Politica: la grande bugia dell’opposizione che non c’è. Un Popolo di “sonnambuli” senza più una ‘visione’ di società democratica. Occorre lavorare a tutto campo per il riscatto della Sinistra…

Paradossale: “non c’è una opposizione!” Questo è il mantra diffuso dai nostri mass media filo governativi. Lo fanno, altresì, guarda caso per le stesse vie, anche molti degli stessi oppositori, che non senza vigore, tentano di respingere le attuali derive autoritarie del Governo Meloni. Quest’ultimi sembrano essere inconsapevoli, non essendo dotati di strumenti autonomi e/o di parte di comunicazione, dell’incorrere nel rischio di alimentare pur senza volerlo l’area già ampia dell’astensionismo, che cresce proprio nell’ambiguità comunicativa della stampa e delle  tv (La verità, Libero, nonchè nelle c.d. grandi firme delle principali testate dei grandi quotidiani oltre che nella Rai e Mediaset) tutti organi d’informazione che non vogliono più di tanto dispiacere al potere della politica.  Non ci si accorge che quel mantra non è vero o lo è solo in parte. Infatti, sia le sinistre che la stessa opposizione sociale in questo anno e poco più di Governo Meloni, almeno negli ultimi mesi dopo l’estate, hanno rilanciato, attorno a obbiettivi concreti e ben comprensibili gli stessi temi che discussi nei talk politici allo stesso tempo invece, vengono indicati per evidenziare la mancanza di una vera opposizione. In quella indicazione, tuttavia, c’è un fatto vero. Si tratta del venir meno di una unitaria visione comune di futuro, di Paese e di Mondo. Cioè di un “orizzonte ideale” che sappia accompagnare le singole rivendicazioni e la “ragione della politica” con il “sentimento”, la “passione”, necessari a mobilitare le coscienze. Ma questo ‘deficit di futuro’ purtroppo accomuna tutta la società italiana e la stessa cultura che caratterizza disordinatamente il sistema informativo. Per dirla con Achille Occhetto che scrive in un recente articolo su carta stampata: “Ora basta! Si tratta di contrapporre alla retorica populista della paura per il futuro, l’orizzonte della speranza. L’idea che, ancora una volta come umani, ce la possiamo fare”. Ce lo spiega l’ultimo rapporto del Censis quando dice che siamo “sonnambuli” impotenti in un gorgo indistinto dove il “ripiegamento in piccole patrie e piccole rivendicazioni” ha offuscato i grandi impegni collettivi. Se le cose stanno così, spetta non a un solo partito, ma a tutta l’area democratica, mettere culturalmente ordine in questo gorgo inestricabile. Quando alle miserie del presente si contrappongono le grandi tensioni ideali del passato occorre sempre ricordare che quella cultura, quella passione politica che si faceva popolo, aveva le sue origini unitarie, pure nelle indubbie differenze, nella sorgente della “democrazia antifascista”. Anche la cosiddetta egemonia della sinistra, nella quale si collocano i pensieri di comunisti, socialisti, azionisti, delle più avanzate correnti del cattolicesimo democratico e, in primo luogo, di molti intellettuali indipendenti, si è abbeverata a quella sorgente. Perché l’egemonia culturale non si forgia, come si crede oggi, nelle segreterie dei partiti o per disposizioni ministeriali, ma nel fuoco degli eventi storici. Ecco il punto. Oggi manca una visione d’insieme della fase storica. E quindi tutti, proprio tutti, non possono riversarla sulle genti e farla diventare senso comune di una coscienza collettiva. Però, come si sa, nella ricerca è già importante cercare di porsi le domande giuste. E la prima domanda non può che partire dall’alto per giungere poi alle piccole rivendicazioni. Partire dal mondo. Se vogliamo fornire un abbozzo di risposta su quale fase storica stiamo attraversando, ci accorgiamo che viviamo in un periodo drammatico di “disordine internazionale” in cui nessuno lavora a un “nuovo ordine”. E che per questo penzoliamo sull’orlo di un abisso da cui emergono almeno tre emergenze principali. La strisciante distruzione della vita umana sul Pianeta; la voragine sempre più grande della diseguaglianza mondiale; le ondate di permanenti migrazioni bibliche. Il tutto accompagnato dalla “guerra-patchwork” mondiale e dal contorno di continue minacce pandemiche. Ci sarebbe quanto basta perché il Pianeta si faccia sistema: unisca le sue immense potenzialità scientifiche, tecnologiche, intellettuali per fronteggiare queste emergenze strutturali. Ponendo al centro il tema della riconversione delle competenze e delle attività produttive; a cominciare dalla messa al bando delle armi di distruzione di massa e dal disarmo reciprocamente controllato in un quadro di sicurezza comune. Utopia? Sì, certo, ma è un’utopia del possibile. Se invece vogliamo continuare a vivere da “sonnambuli”, allora non parliamo più della necessità di una “visione”. È facile farsi belli con questa espressione se poi non si cerca di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Se ci si limita a chiederlo ai politici di turno. La frammentazione della società ha contagiato anche una cultura sempre più prigioniera delle singole “ontologie regionali”, come avrebbe detto Edmund Gustav Albrecht Husserl (un importante filosofo e matematico austriaco, fondatore del corrente filosofica denominata della ‘fenomenologia’ che ha influenzato buona parte della cultura del Novecento europeo e non solo). In sostanza, siamo tutti colpevoli. Per questo mi limito a constatare che sarebbe sufficiente comprendere e fare comprendere il legame tra distruzione del Pianeta, diseguaglianza planetaria, guerra mondiale strisciante, incombenze pandemiche dentro una visione unitaria della comune sicurezza, del riscatto femminile e della liberazione umana. In sostanza per ridirla con parole semplici e comprensibili si tratta di contrapporre alla ormai onnipresente retorica populista della paura nel futuro un orizzonte di speranza e di riscatto. Ovvero come più sopra accennato: l’idea che, come umani, ce la possiamo fare. Naturalmente tale visione dovrebbe sapersi esprimere attraverso nuovi obbiettivi mobilitanti. Un solo esempio. Si sa che le catastrofi indotte dal riscaldamento globale colpiscono l’agricoltura. Una politica che sappia collegare una visione di Paese e di Mondo ai destini concreti delle persone potrebbe suscitare un nuovo movimento nelle campagne più sensibile alla lotta ambientalista. Ridando così “potenza alle spinte collettive”; reinventando il rapporto tra individuo e comunità. Solo in questo modo si potrà superare il limite della politica: quello di mantenere distinte, in modo corporativo, le singole rivendicazioni. È naturale per i movimenti sorgere sulle singole evenienze, è un dovere della politica fornire una sintesi. Tuttavia, non possiamo nasconderci la radicalità che animava la tensione ideale della politica del secolo scorso. La “visione” si fondava sulla comune esigenza, che animava la giovane democrazia nata dall’antifascismo, di cambiare le basi del sistema. La più eloquente testimonianza la troviamo nel commento alla Costituzione di un grande costituzionalista, Piero Calamandrei, che sottolineava come quel testo avesse «un evidente valore progettuale, ponendosi decisamente contro il vecchio ordine sociale». Era il compromesso più alto a cui era giunta quella “democrazia antifascista” che si muoveva verso un controllo sociale della vita economica. “Oggi le schegge dello specchio in frantumi della cultura italiana, e non solo, considerano un delitto contro il fantomatico “Sistema” distinguere tra sistema democratico e sistema economico e sociale”. Scrive sempre Occhetto nel già accennato articolo sulla Repubblica. Chiediamoci dunque: se è possibile riprendere, solo come suggestione e in modo aggiornato, l’antica predicazione socialista che educava gli operai e i contadini i cittadini tutti a guardare verso un orizzonte? Se non vogliamo fare questo, bisogna avere coscienza che significa accontentarci di un eterno presente che già non sa più declinare correttamente passato, presente e futuro. A modesto parer mio, dopo aver esecrato le ideologie, è sterile coltivare la nostalgia di un passato glorioso di passione civile e politica. Occorrerebbe far rivivere quella passione in forme nuove dentro il gorgo della contemporaneità. A partire dalle passioni dei movimenti ecologisti, antirazzisti, femministi, per la pace e contro ogni violenza. In una sintesi alta tra questione ambientale e sociale, tra diritti civili e sociali. Consapevoli che quella visione unitaria delle grandi emergenze strutturali ha bisogno di un collante. Lo stesso indicato da Calamandrei: l’aspirazione a un ordine sociale nuovo e a un diverso modello di sviluppo, però nel contesto di un nuovo mondialismo. Prendendo le mosse da un’analisi severa della crisi della democrazia come condizione necessaria per farla sopravvivere in un mondo dominato da una torsione populista e autoritaria. Ma questo è un altro argomento ancora… Per il momento accontentiamoci a sollevare le questioni di atteggiamento e di metodo sul tema del “se e come” fornire una visione, articolata negli obiettivi, ma unitaria nelle aspirazioni, alla democrazia militante che si sente erede del lascito dei Padri e delle Madri Costituenti. Come non ricordare il peggioramento delle condizioni economiche e sociali del Paese che sta dicendo che: “da una decina d’anni si è capito che questo livello di iniquità è intollerabile, ma che questo non si è ancora tradotto in politica”. È vero che non si è ancora tradotto nella politica dei partiti, ma negli ultimi mesi i bassi salari, la precarietà, le diseguaglianze, le discriminazioni di genere sono stati al centro di molte proteste che hanno riempito le piazze italiane. Ricordiamole: il 7 ottobre “La via maestra” della difesa della Costituzione, con Cgil e 200 associazioni, per la democrazia e la pace, contro presidenzialismo e autonomia regionale differenziata; il 28 ottobre a Roma e il 10 dicembre ad Assisi le richieste di cessate il fuoco tra Israele e Palestina; il 17 novembre lo sciopero generale di Cgil e Uil contro la legge di bilancio e l’impoverimento del lavoro, con varie manifestazioni successive; il 25 novembre la grandissima piazza delle donne contro violenza e patriarcato. E in occasione della Cop28 sui cambiamenti climatici, gli ambientalisti hanno continuato a chiedere l’uscita dalle energie fossili e cambiamenti radicali nei processi produttivi e nei consumi. È difficile non vedere in queste mobilitazioni un riflesso del peggioramento delle condizioni del Paese, aggravato dalle politiche del governo di Giorgia Meloni; la cancellazione del reddito di cittadinanza e del decreto dignità, l’opposizione al salario minimo legale, una seconda legge di bilancio che favorisce i privilegiati, taglia i fondi a sanità e welfare mentre aumenta spese militari e fondi per il Ponte sullo Stretto, facendo felici le agenzie di rating. Mentre si estende la “flat tax” ai lavoratori autonomi, sull’Irpef c’è l’accorpamento dei primi due scaglioni di reddito con l’aliquota al 23%, che porta un vantaggio di soli 20 euro mensili ai lavoratori, con un costo di 4 miliardi. Il taglio del cuneo fiscale (quasi 15 miliardi) distribuisce poche decine di euro ai salariati, facilita le imprese e dovrà essere rifinanziato con fatica l’anno prossimo. Una “politica delle mance” che è del tutto inadeguata di fronte all’impoverimento delle classi medie e popolari del Paese. Vediamo i dati. Dopo il grande rimbalzo del Pil, tra il 2021 e il 2022, pari a circa l’11%, realizzato grazie alle politiche espansive e di sostegno alla domanda, la crescita è tornata allo “zero virgola”: 0,6%-0,7% nel 2023 e nel 2024. I dati positivi sugli occupati nascondono impieghi precari, con poche ore lavorate e salari molto bassi. Proprio i salari sono stati i più colpiti dall’inflazione — all’8,7% nel 2022, al 5,7% nel 2023 — che ha eroso in due anni del 15% del potere d’acquisto di moltissimi lavoratori dipendenti e pensionati. Un calo che giunge dopo 30 anni in cui i salari reali medi degli italiani, tra il 1990 e il 2020 sono diminuiti del 2,9%, caso unico in Europa. Il lavoro povero è stimato al 13%, mentre le famiglie a rischio di povertà sono il 22%. Le diseguaglianze di reddito sono cresciute per effetto della pandemia e dei rincari dei prezzi, e la cancellazione del reddito di cittadinanza ha rimosso la misura principale che aveva rallentato lo scivolamento verso il basso dei più poveri. E poi ci sono le discriminazioni contro le donne. Secondo il rapporto Inps 2022, in Italia nel settore privato le donne guadagnano tra il 16 e il 25% in meno degli uomini. Sono attive soprattutto in settori a bassi salari, con contratti più precari. Chi diventa madre ha una probabilità quasi doppia di non avere più un lavoro nei due anni successivi, e gli asili sono disponibili solo per un bambino su quattro. Le donne pensionate hanno in media una pensione del 25% inferiore agli uomini. Una lista di disparità che potrebbe continuare a lungo. Chi volesse ascoltare le rivendicazioni delle piazze di questi mesi, troverebbe le voci dell’impoverimento del paese, la denuncia di politiche sbagliate e molte proposte concrete; un dibattito su questi nodi si è aperto sul sito di Sbilanciamoci, il cartello di 50 associazioni che chiedono politiche diverse. Le misure alternative che potrebbero dare qualche prima risposta al disagio del Paese sono, dopotutto, ben note. La caduta dei salari reali dovuta all’inflazione si potrebbe affrontare con il rinnovo puntuale dei contratti di lavoro, che sono scaduti nel 70% dei casi. Un salario minimo indicizzato ai prezzi tutelerebbe i redditi più bassi. Ridurre la precarietà e il numero dei contratti di lavoro tutelerebbe soprattutto le donne e i giovani. Rifinanziare la sanità, gli asili, la scuola, i trasporti pubblici, la casa offrirebbe servizi pubblici essenziali, più importanti di qualche sussidio monetario. A ben vedere, le piazze hanno ricominciato a essere frequentate anche dai partiti. Contro l’abolizione del Reddito di cittadinanza e del decreto dignità, il 17 giugno 2023 c’era stata la manifestazione “Basta vite precarie” promossa dal M5S. E contro la legge di bilancio e “per una Italia più giusta” il Pd ha riempito Piazza del Popolo a Roma l’11 novembre scorso. E perfino in Parlamento qualcosa è successo: nel luglio scorso i partiti d’opposizione (M5S, Pd, Avs, Azione) hanno presentato una proposta comune per un salario minimo legale a 9 euro lordi l’ora, poi bloccata dal governo Meloni, in una partita che non si ancora chiusa. Se si parte dalle vite delle persone, dalle mobilitazioni che sono già in corso, le condizioni per larghe convergenze sociali — e per una diversa maggioranza nel Paese — potrebbero essere meno lontane di quanto si possa vedere dai palazzi della politica. Come abbiamo visto, un lascito che si basa su due pilastri: la centralità del mondo del lavoro e la radicalità del cambiamento sociale. Senza quello, altro che “sonnambuli!” Sarà “il sonno della ragione” che rischierà di precipitarci in un mondo dominato dalla logica esclusiva di una geopolitica contrassegnata, una volta di più nella storia, dalla guerra e dalla violenza…

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