Politica: Lasciate che Draghi sia Draghi. Un Governo con un piano per la ripartenza: già si parla di ‘draghismo’ un’idea riformatrice e si accenna al futuro politico di Super Mario per evitare che la sua eredità politica non vada dispersa troppo presto…

Secondo il mio modesto parere: la prima conferenza post quirinalizia di Draghi dimostra che ne è valsa la pena. La strada verso la piena riabilitazione dell’Italia dall’ubriacatura populista è ancora lunga (vedi il casino del superbonus), ma se alle buone notizie su Pil e sul Pnrr aggiungiamo anche la riforma della giustizia, obiettivamente, c’è da chiedersi che cosa si può volere di più? Certo, per quanto riguarda il virus, dobbiamo augurarci che sia la volta buona e che tanto entusiasmo non sia prematuro, specialmente dopo le numerose incertezze che hanno caratterizzato l’azione del governo da dicembre in poi, come ci ricorda purtroppo il quotidiano e ancora pesantissimo bollettino delle vittime. Ma i segnali che dopo lo sbandamento dell’ultima fase l’Esecutivo abbia ripreso la rotta, grazie al cielo, non mancano. All’indomani della rielezione di Mattarella e della conferma dell’equilibrio politico miracolosamente raggiunto l’anno scorso, Draghi può dunque confermare anche una politica economica espansiva che ha dato sin qui frutti insperati. E può anche permettersi di sottolineare, neanche troppo implicitamente, la differenza tra una politica espansiva e una politica populista, vedi i casini combinati dal suo predecessore sul superbonus, dove la demagogia ha finito per spianare la strada a sprechi, truffe e corruzione. Una norma scritta in modo da consentire, parola del ministro dell’Economia, Daniele Franco, «truffe che sono tra le più grandi che questa Repubblica abbia visto», partorita dal partito che doveva far tornare di moda l’onestà. Quel Movimento 5 stelle il cui quasi ex leader, Giuseppe Conte, ha passato l’ultima campagna per le amministrative parlando praticamente solo del superbonus (con risultati elettorali peraltro pessimi). Mario Draghi aveva anticipato qualche giorno fa, in conferenza stampa, che il Governatore della Banca d’Italia avrebbe annunciato dei dati sul debito assai incoraggianti, e ha dichiarato che sul rincaro dell’energia il governo effettuerà un intervento deciso, perché la priorità è evitare che la ripresa venga «strozzata» dall’aumento delle bollette. Di più – ha spiegato quello stesso presidente del Consiglio che qualcuno ancora descrive come un tecnocrate attento solo ai conti, al rigore, all’austerity – che una crescita sostenuta è per l’Esecutivo la strada principale anche per tenere sotto controllo il bilancio e affrontare i mercati. Ennesima dimostrazione di quanto improprio sia il paragone con il governo di Mario Monti (non solo, va detto, per responsabilità di Monti, perché diversissimi erano allora gli equilibri in Europa e anzitutto la posizione della Germania). La strada verso la piena riabilitazione dell’Italia dall’ubriacatura populista, come si vede, è ancora lunga e difficile, ma se alle buone notizie economiche aggiungiamo anche il tentativo di porre finalmente un freno alla possibilità dei magistrati di fare avanti e indietro dalla politica e dalle istituzioni, obiettivamente, cos’altro volete? A parte la proporzionale, s’intende, che per inciso non ha niente a che vedere con l’idea di trasformare Draghi nel delfino di Clemente Mastella (prospettiva da cui non sorprende “con qualche irritazione” si sia tirato indietro). La ragione per cui è necessaria non è infatti l’esigenza di costruire un nuovo partito liberaldemocratico, ma quella di difendere la democrazia liberale, che è cosa leggermente diversa e anche un po’ più importante. Il premier ha fatto benissimo a escludere categoricamente di voler fare politica centrista nel 2023. Del resto, non è né Mastella né Toti (quello che inseguiva i Ciampolillo era il suo predecessore). Non è nemmeno Monti. È soltanto il più adatto a risanare e a rilanciare l’Italia. E comunque a Palazzo Chigi forse hanno imparato la lezione di tecnica politica del Capo dello Stato. Pensate per un attimo cosa sarebbe stato dell’Italia in questi anni se il vincitore delle elezioni del 2018 – fosse stato Matteo Salvini, come leader della coalizione più votata, o Luigi Di Maio, come leader del partito più votato, fa lo stesso – avesse potuto imporre davvero il proprio governo e il proprio programma, per cinque anni, senza discussioni né mediazioni, in base al ritornello secondo cui dovrebbero essere gli elettori a decidere in un sol colpo Presidente del Consiglio, Governo e maggioranza. Facciamo finta per un momento che questa antica idea (del tutto incostituzionale), a forza di ripeterla, si fosse già completamente affermata prima delle ultime elezioni. Il meno che si possa dire è che avremmo rischiato di attraversare la pandemia fuori dall’euro, se non direttamente fuori dall’Unione europea. E oggi ci troveremmo in una situazione assai meno incoraggiante. E meno male che Mario Draghi ha escluso categoricamente di voler federare il centro e altre piccinerie da talk show tipo quella, a lui invero più cara, del semipresidenzialismo di fatto. Mario Draghi non è Conte, né Mastella o Toti e men che meno Renzi & compari… Mario Draghi, invece, è uno soltanto. Draghi non è nemmeno Mario Monti e, infatti, naturalmente e giustamente ha detto con fermezza mista a fastidio di non volersi impegnare in politica. Una risposta perfetta, intanto perché chi da tempo auspica che Draghi continui a governare fino alla scadenza della legislatura e poi che, dopo le prossime elezioni del 2023, torni a guidare il governo non si è mai sognato di immaginarlo alla guida di uno schieramento politico, figuriamoci in qualità di federatore di un fantomatico Centro sono in pochi ad auspicarlo”. Draghi rischia di fare la fine di Monti? Era diventato il “life motive” il classico argomento fantoccio, una vera e propria fallacia logica di chi confutava una tesi seria proponendone una rappresentazione distorta. Chi voleva, vuole e vorrà Draghi a Palazzo Chigi è sempre stato mosso dalla necessità di sostenere un governo efficace, efficiente e con la testa sulle spalle su economia e pandemia. E poi, all’inizio della prossima legislatura, magari grazie anche all’attribuzione dei seggi parlamentari ai partiti in proporzione ai voti ricevuti, dall’idea che le forze politiche repubblicane, europeiste e atlantiche possano indicare durante le consultazioni con il Capo dello Stato il nome di Mario Draghi come Presidente del Consiglio, per completare l’attuazione del piano di ripresa nazionale ed evitare di sprecare l’occasione di far ripartire la società italiana. In molti non l’hanno capito, ed è evidente che i consiglieri impolitici di Draghi mostrino ancora il broncio come adolescenti cui è stato bucato il pallone a causa del fallimentare tentativo di traslocare al Quirinale. Anche nei toni del premier traspare una certa insofferenza per come sia andata a finire, ma la risposta di Draghi è perfetta anche perché, consapevole o no, il team di Palazzo Chigi potrebbe aver imparato la lezione chiamiamola degli scatoloni di Mattarella, quella secondo cui il modo migliore per essere pregato di restare in un posto di prestigio e di potere è quello di negare, negare e negare di volerlo fare. Il ritrovato dinamismo del governo e i numerosi obiettivi da raggiungere per ricevere la seconda rata di finanziamenti europei, dopo che ci era stato spiegato che la missione era stata compiuta, dimostrano la necessità di avere Mario Draghi ancora a Palazzo Chigi e non al Quirinale, dove al massimo avrebbe potuto rifare il cappotto termico col superbonus e non cominciare a smantellare l’impalcatura della facciata di cittadinanza decisa dal governo Conte. Il Draghi migliore è quello che governa, non quello cui si chiede di fare un altro mestiere. Lasciate che Draghi faccia Draghi. Come detto: “Il presidente del Consiglio ha escluso la possibilità di diventare il federatore del Centro per non cadere nella trappola del teatrino politico”, ma la sua esperienza di Governo non può e non deve smarrirsi alla fine della attuale legislatura. “Mi chiamo Mario Draghi, non Mario Monti”. Non l’ha detta proprio così ma mai come nell’ultima conferenza stampa il presidente del Consiglio è stato chiaro, pure troppo, persino tradendo del fastidio, pronunciando in conferenza stampa per due volte la formula magica – «lo escludo» – a due domande diverse ma analoghe sul suo impegno in politica. La prima volta escludendo di poter diventare il federatore del Centro; la seconda addirittura quasi a negare di essere il famoso «nonno delle istituzioni» come si autodefinì nella conferenza stampa del 22 dicembre. Cosa c’è dietro questa insolitamente dura presa di posizione del presidente del Consiglio? Non c’è dubbio che Draghi – ma questo lo aveva detto varie volte in forme più gentili – non intende essere tirato nella politique politicienne, nelle alchimie elettorali dei partiti, nella strumentalizzazione del suo prestigio da parte di chicchessia ed è immaginabile che quando si trovi a leggere di un per ora fantomatico centro che vorrebbe coagularsi interno al suo nome si inalberi. Anche se va detto che finora nessuno ha mai chiesto a Draghi di scendere in politica alla Monti né tantomeno di federare le piccole forze di centro, è probabile che il presidente del Consiglio abbia voluto giocare d’anticipo su possibili tentativi in quel senso e che più in generale sia molto seccato da tutti coloro («li ringrazio») che lo candidano a tutto: «Se per caso decidessi di lavorare dopo questa esperienza, un lavoro me lo trovo anche da solo», è stata la sua battuta destinata a restare nella storia politica di questi strani anni. Non farà mai un partito, non sarà il federatore di forze politiche, non assocerà il suo nome a operazioni politiciste o peggio elettoralistiche. Ma questo vuol dire, come ha riassunto qualcuno, che non farà più politica una volta terminata l’esperienza di questo governo? Il confine tra i vari concetti è labile. Ieri ha dato questa impressione: “quando ho finito qui, arrivederci”. È certo che Draghi faccia bene a voler restare fuori dal confuso e infelice dibattito che sconfina irrimediabilmente nella più prosaica lotta politica interna ai partiti (il caso Movimento 5 stelle) o agli schieramenti (Centrodestra) oppure si mantiene sempre su un livello di inafferrabilità come quello sulla costruzione del fantomatico Centro. Ecco, magari ha colpito il tono polemico, se non addirittura ritorsivo, del presidente del Consiglio (che fa scrivere a Travaglio che Draghi rosica perché i Partiti non lo hanno voluto al Quirinale) e in questo senso nessuno lo può escludere proprio come se quel «lo escludo» rappresentasse una vendetta; ma di certo Draghi ha tutte le ragioni per non cadere nelle trappole dei Partiti e nel teatrino politico. Adesso c’è tutto il suo impegno per governare nel miglior modo possibile il Paese e basta, lo dimostra da ultimo la diretta conduzione della partita sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura approvata dal governo. La questione semmai è un’altra, e non riguarda la sua persona ma la forza della sua esperienza: quello che si definisce: “il draghismo riformatore che non può e non deve smarrirsi con la conclusione del governo dell’ex presidente della Banca centrale europea, un esempio di buona politica – non solo di buon governo – che dovrebbe informare di sé i partiti riformisti e antipopulisti”. Come ha notato Stefano Ceccanti, «tutti si dovrebbero draghizzare ma senza eliminare differenze ragionevoli e doverose. Il Partito democratico, e tutto il centrosinistra, si deve immaginare in continuità dinamica con Draghi, non perpetuare grandi coalizioni che bloccano il sistema attraverso partiti di centro». È una strada, ammesso e non concesso che si dia vita a un polo draghiano: più facile sembra draghizzare il Pd e altri soggetti che volessero richiamarsi al presidente del Consiglio. Quanto a Draghi, resta il punto interrogativo sul suo futuro politico, perché l’idea affacciata da Giorgio Gori (Pd sindaco di Bergamo) che egli possa guidare il governo anche dopo le elezioni è tutt’altro che campata per aria e non solo nel caso che dalle urne non esca alcun vincitore. Certo, lui, il Presidente del Consiglio non è uno che ha da chiedere qualcosa alla politica, semmai è la politica che deve chiedere, e molto, a lui. E non è detto, com’è stato nel caso di Sergio Mattarella, che dopo le elezioni i partiti vadano in ginocchio a chiedere al “nonno al servizio delle istituzioni” di fare un altro giro…

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