Politica: il Pd deve tornare ad avere delle opinioni radicali (radicalità per ricostruire) e una coscienza civica…

La sinistra italiana è soffocata da una crisi politico-istituzionale e da una socio-culturale che ne hanno offuscato sicuramente l’identità politica. Serve quindi la volontà di ritornare a rappresentare gli interessi generali tramite una nuova visione del lavoro, della scienza, della tecnologia e dello sviluppo umano… Se, come sostengono alcuni cronisti politici, il Partito democratico ha chiuso i battenti. Ed è un morto che cammina e che non sa di trovarsi in questa condizione da realismo magico. Una sinistra al governo, da dieci anni, salvo la parentesi annuale giallo-verde, ma sempre meno di governo. L’alleanza stretta con il Movimento 5 Stelle, costi quel che costi, compresa un’ostilità sotterranea crescente verso il governo Draghi, è la controprova più evidente di questo offuscamento identitario… Non serve né ridere, né piangere, né inveire, ma bisogna capire: questo è quello che spetta a noi, in attesa che un lampo di residua saggezza piddina squarci la penombra malinconica del declino del Partito democratico. Ci prova come sempre Gianni Cuperlo con il suo documento-manifesto “radicalità per ricostruire”. Dove sono i veri riformisti nel Partito democratico? Le cause dell’indicato declino sono di due ordini. La prima è politico-istituzionale, la seconda socio-culturale. La storia incomincia nel 1989. Negli anni 1989-1994 il vecchio PCI-PDS si trova al punto di intersezione di tre movimenti: la caduta del Muro, il leghismo in crescita ruspante, l’antipolitica a due ganasce: una buona, quella del movimento referendario; una cattiva, quella del giustizialismo di Mani pulite e della Rete. La caduta del Muro fa saltare l’assetto politico-istituzionale della Prima repubblica, del quale la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano erano i pilastri di pietra. Per alcuni anni, fino al 1997/98, il PCI-PDS-Cosa 2 si sforza di arrivare all’altezza della crisi, con l’Ulivo e con la Bicamerale. La posta in gioco era quella di spostare il peso del governare dai partiti all’istituzione-governo. Con l’operazione governista di D’Alema-Cossiga del 1998 riprecipita consapevolmente alla base della scalata, quella della Prima repubblica. Cambia la nomenclatura dei partiti, ne nascono di nuovi, ma la collocazione istituzionale rispetto alla società e allo Stato resta quella di sempre. Risultato: il non/governo partitico del Paese. Intanto è dagli anni 1992-93 che lo sviluppo italiano si è bloccato. L’esperimento di Silvio Berlusconi, annunciato con clangore di tromba nel 1993, viene bruciato dall’interno nel giro di dieci anni. Come sostiene Gianni Orsina, nel 2005 il berlusconismo di governo è già al tramonto. Sul terreno della mancata riforma del sistema politico-istituzionale nasce la gramigna del populismo. Nasce a sinistra. A destra è già incapsulato e controllato dalla Lega di Bossi e da Alleanza nazionale di Gianfranco Fini. Gli anni della crisi finanziaria e poi economica del 2007-2011 e l’impotenza della politica europea e italiana di produrre una risposta fanno condensare il movimento populista nella sigla Movimento 5 Stelle. È a tutti chiaro che il populismo è un prodotto del lungo e interminabile addio della Repubblica dei partiti, ormai non più capaci di una democrazia forte rappresentativamente, perché decidente. Ma quando si arriva al dunque con il referendum di Matteo Renzi del dicembre 2016, i partiti, compresa una parte del Partito democratico, posta mano all’aratro, volgono lo sguardo all’indietro. Così, il Partito democratico per tenersi a galla si abbranca ai ministeri e agli apparati dello Stato, di cui diviene una sorta di articolazione interna. Si tratta di potere, di microfisica del potere, non di governo. Quanto alla società civile, vi galleggia sopra senza più radicamento sociale e territoriale, inseguendo ogni flatus vocis. E qui veniamo alla seconda causa del declino del Partito democratico, quella socio-culturale. La sinistra pre-’89, la sinistra PCI-PSI-PSDI, era una sinistra del lavoro, laburista di fatto. Era erede della lunga tradizione del Movimento operaio, per la quale il lavoro avrebbe redento il mondo e lo avrebbe indirizzato verso lo sviluppo e la giustizia sociale. La classe operaia era l’unica classe generale, che, perseguendo i proprio legittimi interessi economico-sociali, realizzava in realtà gli interessi della società intera, liberava tutti e ciascuno dall’oppressione dei proprietari dei mezzi di produzione e della loro macchina statale. Un sogno hegelo-marxiano, fin troppo bello per essere vero. Tuttavia, questo mito è stato il motore secolare della sinistra e dei movimenti di liberazione sociale. Partito del lavoro vuole dire partito della produzione, dello sviluppo tecnico-scientifico. Attraverso una ben assestata lotta di classe, il partito dei lavoratori avrebbe preso la guida – per via democratico-pluralista dello sviluppo della civiltà. Non è certo responsabilità dei partiti del lavoro, se la globalizzazione e l’informatica hanno fatto saltare questo disegno. Certo è che, nel giro di pochi anni, si sono trovati senza ancoraggio sociale e in piena secolarizzazione ideologica. In questa distruzione creatrice, la destra, non prigioniera di visioni soteriologiche, si è mossa più a suo agio, mischiando allegramente nella propria rappresentanza micro-interessi, domande di protezione e di sicurezza, vecchie tavole di valori. Per la sinistra laburista sono stati guai. Ha perso la trebisonda, non conosce più la strada per oltrepassare gli stretti e arrivare a Trebisonda, per l’appunto. Sì, sono rimasti i sindacati. Ma, a parte il fatto che gli iscritti danzano allegramente da sinistra a destra, quando si tratta di votare, si è invertito il movimento della cinghia di trasmissione: il Partito democratico è mosso dai sindacati. Con ciò non è più un partito del lavoro, ma rappresentante di una corporazione di garantiti, che difende accanitamente chi è dentro e tiene sbarrate le porte a chi è fuori. Non pretende più di rappresentare interessi generali. Sennò Maurizio Landini non si opporrebbe all’obbligatorietà del Green Pass nelle aziende. Ahinoi, i tempi di Luciano Lama, quando il sindacato, dietro pressione del PCI, si piegava di fatto alla lamalfiana politica dei redditi, è ben lontano. E, allora, cosa c’è oltre i sindacati? Beh, lo sterminato mondo dei cittadini. Se Salvini si è inventato gli Italiani, la sinistra si è inventata i Cittadini. Così, non si dà molta differenza tra il partito-avvocato dei cittadini e l’avvocatura del popolo di contiana memoria, il partito delle class-action e dei ricorsi. Non più i lavoratori, ma i cittadini-popolo sono il nuovo referente. Troppo vario e mobile per essere stabile. E, si sa, il popolo è bello, perché è vario. Così il Partito democratico è diventato il contenitore di ogni istanza politically correct, un mix di pulsioni socio-culturali assai simile al Partito democratico americano, dal fluid gender alla cancel culture all’immigrazionismo radicale… Così, sul piano ideologico, se la parte del Partito democratico che viene dalla sinistra storica PCI ha rotto i ponti con il marxismo – ma pare che Massimo D’Alema lo stia riscoprendo – la parte che viene dalla DC ha rotto con il mondo cattolico. La vicenda del ddL Zan ne costituisce la prova lampante. E come negli Stati Uniti, la politica dell’identità, ha preso il posto del radicamento sociale in interessi ben individuati, anche in Italia la sinistra di Letta tenta la via identitaria, intestardendosi di volta in volta su un tema – il gender o la giustizia – nella speranza di farsi notare. Certo, date le premesse, il Partito democratico non è affatto ideologicamente compatto. Lo sradicamento sociale e ideologico ha prodotto un pulviscolo di correnti e di leader minimi, ciascuno dei quali difende il proprio territorio di potere. Anche nel partito si rispecchia la microfisica dei poteri. Ci sono, dunque, anche i riformisti. Hanno tranquillamente consentito alla riduzione del numero dei parlamentari, hanno appoggiato prima Zingaretti, nella sua alleanza strategica con il Movimento 5 Stelle e nel sostegno al Conte bis, che si voleva tenacemente ter, in odio a Renzi e al Paese. Oggi sono passati alla mormorazione nei corridoi del Nazareno. Viene spesso obbiettato dall’interno di quest’area che riformismo è contrario di giacobinismo, di mosse sventate e intempestive. Per evitare le quali, la tattica adottata è quella del silenzio e dell’immobilità. Con questa tattica, gutta non cavat lapidem! Non è certo compito mio spiegare al Partito democratico che cosa dovrebbe fare… Non ne ho competenza ne ambizione a riguardo. Però, ho qualche opinione, a perdere… In verità ne ho una sola. Sì, il Partito democratico dovrebbe tornare a Karl Marx. Non a quello politico-soteriologico, , che la storia del comunismo ha bocciato. Ma certo al Marx della produzione, della scienza, della tecnologia. Al Marx che profetizzava il passaggio alla coscienza enorme, generata dall’incorporazione della scienza nei mezzi di produzione. Al Marx dell’economia della conoscenza. Al Marx che scriveva: «Essere radicali significa andare alla radice. Ora, la radice è l’uomo stesso». Non è il Marx degli statali e dei pensionati. È il Marx dei lavoratori, degli imprenditori, degli scienziati, dei tecnologi… Il Marx dello sviluppo umano. Mi rendo conto: proposta troppo generica. Ma potrebbero già bastare per sostenere il Governo Draghi con maggior convinzione. Perché non c’è giustizia sociale, senza distribuzione di ricchezza. Ma non c’è ricchezza da distribuire senza sviluppo. E non c’è sviluppo senza scienza. E non c’è scienza senza istruzione ed educazione…

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