Politica: la traversata nel deserto della riforma impossibile. Il premierato di Meloni e la mitologia decisionista…

Come scrive Massimo Cacciari sulla Stampa di qualche giorno fa: “Chissà quale dèmone maligno convince i nostri giovani leader – prima Renzi e ora la Meloni – a tentare il suicidio con improvvide avventure di riforme istituzionali”. Alcune differenze. Quella renziana era, se possibile, di impianto più generale e affrontava, pur a spizzichi e bocconi, nodi che davvero sono tra le cause del trentennale blocco del Paese: dal sistema bicamerale all’esistenza di Enti come le Provincie, chiaramente eliminabili con una articolazione razionale delle funzioni amministrative tra Regioni ed Enti Locali. Questa della Meloni si concentra invece esclusivamente sul “simbolo” del Premierato. È un tributo alle mitologie decisionistiche. Almeno questo è quello che rimane delle promesse elettorali. Che possa poi farle dimenticare è altra questione. Che sia un calcolo veramente intelligente lascia più di qualche dubbio. Già si levano alte le grida di tutti i difensori della Costituzione. Già si affilano le armi per il prossimo referendum. La domanda è d’obbligo: È così certa la nostra premier di superare l’eventuale prova? Mi pare di ricordare che anche Renzi fosse partito col 40% dei voti… lei ci arriva con due alleati (Lega e Forza Italia) non si è ancora capito quanto gli stessi al di là della facciata, condividano effettivamente la Premier sulla materia e anche altro. Ecco che la “madre di tutte le riforme” si appresta ad affrontare la sua lunga, e presumibilmente difficile, traversata nel deserto. Scritta in fretta e male, la ‘sgangherata’ rivoluzione della Carta, che secondo la Presidente del consiglio Giorgia Meloni «dovrebbe aiutare la nazione a credere in se stessa e a guardare in alto», minaccia invece di ribaltare gli equilibri tra i poteri, lobotomizzare definitivamente il Parlamento, confinare nello scantinato delle istituzioni ornamentali la Presidenza della Repubblica e consegnare nelle mani dei nuovi Caudilli di destra, di centro e di sinistra, un ‘potere bullo’, legittimato da una base elettorale sconfortantemente minoritaria. La Persona sola al comando come supposto rimedio all’impossibilità di immaginare un futuro collettivamente condiviso, ragionato, discutibile e, soprattutto, contendibile. Il Totem decisionista, contro lo sfarinamento dell’ingovernabilità. Dopo decenni di baruffe, governicchi, tecnici, improvvisatori, voltagabbana, vanagloriosi e furbetti, è finalmente pronto il rimedio ad ogni male. Dai social ai partiti tutto è personale e personalistico, perché non dovrebbe esserlo anche la stella cometa delle nostre leggi? La nostra Costituzione è considerata la “più bella del mondo”. Ma, il modo migliore per rovinare le repubbliche è quello di impedirne a tutti i costi la riforma del loro assetto istituzionale. Le repubbliche sono organismi che vivono fino a quando si trasformano. Il problema vero però, è che non ogni innovazione funziona, che le novità non sono belle in quanto novità. E, anzitutto, che in un sistema politico tutto si tiene, e se muti una parte devi mutare l’architettura dell’insieme. Ora, ciò che davvero riempie di filosofica meraviglia della riforma Meloni è il sovrano dispregio per questa logica di “sistema”. Forse un Dio acceca coloro che vuole perdere, ma come è possibile non vedere la formidabile contraddizione che si introduce nel nostro assetto istituzionale tra un Presidente Capo dello Stato, eletto dal Parlamento, e un Premier eletto direttamente dal “popolo sovrano?” Un Presidente che mantiene sostanzialmente tutti gli straordinari poteri che la Costituzione gli attribuisce, da quello di capo delle forze armate a quello di garante dell’autonomia della Magistratura, in quanto presidente del Csm, nonché quello di potersi “appellare” alle Camere, ma esautorato da ogni possibilità di influenzare l’azione legislativa. Un pasticciaccio bruttissimo. L’ elezione diretta del Presidente del Consiglio che costituisce il suo governo e ne è il premier. Di doppioni in Italia ne abbiamo già a bizzeffe. Non si segue la via diritta soltanto per debolezza politica e si crede che un pasticcio sia più digeribile di un bel piatto forte. Ma poi, volendo una vera riforma in senso decisionistico, risulterebbe subito evidente la necessità di predisporre validi contrappesi. E i possibili sono noti da tempo: una riforma del Titolo V in senso autenticamente federalistico, affrontando finalmente in modo serio uno dei problemi storici del nostro Stato, che l’istituzione delle attuali Regioni ha reso ancora più grave, quello del rapporto tra Centro e “periferie”. Troppo difficile? Può darsi, ma senz’altro idea assente in forze per cultura politica prima che per interesse elettorale del tutto centralistico-romane come Fratelli d’Italia. Il peccato mortale di questo disegno di riforma sta però altrove, nel credere o nel fingere di credere o nel volerlo dare a intendere che il problema-chiave che impedisce il funzionamento del nostro Stato stia nel suo “cuore” politico, dentro ai “palazzi di regime”, tra Quirinale e Palazzo Chigi. L’ultimissimo dei nostri problemi è quello del gioco Presidente-Premier, anche qualora venisse affrontato secondo una logica di sistema e non all’amatriciana. È la macchina amministrativa, nel senso generale del termine, che va sbloccata: semplificando, delegiferando, costruendo testi unici in tutti i capitoli essenziali dell’intervento pubblico. Abbiamo un sistema legislativo pachidermico, fatto di interferenze, sovrapposizioni, conflitti di competenze, prodotto di decenni di compromessi e aggiustamenti occasionali alla rincorsa di benefici elettorali a breve. Abbiamo un personale della Pubblica Amministrazione che viene sempre più selezionato in base a lottizzazioni e spoil-system. E ce ne stiamo accorgendo drammaticamente in questi mesi: come incardinare i 220 miliardi di debito cortesemente concessoci dall’Europa (una volta, vero Meloni? Vero Salvini?) matrigna? A che punto siamo? Alzi la mano chi davvero lo sa. È sul rapporto efficiente tra Stato ed Enti Locali, è sulla baracca della Pubblica Amministrazione (ivi compresa l’Amministrazione della Giustizia) che si fonda la realizzazione del PNRR. E non dovrebbe allora essere la sua riforma la priorità delle priorità? Che altro deve essenzialmente fare il nostro Governo se non definire gli obbiettivi del Piano e cantierarli con tempi sicuri? Su cos’altro sarà giudicato? Sulle sue capacità di arrestare il conflitto in Ucraina o in Palestina? Qualcuno ci crede? Ed ecco, Palazzo Chigi come specchio del nostro Monumentale Io, Montecitorio e Palazzo Madama come incarnazione dell’aborrito Noi. L’Italia è sepolta da una montagna di norme: nessuno sa esattamente quante leggi abbiamo. La parola bicamerale è tabù, ma per rovesciare i paradigmi alla base della convivenza sociale servirebbe uno spazio di agibilità che al momento non si vede. O che, peggio, nessuno vuole. Dove sono le proposte alternative dell’opposizione? Ma, soprattutto, dov’è l’opposizione? Che faccia ha? Che idea di Stato ha in testa? Quali ricette per il futuro? Perché non pretende di partecipare almeno alla riscrittura delle regole? Domande ingenue per un’Italia cinica e incattivita. Siamo di fronte al velleitario tentativo della disintermediazione finale: pensaci tu, capo, che io ti guardo dal divano. Pesi, contrappesi, bilanciamenti? Nella riforma che rovescia il rapporto tra potere esecutivo e potere legislativo, non ce n’è neanche l’ombra. Scenario: ve lo immaginare un premier capace di vincere le elezioni col 25% scarso di voti che incassa un premio di maggioranza del 55% dei seggi e si mette a capotavola per un lustro in un Paese in cui il primo partito – per larghissimo distacco – è ormai quello dell’astensione? Ma quale reale legittimità avrebbe? Quale sensibilità rappresenterebbe? Quale parte del Paese? Di chi sarebbe portavoce, se non di sé stesso? Governabilità forzosa e stabilità della democrazia sono due cose molto diverse. La prima è pericolosa, la seconda un obiettivo legittimo che questa riforma non sfiora neppure. A monte di questo “pastrocchio”, che inquieta il Colle, incrina i rapporti istituzionali e lascia immaginare scenari da notte dei lunghi coltelli all’interno di falangi politiche in cui il numero due passerà le giornate a studiare come fare le scarpe al numero uno per prenderne il posto, resta un dubbio: che cosa immagina per sé il Presidente del consiglio e che cosa immagina per i suoi successori? Ci vuole raccontare che l’incapacità di utilizzare il Pnrr dipende da una scarsa agibilità del governo? Che le manovre in deficit e indifferenti alla crescita dipendono dagli scontri parlamentari? Che non abbassa le tasse perché la maggioranza litiga? Tutto fa sorridere… ma per evitare di piangere! Ma sarebbe comunque un motivo. L’impressione, purtroppo, è che siamo di fronte all’ennesima casuale scommessa sulla pelle degli italiani, di tutti gli italiani. Se tutto andasse sorprendentemente liscio, tra doppio passaggio alle Camere e inevitabile referendum, l’“Italierato” non vedrebbe la luce prima del 2027. Meloni avrebbe (e avrà) il vantaggio di arrivare alle prossime elezioni europee accompagnata dall’immagine di guida forte e risoluta, però attraverserebbe gli anni successivi condizionata non solo dalle prevedibili tempeste economiche, ma anche dall’instabilità che il dibattito sullo stravolgimento costituzionale moltiplicherà. Senza contare le più che mai possibili dimissioni di un Presidente della Repubblica obbligato a prendere le distanze da uno scenario radicalmente mutato. Un triplo fardello che, sommato agli squilibri militari internazionali, rischia di metterla in ginocchio allo scadere del mandato. E tutti noi con lei. A quel punto nemmeno i tanto vituperati tecnici (cancellati dalla abborracciata rivoluzione dirigista) potrebbero più intervenire per portarci fuori dai guai… Tutti elementi che sollevano molti dubbi sulla fattibilità della riforma. Tanto più sacrificabile quando sarà chiaro, come sempre, che chiunque siederà a Palazzo Chigi non sarà giudicato per gli alambicchi da legulei che interessano solo i Palazzi, ma per il potere d’acquisto dei salari, l’importo delle pensioni e il costo di un litro di benzina. Le rivoluzioni improvvisate sono un alibi buono per tutte le stagioni. «Senza questo sistema paludoso vi avremmo cambiato la vita». Ma il problema non sono mai i sistemi, sono le persone. Ancor di più le idee. Una, per esempio, sarebbe di soprassedere su questa estenuante discussione, per ripartire ancora una volta da Norberto Bobbio: «Il futuro delle democrazie, oggi più che mai, risiede nella democratizzazione dei sistemi internazionali. Nel ricordarlo, sono perfettamente consapevole che si tratta di una meta ideale. Ma se non ci si propone una meta, non ci si mette nemmeno in cammino». Arriviamo così alle ultime due domande. La prima: è più utile rinforzare il proprio potere in casa, rimanendo imbrigliati in una rete di pensiero novecentesco, o è meglio cercare di guadagnarne nelle stanze europee dove davvero si decidono i destini collettivi? La seconda: qual è la meta che il governo ha in testa, un banale, continuismo con il berlusconismo del: “Ghe pensi mi”. Ancora? Ma No, dai, non può essere. Forse prendiamo troppo sul serio la riforma Meloni. Forse siamo di fronte all’ennesima “distrazione di massa”, su cui i media cadono puntualmente. Sembra non esservi modo di frenare l’inflazione, i salari in termini reali sono diminuiti rispetto a quelli di trent’anni fa, cresce la povertà anche di chi lavora. Di fronte a ciò fisco e spesa continuano a non operare in termini di reale progressività. Troppo difficile, anzi impossibile per questo Governo non dico affrontare, ma parlare almeno (come fanno le cosiddette opposizioni) di politica fiscale e redistributiva. E allora? Allora facciamo discutere di Presidenza e di Premier, risolleviamo il solito polverone tra pseudo-riforme e conservatori a oltranza, che si son sempre tenuti per mano, da sempre perfetti alleati nell’impedire che i nodi del nostro sistema politico e amministrativo venissero tagliati per davvero…

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