Politica: il Pd continua a discutere della sconfitta elettorale… un’educata rassegnazione della base dem verso la decomposizione del Pd e senza un’idea su cosa veramente fare al Congresso…

A Radio Immagina, l’emittente web del Partito democratico, si alternano le voci degli iscritti nelle sezioni che provano a capire come reagire a una storica sconfitta: fare il congresso, eliminare le correnti, tenere la sezioni in assemblea permanente… Esattamente quarant’anni fa, correva l’anno 1982, nel Partito comunista italiano guidato da Enrico Berlinguer si aprì una lunga discussione, una sorta di psicodramma di massa, per la sconfitta subita nelle elezioni amministrative a Castellammare di Stabia, in Campania, considerata la Stalingrado del sud; quasi dieci anni dopo, nell’89/91, il passaggio dal Pci al Pds costò un calvario ad Achille Occhetto (cui tutti quelli che sono venuti dopo dovrebbero rendere omaggio par averli salvati dal crollo del comunismo e invece l’hanno rapidamente rimosso dal Pantheon del Partito democratico, come facevano i comunisti sovietici con i leader caduti in disgrazia); nel 1993, in piena tangentopoli, Italia Radio, la radio del partito fu sommersa da fiumi di telefonate accorate e disperate dopo l’arresto di Primo Greganti e, mentre gli altri leader si facevano negare, a un certo punto intervenne Massimo D’Alema per rassicurare la base. Per capire cosa succede oggi nella base del più grande partito della sinistra italiana, dovremmo consultare uno dei pochi luoghi dove si discute fuori dalla cerchia degli oligarchi che decidono le sorti del Pd nell’infinito caminetto tra dirigenti che hanno fatto tutto e governato per dieci anni senza mai vincere un’elezione. Questo luogo è proprio Radio Immagina, l’emittente web del Pd: «Negli ultimi giorni si sono superati i 50 messaggi quotidiani e sono in continua crescita», è «prezioso avere a disposizione uno strumento come Radio Immagina per accompagnare il percorso costituente che porterà al congresso. In fondo la radio è nata proprio per contribuire, nel suo piccolo, ad allargare il perimetro e le interlocuzioni del Pd». Qualche intervento: «Se si vuol salvare il partito ci vuole ricambio, bisogna tirare fuori il carattere e chiedere a chi ha fallito di farsi da parte», così Tiziano da Campogalliano, in Molise, e aggiunge «Il ricambio generazionale senza il merito non consentirà il rilancio del partito. Il notabilato sta già reclutando proprio nel settore giovanile, per garantirsi lo status quo». Daniela, segretaria del Pd a Merano in Veneto: «Le correnti sono un problema reale per il rilancio del Partito. Sciogliamole! Sono luoghi di potere. Questo correntismo per occupare posti di potere penso sia anche alla base del cosiddetto governismo del PD, cioè ambire più a stare al governo che non ottenere cambiamenti tramite il governo. Questo i cittadini lo percepiscono. Quindi le correnti soffocano e ingessano il Partito dentro e lo squalificano fuori. Sciogliamo le correnti e affrontiamo un Congresso aperto con selezioni che partono dal basso, dai circoli». «Ma esisterà ancora il PD? Di questo passo ho molti dubbi, continuiamo a non imparare niente, un dramma! È possibile sapere la data del congresso? Non si può stare sei mesi con un segretario dimissionario, la rivoluzione nel PD la deve fare una nuova classe dirigente, altrimenti non ci resta che votare Conte», dice sconsolato Raffaele, da Napoli. «Bisognerebbe tenere le sezioni in assemblea permanente a parlare degli enormi problemi del paese invece di programmare il congresso tra 6 mesi», racconta Massimo, da Agrigento. «Tenere aperti i circoli sta diventando sempre più difficile!» esclama Enrico, da Lugo, in provincia di Ravenna, «Poche donne nel Pd. Basta ruoli ancillari. Basta correnti fatte da soli uomini. O si cambia registro o si cambia e si fa altro», mette il dito sulla piaga, Daniela da Bergamo. «Sono il segretario del circolo del PD di Monte Sant’Angelo, dove il nostro partito ha vinto le amministrative di giugno e le politiche di settembre. Il PD qui ha avuto da solo il 49% dei voti e il centrosinistra il 52%. Quindi questo dimostra che la coalizione era un contenitore vuoto. Non ritenete opportuno farla finita con il gioco delle correnti interne? Per altro, molti capicorrente hanno pochi voti, lo dimostra il fatto che nessuno si è candidato nei collegi uninominali» dice Pasquale. Dinnanzi a una storica sconfitta politica (sconfitta politica più che numerica) che porta al primo governo repubblicano guidato dalla destra e alla prima donna presidente del consiglio ci si aspetterebbero urla, pianti, tessere stracciate, sedi occupate, dirigenti cacciati a furore di popolo, fosse solo per il fatto che dopo anni di femminismo e quote rosa, è la destra a incarnare una leadership femminile vincente – bastava guardare l’espressione di Silvio e Matteo mentre Giorgia dichiarava. E invece di fronte a quella che, come ha osservato Giuliano Ferrara sul Foglio, sembra una «rivoluzione senza pathos», anche la reazione del principale sconfitto appare fredda, tutta cerebrale. Almeno, questa è la sensazione che abbiamo ricavato leggendo i messaggi «Più che mancanza di passione a me sembra che quei messaggi chiedano di rispondere alla domanda cruciale: chi siamo, con quale profilo, con quale identità, con quale riconoscibilità». Sarà come dice Bianchi, sarà che la base del Pd è educata e questa non è certo una colpa. Tuttavia, proprio per aver attraversato e raccontato le grandi e appassionanti discussioni del passato, questa assenza di pathos – se è comprensibile in una destra che deve smussare i suoi angoli per farsi accettare – nel Pd appare come una rassegnazione, la sensazione che davvero si sia al termine di un viaggio triste, solitario y final, come riassume Tony, da Mottola, in provincia di Taranto: «Caro PD penso che sia il momento di cambiare tutto e darlo in mano a una nuova generazione, se non si fa questo penso che siamo destinati a scomparire». Dal 25 settembre la sinistra è ferma su una non-linea indefinita, incapace di decidere tra la testimonianza minoritaria-populista, al fianco dei Cinquestelle, o la vocazione riformista e di governo con il Terzo Polo… Oltre gli interventi diretti alla radio, qui brevemente riportati, occorre tenere conto dell’ampio e meritorio dibattito sul futuro del Partito democratico apertosi sulle pagine di Repubblica è ricchissimo di spunti, idee, suggestioni e naturalmente tante critiche al partito e al suo gruppo dirigente. Francesco Piccolo: «Lì dentro, nel Partito, ci sono persone grigie e timorose, caute e pronte a spendersi soprattutto per una rivalità molto virile». Ciò che accomuna tutti gli scritti è una vera e propria costernazione per il punto cui si è giunti con la batosta elettorale del 25 settembre e insieme il desiderio – anzi: il bisogno – di ritrovarsi sotto il cielo della sinistra perduta. Se si scorre questa piccola enciclopedia (finora una sessantina di interventi) vi si trova materia non per uno ma per dieci congressi: dal primato dell’ambiente a quello del femminismo, dal ruolo dei cattolici all’orizzonte socialista o laburista, dal partito del radicalismo a quello liberale e moderato, dal ruolo dei sindaci alla ricostruzione di un vocabolario di sinistra, ce n’è per tutti. E a pensarci bene in fondo stava qui il bello del Partito democratico quando nacque nel 2007 con Walter Veltroni (a proposito: come mai non interviene? È troppo disilluso?), c’era tanta roba, forse persino troppa, però era interessante proprio per questo, appariva come un caleidoscopio di idee e di colori. Si è visto negli anni come l’amalgama non riesca, ognuno ha le sue risposte sulle responsabilità, sta di fatto che oggi più che mai è tempo di scelte chiare. Ecco il punto dolente. Nelle decine di articoli pubblicati da Repubblica non esce con nettezza una proposta precisa sulla linea politica da seguire qui e ora, come se per ragioni varie tutti ritenessero necessaria prima una lunga seduta di psicanalisi per capire «chi siamo e cosa vogliamo», come si diceva nel Sessantotto, rimanda a un domani indistinto le scelte che bisogna fare oggi: come se l’identità fosse una categoria dello spirito e non la risultante di un’azione politica. Insomma, così come l’uomo è ciò che mangia, un partito è ciò che propone. Ora, la domanda attuale, ricca di implicazioni sull’identità e sul futuro del Partito democratico, è semplice e non è affatto banale: andare verso il partito di Giuseppe Conte che formalmente si chiama ancora Movimento 5 Stelle o verso i liberaldemocratici del Terzo Polo? Ovviamente non si tratta di una questione politicista o solo di tattica politico-parlamentare (anche se quest’ultimo aspetto ha una sua rilevanza, come si è visto nel dibattito sull’Ucraina nel quale il Partito democratico è stato con la maggioranza e il Terzo Polo lasciando fuori Conte) ma della famosa linea politica e strategica. Semplificando si è detto: Mélenchon o Macron? Cioè scegliere la testimonianza minoritaria-populista o riprendere la vocazione riformista di governo? Alla fine, è proprio per non aver sciolto per tempo questo dilemma, oscillando tra la passione per Conte e quella per Draghi, che Enrico Letta è arrivato alla campagna elettorale senza una proposta politica mentre tutti gli altri una linea ce l’avevano, e la destra più chiara degli altri. Il Partito democratico ha corso dunque zavorrato da questa incapacità di indicare un’uscita politica per il Paese, ed è naturale che abbia perso. Chiariamo che il problema non è tanto degli intellettuali e politici intervenuti su Repubblica*, ma di un Partito democratico che continua a barcamenarsi con una non-linea: un po’ con questo, un po’ con quello e quindi con nessuno, ma non perché è forte ma per il suo contrario. Il problema si rimanda, per esempio su quale sia il giudizio finale su un personaggio come Conte: è ancora considerato un possibile alleato? Una scelta politica sulle alleanze, quindi sul suo profilo, dovrebbe essere il cuore del Congresso, se fosse una vera sede di discussione politica, mentre dalle prime battute sta emergendo unicamente il susseguirsi di mosse e contromosse per tagliare il traguardo alle primarie del 19 febbraio, tra l’altro attraverso una modalità congressuale che non aiuterà la discussione tra gli iscritti perché la fase della discussione nei circoli sarà solo di un paio di settimane. E così, mentre è in gioco il suo destino, il Partito democratico non sembra rendersene conto…

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*Sono intervenuti: Michele Serra, Francesco Piccolo, Stefano Massini, Massimo Recalcati, Chiara Saraceno, Emanuele Trevi (intervistato da Raffaella De Santis), Isaia Sales, Luciano Violante, Chiara Valerio, Gianni Riotta, Nichi Vendola, Luigi Manconi, Dario Olivero, Giacomo Papi, Daniela Hamaui, Michela Marzano, Linda Laura Sabbadini, François Hollande (intervistato da Anais Ginori), Carlo Galli, Emanuele Felice (intervistato da Eugenio Occorsio), Natalia Aspesi, Javier Cercas (intervistato da Alessandro Oppes), Roberto Esposito, Gianni Cuperlo, Bruno Simili (intervistato da Eleonora Capelli), Giorgio Tonini, Franco Lorenzoni, Pietro Ichino, Paolo Di Paolo, Serenella Iovino, Giovanni Cominelli, Luigi Zanda, Michele Salvati, Giuseppe Laterza, Enrico Letta, Stefano Boeri, Anna Foa, Antonio Bassolino (intervistato da Conchita Sannino), Simona Colarizi, Giancarlo Bosetti, Nicola Zingaretti, Andrea Romano, Marc Lazar, Pina Picierno, Andrea Graziosi, Graziano Delrio, Daniele Vicari, Michael Walzer (intervistato da Paolo Mastrolilli), Marco Bentivogli, Marco Belpoliti, Cecilia D’Elia, Andra Segré, Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, Luca Ricolfi, Adolfo Battaglia, Achille Occhetto, Laura Pennacchi, Matteo Lepore…

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