Politica: il rating resta fermo, ma il futuro dell’Italia resta incerto. Gli scogli di politica economica su cui può infrangersi il governo Meloni…

Le agenzie internazionali hanno confermato il loro giudizio sull’economia italiana. A preoccupare è sempre il debito pubblico… Con il giudizio sull’Italia dato da Moody’s venerdì scorso si è concluso il “mese del rating” ossia dei giudizi che periodicamente le società private che svolgono questa attività danno alla qualità dei titoli emessi dai vari paesi. Aveva iniziato Standard & Poors il 20 ottobre, seguita da Dbrs una settimana dopo, da Fitch il 10 novembre e, infine, da Moody’s il 17 novembre. La valutazione di queste società ha due componenti. La prima è il rating vero e proprio, un voto che è tanto più basso quanto più è probabile che un titolo non sia ripagato alla scadenza. La seconda è l’outlook ovvero un giudizio (positivo, stabile, o negativo) che indica la probabilità che, in futuro, il rating possa cambiare in meglio o in peggio. Qual è stato il responso delle quattro società di rating? Nessuna ha cambiato il rating italiano e una, Moody’s ha migliorato l’outlook da negativo a stabile… Respiro di sollievo da parte del governo. Sì, perché c’era il timore di una nuova congiura da parte dei poteri forti internazionali. Nella mitologia sovranista le agenzie di rating sono un po’ come i servitori di Sauron nel Signore degli Anelli: servono il male. È esagerato? Direi: No! Non c’è dubbio che il centrodestra abbia spesso temuto, per lo meno a partire dalla crisi del 2011 che portò alla caduta del governo Berlusconi, che la volontà degli italiani potesse essere piegata dalla finanza internazionale, pronta a muoversi al segnale dalle agenzie di rating. Non è stato così e non lo è mai stato. Le agenzie di rating fanno il loro mestiere e nel caso dell’Italia hanno fatto bene il loro mestiere perché un peggioramento del rating italiano sarebbe stato del tutto ingiustificato, in questo momento. Scampato il pericolo, più immaginario che reale, però, non è che possiamo essere troppo contenti. Delle quattro agenzie solo Moody’s ha migliorato l’outlook portandolo a stabile. Ma Moody’s era l’agenzia che ci dava, e ancora ci dà, il rating più basso, solo un gradino sopra a quello dei titoli “spazzatura”, più tecnicamente quelli che non hanno il livello (investment grade) che, per molti investitori internazionali, è il minimo per includerli nei loro acquisti. Nello spiegare la decisione di passare da un outlook negativo (eravamo, quindi, sull’orlo dell’abisso) a uno neutrale, Moody’s ha indicato che ci sono stati miglioramenti nella salute del sistema bancario, nelle prospettive di crescita a medio-lungo termine grazie ai progressi nell’implementazione del Pnrr e nella riduzione dei rischi energetici “in parte grazie alla forte azione del governo” nel diversificare le fonti di approvvigionamento. Detto questo, il rating resta quello che è: un livello sopra quello dei titoli spazzatura. Il nostro Paese, dice Moody’s, resta vincolato da problemi strutturali che ne limitano le prospettive di crescita e dai rischi che, nonostante i progressi fatti, rendono la piena implementazione del Pnrr ancora molto incerta. Ma, soprattutto Moody’s sottolinea l’altissimo debito pubblico. Moody’s prevede che questo rimanga nei prossimi anni intorno al 140% del Pil, ma in un contesto in cui il costo di questo debito salirà nel tempo, vista che l’era dei tassi di interesse a zero sembra finita per sempre. È ovvio che questi problemi non sono dovuti al governo Meloni, ma all’accumularsi di decisioni prese nei passati decenni. Ma resta il fatto che il governo non sembra orientato a fare quello che serve per risollevare il nostro rating. È infatti lo stesso governo ad aver presentato una legge di bilancio in cui il rapporto tra debito pubblico e Pil scenderebbe da qui al 2026 solo di sei decimi di punto percentuale, un’inezia, rinviando quindi agli ultimi due anni del suo mandato il compito di rimettere a posto i nostri conti pubblici. Ma veramente il Governo Meloni, durerà per l’intera legislatura? Mi permetto di dubitarne. E questo nonostante ipotesi ottimistiche sull’andamento del Pil e l’assunzione che nel 2025 i tagli di Irpef e contributi sociali di recente introdotti o confermati non siano rinnovati. Lo voglio proprio vedere questo governo ad aumentare le tasse nel 2025 e neil prossimo anno lottare contro l’evasione fiscale! Andando avanti così, non si vede come il nostro rating possa migliorare in futuro. È quindi sicuramente troppo presto per auto congratularsi e stappare bottiglie di italianissimo prosecco. Nei prossimi giorni ci sono alcuni appuntamenti importanti che faranno capire in che direzione andrà l’Italia nei prossimi anni, fra Mes e ridefinizione del patto di stabilità. Il nodo finanziario è quello che può mettere più in difficoltà Meloni. Chi negli scorsi mesi paventava un rialzo dello spread, con conseguente crisi politica della maggioranza, a causa delle politiche economiche del governo si sbagliava. Il divario tra titoli di stato italiani e tedeschi oggi si aggira intorno ai 170 punti e sui mercati internazionali non c’è un rischio rilevante per l’Italia. Un segnale di tranquillità come si diceva arriva anche dalle agenzie di rating, il cui giudizio sul debito pubblico italiano e le sue prospettive restano stabili. La catastrofe finanziaria predetta, e forse auspicata per ragioni politiche, da alcuni analisti non c’è ancora. Ma ciò non significa affatto che sia tutto rosa e fiori per il rapporto dell’Italia tra Stato e mercato. Il debito resta elevato e rinnovarlo è sempre più costoso, l’industria è di fatto ormai in recessione e il Pnrr, sconta comunque le sue difficoltà di attuazione, la politica industriale è debole e dispersiva per non dire inesistente, il deficit di bilancio sempre più ampio, andrà prima o poi ridotto, si, certo progressivamente, ma sarà ancor più difficile, dopo anni di politiche espansive. Su questi temi, i prossimi giorni presentano una serie di appuntamenti che ci daranno una lettura più esatta dello stato di salute del governo italiano. Il 22 novembre dovrebbe comunque iniziare la discussione parlamentare sulla ratifica del Mes, il condizionale è d’obbligo perché i lavori parlamentari daranno quasi sicuramente la priorità ad altri decreti facendo guadagnare tempo alla maggioranza che comunque dovrà finalizzare la ratifica tra dicembre e gennaio. In parlamento, considerando le posizioni da sempre favorevoli di Pd, centristi e Forza Italia una maggioranza per la ratifica dovrebbe esistere anche qualora la Lega, da sempre contraria, si dovesse astenere. Ago della bilancia sarà il partito della premier, Fratelli d’Italia, che risponde agli input di Palazzo Chigi. L’approvazione del trattato non comporta nulla nell’immediato, ma istituisce un complesso meccanismo di garanzie finanziarie e commissariamento politico nel caso in cui il paese venisse travolto da un grave dissesto economico. È un tema che da sempre vede i partiti di destra contrari a causa della cessione di sovranità alle istituzioni europee che l’attuazione del Mes comporterebbe. Giorgia Meloni è dunque ad uno dei bivi della sua carriera politica: cambiare idea ora che è al governo e incardinarsi nell’ordine europeo oppure restare fedele alle vecchie battaglie di opposizione? Se troverà il modo di approvare il Mes, la presidente del Consiglio guadagnerà ulteriore credibilità in Europa e sui mercati. In questo scenario, per rendere più digeribile il Mes alla propria maggioranza, Meloni ha fatto capire di voler tenere insieme ratifica del trattato e nuovo patto di stabilità. Il 23 novembre ci sarà una importante riunione dell’Ecofin per quanto concerne il secondo. In una logica negoziale, il governo è alla ricerca di un do ut des: recepire il Mes per spuntare condizioni migliori sulle regole di finanza pubblica. Chiudere bene sul patto di stabilità è fondamentale per l’Italia proprio perché con regole troppo stringenti sul debito c’è il rischio di un ritorno all’austerità già dal 2025. Se così fosse, le probabilità di un suicidio politico per la maggioranza che governerà nei prossimi anni crescerebbero molto. Sempre questa settimana, inoltre, è attesa la valutazione della legge di Bilancio da parte della Commissione europea. La manovra italiana dovrebbe ricevere il semaforo verde da Bruxelles, seppur con qualche rilievo e richiesta di aggiustamento. Un via libera positivo è importante per il governo proprio per lavorare sul binomio Mes-patto di stabilità senza troppi nervosismi. È probabile che la Commissione non si mostrerà troppo rigida dato che le elezioni europee sono prossime e il governo italiano non ha troppo forzato la mano sui numeri. Una finestra negoziale resta aperta sul patto di stabilità per ragioni geopolitiche. La somma di pandemia e guerre nel giro di tre anni ha spinto tutti i governi a spendere molto di più, Germania in primis. Tutti sanno che questo ciclo interventista potrebbe non essere finito poiché le incognite globali sono molte, dal controllo delle materie prime alle guerre fino alla possibile rielezione di Donald Trump. Anche agli altri paesi europei converrebbe lasciarsi una maggiore flessibilità nelle regole finanziarie poiché i governi potrebbero dover continuare a spendere di più a livello di investimenti rispetto al decennio precedente. Se così sarà, Meloni porterà a casa un buon risultato e a quel punto la maggioranza sarà più incline ad ingoiare l’amaro calice del Mes. Infine, è importante segnalare riguardo al quadro fin qui tracciato, la contraddizione rispetto all’esigenza del controllo della spesa pubblica e all’uso razionale delle opportunità offertaci dall’attuazione del Pnrr, l’attuazione dell’Autonomia Regionale Differenziata che è il grimaldello della Lega per scardinare ogni pretesa di centralità di controllo economico per l’appunto della spesa pubblica, già in parte fuori controllo… con tutto ciò, nel prossimo futuro, la navigazione finanziaria del governo è destinata sicuramente a complicarsi ulteriormente…

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