Diamo così per scontate la nostra pace, libertà e democrazia che spesso non ricordiamo attraverso quale percorso sono state ottenute: guerre, resistenza, carneficine. E così alcuni, pur di rigettare gli orrori del mondo sono disposti a legittimare con capovolte retoriche una mostruosità come l’aggressione all’Ucraina… Il conforto che siamo soliti ricavarne è raro. Siamo nati dalla parte più fortunata del mondo, quella che ci permette di godere di un sistema politico ispirato da valori come la giustizia, la libertà, la pace e la sovranità democratica (seppur con palesi contraddizioni). Allungando lo sguardo a ciò che è lontano da noi, possiamo accorgerci di quanto, ancora oggi, le democrazie siano un’eccezione, e non la regola. Maturare una visione d’insieme dal di dentro, immersi come siamo nell’oggetto che si vuole riflettere, può risultare complicato. Più facile sarebbe osservarlo dal di fuori, nella distanza da ciò che abbiamo imparato a dare ormai per scontato, come se questo sistema che si basa su principi esatti e inderogabili fosse da sempre esistito. Inquadrarlo, insomma, da un altrove. Un esempio storico: qualcosa di simile dev’essere accaduto agli astronauti della missione Apollo 8, quando, circondati dal mistero dell’oscurità cosmica, hanno scattato una delle fotografie più celebri dell’umanità: uno scatto pervaso in ogni suo minimo dettaglio dai sorprendenti enigmi della natura, così suggestivo da restare impresso nella memoria di tanti di noi. Per la prima volta nella Storia degli uomini hanno fotografato la Terra dal satellite che le gira attorno, la Luna. Il 24 dicembre del 1968 dall’Apollo 8 Bill Anders scattò l’istantanea di un’alba inedita. La Terra sorgeva oltre l’orizzonte lunare. Ed ecco in un colpo d’occhio, l’imponente sfericità del nostro pianeta, tutta la sua rotondezza, una forma percepibile solo come dottrina, o come messa in scena del sapere scientifico… L’evocazione di tipologie di governo diverse dalla nostra, più ingiuste e più restrittive, è un atto mentale simile a chi avanza su una strada dritta pur sapendo, dentro di sé, che quella strada non è altro che un minuscolo segmento di una superficie rotonda. Se si vuole esprimere un’opinione su ciò che accade nel mondo, in sistemi lontanissimi dalle nostre tutele, c’è bisogno dello stesso sforzo d’immaginazione e di una presa di coscienza che parta ugualmente da dati reali. Forse, questa serpeggiante diffidenza verso i privilegi accordati delle democrazie si lega a un sentimento di delusione. Speravamo che fosse in parte in un altro modo, un modo più giusto, poi così non è stato, non nelle forme che ci eravamo augurati, e alcuni di noi si sentono traditi o disaffezionati. Può darsi sia questo, chissà. Tuttavia, alle prese con la sconfortante consapevolezza di ciò che stenta ancora a muoversi nel verso giusto, sarebbe utile rivolgere gli occhi più in là, nel confronto con forme di potere differenti, tanto da riappropriarci delle dovute differenze. Potrebbe allora sembrarci di vivere, non dico nel migliore dei mondi possibili, ma in una comunità, come quella europea e come la rete delle sue alleanze, a cui non si può negare il rispetto di alcuni valori essenziali. Dal 24 febbraio dello scorso anno, gli uomini dell’esercito di chi ha invaso uno Stato sovrano, i russi, e sul fronte opposto gli uomini aggrediti, gli ucraini, che continuano ostinatamente a difendersi, partecipano a una guerra ferocissima. Sono uomini come noi, gli uni e gli altri. Una sterminata umanità dentro cui muoversi, come scriveva Elias Canetti: “…fino a sentirne lo strazio, e tutta l’angoscia, per poi uscirne facendo appello all’unica via di fuga concessa: il meccanismo di difesa che rende possibile abitare in un mondo ricolmo di orrori, senza caricarsi sulle spalle il dolore di ogni individuo che lo popola. Poi però tornarci col pensiero. Per chi crede, con una preghiera. Inquadrata da questa prospettiva, direi umanitaria, la questione è semplice: come non smarrirsi nel dolore di chi, a differenza nostra, è costretto ogni giorno alla minaccia della morte? Di chi subisce per sé e per i propri cari l’incombenza di un pericolo fatale?”. Temo, però, non sia questa l’unica lente attraverso cui riflettere sulla questione. Oltre al lancinante pensiero di uomini costretti al fronte, che attaccano o che resistono in nome di valori essenziali quali la democrazia e la libertà, soldati che si sterminano alle porte della nostra Europa, c’è bisogno di una riflessione meno emotiva, capace di scivolare dalle parti del ragionamento cosciente. L’immaterialità di un principio, per quanto alto possa essere, sembrerebbe sacrilega rispetto alla consistenza fisica del sangue, dei brandelli di carne, rispetto ai corpi dilaniati e senza vita di uomini, di donne e bambini, di giovani o anziani. Ciò nonostante, è appunto l’immaterialità dei principi ad aver orientato la nostra concezione di mondo, permettendo la nascita delle democrazie. Perfino l’idea di una pace duratura che sarebbe stata assicurata dalla scacchiera di Paesi europei governati da un’uguale forma politica, era all’inizio soltanto congetturale. Un’utopia. Ma è da qui che siamo giunti alla costituzione dei nostri sistemi di tutela. È dall’immaterialità di valori essenziali e condivisi che viene a plasmarsi l’assioma attraverso cui prende forma la modernità del nostro vivere insieme. L’Unione europea è stata edificata a partire dalla luce di questi valori: ci siamo dotati di diritti e di doveri, di garanzie, di tutele, di libertà. Nulla, in questo percorso, è stato esonerato da un certo grado di sgradevolezza, di profonde ingiustizie, di dolore o di morte. Immersi negli orrori del mondo, fra le due, possiamo scegliere di sentirci a nostro agio rifiutando qualsiasi forma di violenza, o di sentirci nel giusto. Avendo negli anni coltivato un’idea di libertà dovuta e perenne, abbiamo in parte rimosso cosa ci ha condotto fino a qui: le guerre, la resistenza, fiumi di carneficine. La libertà garantita dallo Stato di diritto è una conquista recente da dover guardare sotto stretta sorveglianza, e da dover difendere, opponendosi all’illusione che sia un primo passo a cui ne seguiranno per forza altri nella via del progresso. Convincersi del contrario per sentirsi a proprio agio, invece che nel giusto, porta dalle parti di un paradosso: pur di rigettare gli orrori del mondo, siamo disposti, in una vertigine di capovolte retoriche, a legittimare delle mostruosità. Viene in mente il paradosso esposto da Ralf Dahrendorf, noto come “Paradosso di Martínez”. Siamo nel 1986. In Nicaragua, il sole cade verticale sulle coste frastagliate, sulle spiagge sabbiose e sui vulcani. Come un qualsiasi turista, lo studioso e politico tedesco entra in uno dei negozi posti in fila sul corso di Managua e fa un giro fra gli scaffali. Preso da un sentimento di desolazione, osserva ammutolito i ripiani quasi vuoti. Più tardi, quando avrà modo di confrontarsi col ministro del Commercio, Alejandro Martínez, chiedendo spiegazioni si sentirà rispondere: «Prima della rivoluzione, i grandi magazzini della capitale erano strapieni. Vi si trovava tutto ciò che un americano trova a Miami. Ma la maggioranza della gente non poteva permettersi praticamente nulla di ciò che era esposto, così abbiamo cancellato tutto: ogni abitante del Nicaragua oggi può permettersi ciò che si trova da comprare!». La rivoluzione, dunque, che trasforma un mondo ingiusto di abbondanza per pochi, in uno altrettanto ingiusto di scarsezza per chiunque. La guerra è ingiusta. Uccidere un proprio simile è ingiusto. Dare il via a un’aggressione militare in nome di una spietata ideologia imperialistica è incredibilmente ingiusto. Difendere con le armi la libertà del proprio Stato sovrano è giusto, certo, ma se riduciamo la scala soffermandoci sul singolo soldato pronto a morire per l’indipendenza del suo Paese, anche questo destino non può che apparirci ingiusto. Confutare l’ingiustizia di un conflitto sarebbe impossibile per chiunque. Ma è una premessa, questa, che non può confondersi con lo svolgimento. Il punto è che esistono diversi gradi di responsabilità, diversi gradi di pericolo, e che un ragionamento sensato dovrebbe annidarsi rigorosamente fra queste pieghe. Muoversi dentro agli uomini, come scrive Canetti, per accogliere l’oscurità dell’esposizione alla morte è un imperativo umano. A cui segue una strada che è battuta dal riflesso della ragione, spietata e brutale, ma necessaria. L’Unione europea è formata da una comunità di Stati che promulgano scelte di governo a volte sorde ai problemi reali, e a volte inesatte – non mi dilungherò sulle politiche migratorie, la platea dei diritti civili, il ritardo sulla transizione ecologica… – ma resta comunque un paradigma che ci ha accordato maggiore stabilità, maggiori tutele e un benessere più diffuso. Il confine della nostra Europa, che è a volte ingiusta, ma come ogni forma di governo perfettibile, si trova ora a ridosso di una linea immaginaria; eppure, viva: di difesa d’inderogabili principi. La guerra mossa da Vladimir Putin all’Ucraina vuole trasformare uno Stato di diritto in cui non tutti (ancora oggi) hanno di fatto accesso alla stessa dose di libertà, in uno Stato dove la libertà diventerebbe un lusso per chiunque. Eccolo il paradosso di chi non vuole o non arriva a cogliere le dovute differenze. Davanti agli orrori del mondo, come lo è una guerra, possiamo sentirci a nostro agio ripetendo formule vaghe da cui erompe generica la parola “pace”, oppure stare dalla parte del giusto. Ragionando. Proponendo quanto è realmente fattibile. Rivendicando la difesa – anche armata – di valori essenziali, ottenuti in passato con il sacrificio e con la morte. Nulla è perenne, soprattutto i diritti. È la Storia che ce lo insegna…
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