in questa cornice minimal, parafrasando Pierre de Coubertin, il leader del Pd potrebbe pensare che l’importante sia pareggiare, non vincere. Vincere infatti sembra fuori dalla sua portata, a meno che i dannati sondaggi non siano tutti sballati e che l’“Italia blu” di certi schemini risulti alla fine diversa: ma ostacolare l’annunciata marea melonian-salviniana (sempre che Giorgia riesca a mettere la museruola al capo leghista che come parla perde voti), questo sì che per un’alleanza larga sarebbe possibile. E poi hai visto mai. Un autogol della destra è sempre incombente, dati i soggetti. Puntare a un Senato pari e patta, per esempio, facendo sì che la destra non riesca a conquistare la maggioranza a palazzo Madama, cioè non arrivi a prendere 100 senatori. Messa così si capisce come quella dell’alleanza di centrosinistra sia una pura battaglia difensiva, un Piave da difendere, nessuno deve sbagliare una mossa. Se poi l’aria dovesse cambiare con la fine dell’estate, ancora meglio: ma in queste ore nessuno s’illuda. Siamo ad un passaggio decisivo. O si lavora per recuperare, anche un’immagine, di un minimo di compattezza o l’amalgama risulterà non riuscito anche stavolta. E ci sarà poi tempo per discutere di chi sarà stata la colpa, come nella migliore tradizione della sinistra italiana. Ma con una buona campagna elettorale qualcosa si può ancora fare. Mettendo nelle liste gente seria, nuova, capace, popolare, tanto per capirci non Susanna Camusso ma Marco Bentivogli. E qualcuno si sta occupando di una candidatura di Marco Cappato? Con una buona campagna elettorale qualcosa si può ancora ottenere…

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