Politica: L’attacco di Hamas. Il ruolo dell’Iran nella “trappola” di Hamas. Chi (e cosa) guadagna in questa guerra che apre nuovi scenari nel disordine globale…

«Abbiamo ricevuto il supporto diretto per l’attacco dall’Iran». Con queste parole era già intervenuto, Gazi Hamad, portavoce di Hamasa confermare il respiro regionale dell’offensiva lanciata dalla Striscia di Gaza contro Israele. La notizia poi è stata ulteriormente rafforzata dal Wall Street Journal, le cui fonti interne ad Hamas e Hezbollah hanno riferito che lunedì ci sarebbe stato un incontro a Beirut tra i loro rappresentanti e quelli di Teheran. Nell’occasione, questi ultimi avrebbero dato luce verde per l’operazione “Alluvione al Aqsa”. I missili lanciati dal sud del Libano, così come il comunicato dai toni intransigenti rilasciato dal Qatar, sembrano effettivamente prospettare una mobilitazione delle forze regionali vicine all’Iran. In presenza di un rapporto di forze asimmetrico, d’altronde, è tendenzialmente inverosimile che la parte militarmente più debole di un conflitto prenda una decisione di tale portata per ragioni esclusivamente interne e senza contare sul sostegno di attori esterni. Ancor di più nel caso di Hamas e Israele, dove il primo non ha il controllo dello spazio aereo e marittimo, quindi dipende necessariamente da partner esterni – ostili al secondo – anzitutto per il rifornimento di armi e tecnologia a uso militare. Come in ogni riflessione sul rapporto tra potere e violenza, pertanto, occorre interrogarci su quali siano state le ragioni che hanno indotto Hamas a compiere questo passo. E’ a fronte di una prospettiva di possibile pacificazione tra Israele e Arabia Saudita che è emerso il ruolo dell’Iran che soffia sul fuoco dei risentimenti palestinesi e dell’islam sciita. Questa nuova minaccia alla sicurezza globale non può che fare gioco alla guerra di Putin in Ucraina e al suo disegno imperiale. Mentre scrivo do uno sguardo agli ultimi resoconti sull’eccidio di Gaza che parlano di oltre 700 uccisioni di israeliani, la maggior parte civili, e di 2.500 feriti. La popolazione di Israele è stata colpita stavolta in maniera sistematica e organizzata non solo da attacchi missilistici ma pure da incursioni di gruppi di miliziani che al grido di “Allah è grande” hanno replicato le azioni proditorie dei tagliagole dell’Isis, non risparmiando anche inermi nuclei familiari da violenze indicibili e dalla cattura di ostaggi. Non c’è alcun dubbio che l’ultimo attacco di Hamas vada inquadrato non certo come un legittimo atto di guerra in self-defence, ma come una aggressione terroristica che non può trovare alcuna giustificazione negli oltre cinquanta anni di sofferenze del popolo palestinese o nel suo diritto a vedere realizzata l’aspirazione all’autodeterminazione. Tuttavia, come in ogni fase di escalation del conflitto israelo-palestinese un’analisi compiuta deve tenere conto della complessità degli scenari, in cui le responsabilità per stragi di civili del recente passato vanno ricondotte anche ad Israele, e le incomprensioni e le pulsioni verso le derive più estremizzate non possono essere considerate solo pendenti da una parte. Così come non può essere sottaciuto che da sempre le crisi del Medio Oriente sono state anche il frutto del “grande gioco” delle sfide egemoniche in cui si sono cimentati gli imperi coloniali, le grandi potenze della “guerra fredda” e oggi i nuovi attori che mirano ad emergere, alcuni proprio soffiando sul fuoco di antichi risentimenti e dello scontro ideologico e religioso. In questa prospettiva la guerra terroristica di Hamas va inquadrata ricostruendo un filo rosso attorno ad alcuni snodi cruciali più recenti, che meritano ciascuno qualche riflessione. Il mese scorso gli analisti sono rimasti sorpresi quando alla assemblea generale delle Nazioni unite il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha presentato il confronto di due mappe. La prima ha raffigurato l’Israele isolato del 1948, la seconda ha presentato una regione pacificata con i 6 paesi che hanno normalizzato i rapporti con lo stato ebraico: Egitto, Arabia Saudita e anche i quattro che hanno sottoscritto gli Accordi di Abramo nel 2020, Emirati Arabi, Bahrein, Marocco e Sudan. Nelle mappe non è comparsa una qualunque rappresentazione delle entità palestinesi, inclusa l’Autorità nazionale palestinese, e se a qualcuno è sembrata solo una semplificazione sono subito giunte nette le dichiarazioni del leader israeliano: «I palestinesi rappresentano solo il 2 per cento della popolazione, ad essi non dovrebbe essere riconosciuto alcun diritto di veto», riferendosi al percorso intrapreso con la pacificazione tra Israele e Arabia Saudita. Il fatto è che lo scenario che più volte la comunità internazionale ha cercato di promuovere secondo il modello “Una pace, due stati” sembra essere stato allontanato dagli ultimi programmi di Israele, specie dopo che l’ultimo governo di Netanyahu ha potuto formarsi solo con il sostegno delle componenti più radicali e ultranazionaliste di Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. Oltre alle proteste dei giovani israeliani moderati ci sono state persino quelle dei riservisti – una componente sociale fondamentale nel sistema israeliano – che hanno denunciato una deriva antidemocratica per l’iniziativa del governo di ricondurre la Corte suprema sotto il controllo politico. Queste circostanze sono ora viste alla base della paralisi istituzionale che sarebbe all’origine della mancata previsione dell’attacco e dell’inefficacia di tutto l’apparato di difesa, inclusi il sistema antiaereo “Iron Dome” e quello delle intercettazioni “Pegasus” finora ritenuti avanzatissimi. Hamas dal canto suo ha ritenuto che fosse giunto il momento per riprendere la leadership del jihadismo palestinese che nel frattempo si era frammentato in tante compagini. Ha quindi approfittato della crisi dell’Autorità nazionale palestinese e ha pensato bene di avvalersi degli armamenti e della rete ideologica del principale attore regionale rivale di Israele: l’Iran. Dietro Hamas c’è senza dubbio il disegno di Teheran di alimentare il conflitto non solo nella striscia di Gaza ma in tutta l’area, probabilmente mirando a coinvolgere i gruppi jihadisti della Cisgiordania, ma anche gli Hezbollah libanesi e forse pure gli altri miliziani siriani e iracheni. L’obiettivo dell’Iran è quello di sfruttare i risentimenti dei palestinesi e di molti arabi specie di matrice sciita per imporsi come attore decisivo nell’area regionale, puntando alla distruzione dello stato ebraico e ad inasprire la guerra ibrida contro gli Stati Uniti, principali sostenitori dei negoziati tra Israele e Arabia Saudita, anche questa nemica storica dell’Iran. Nello scenario non vanno dimenticati la guerra in Ucraina e il disegno imperiale di Putin: a Mosca non può che far gioco il disordine globale e l’apertura di un altro fronte che minaccia l’occidente. Il Medio Oriente torna ad essere un banco di prova perché nella comunità internazionale emergano attori “responsabili” capaci di reagire alla nuova jihad. Ma soprattutto occorrerà che ricompongano le condizioni per imporre una pace regionale, cominciando con l’affermare i princìpi della Carta delle Nazioni unite che impongono la via diplomatica per la risoluzione delle controversie internazionali. Sarà anche il caso che l’Unione europea stavolta si ricompatti attorno al tema della sicurezza globale e assuma in concreto una iniziativa diplomatica. Non limitandosi a fare da comparsa, o ad agire in ordine sparso. Risulta difficile credere che le restrizioni all’accesso all’area sacra di al Aqsa possano giustificare un attacco che potrebbe costare molto caro – in termini di vite umane, agibilità politica e danni economici – all’organizzazione terrorista palestinese. E quindi, almeno in relazione a quanto accaduto finora, chi sembra trarre vantaggi dalla situazione e che cosa sembra guadagnare? Teheran potrebbe essere il regista dell’operazione. Sicuramente è interessato a far saltare il tavolo negoziale per la normalizzazione delle relazioni tra Gerusalemme e Riad, che viene considerato lo scenario conclusivo del processo avviato con la sigla degli Accordi di Abramo. Non può che vedere come il fumo negli occhi, infatti, la possibilità che in Medio Oriente si compatti il fronte anti-iraniano. Meglio, invece, interagire con rivali, che restano a loro volta tali e che, dunque, continuano a disperdere le loro risorse politiche, diplomatiche e militari su più fronti. Letto in questa chiave, l’attacco di Hamas costituisce un ostacolo ingombrante a tale processo, come confermato dal comunicato del ministero degli Esteri saudita che, per quanto meno duro di quello qatarino, riconduce comunque la recente escalation al «perpetrarsi dell’occupazione» israeliana. Come riportato da Pietro Baldelli su Geopolitica.info, tuttavia, anche Gaza appare interessata a minare l’accordo israelo-saudita perché questo prevedrebbe – su richiesta del principe – Mohammad bin Salman un capitolo di nuove concessioni ai palestinesi. La guida di al Fatah, pertanto, ne risulterebbe rilanciata, mettendo potenzialmente all’angolo Hamas. Al netto dei costi umani, militari ed economici dell’attacco, quindi, la sua ratio andrebbe ricercata nei vantaggi politici, oltre a quelli di prestigio, che l’organizzazione terroristica ne ricaverebbe. Ponendo maggiore enfasi sulla spiegazione “locale”, piuttosto che su quella “regionale”, tuttavia, si potrebbe anche ipotizzare un assenso di massima all’attacco da parte delle autorità iraniane, eseguito però con un’intensità non necessariamente concordata. In tal prospettiva, le dichiarazioni rilasciate dai rappresentanti di Hamas potrebbero essere una mossa nella partita interna al “fronte iraniano”. Ovvero un tentativo di Gaza di “intrappolare” – così la teoria delle Relazioni internazionali definisce questa dinamica – Teheran chiamandola in causa come “mandante” dell’operazione al fine di esercitare su Gerusalemme una qualche forma di deterrenza in attesa della sua controffensiva. Perché, occorre ricordarlo, Israele si è ufficialmente dichiarato «in guerra».

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